Respinte le pretese avanzate da alcune dipendenti dell’Agenzia delle Dogane. Irrilevante, chiariscono i Giudici, il fatto che ai fini della retribuzione vi sia l’assimilazione delle ore di permesso concesse dall’azienda a quelle di lavoro.
Niente buoni pasto per la lavoratrice madre che usufruisce di un permesso per l'allattamento e quindi non raggiunge le sei ore di lavoro nella giornata. Irrilevante, precisano i giudici, che ai fini della retribuzione vi sia l'assimilazione delle ore di permesso concesse dall'azienda a quelle di lavoro. Protagonisti della battaglia giudiziaria sono l'Agenzia delle Dogane, da un lato, e sette lavoratrici, dall'altro. Sul tavolo c'è, tra l'altro, anche il riconoscimento dei buoni pasto per i giorni di lavoro in cui hanno usufruito di permessi per l' allattamento . Per le lavoratrici è sacrosanto il loro diritto ai buoni pasto. Opposizione netta, invece, dall'Agenzia delle Dogane, che fa riferimento alle ore effettivamente lavorate dalle dipendenti. Per i giudici di merito non vi sono dubbi il riconoscimento dei buoni pasto va ricondotto a quella normativa che stabilisce che «i permessi» riconosciuti alle lavoratrici «sono da considerare ore lavorative agli effetti della retribuzione del lavoro, senza che rilevi l'assenza di una pausa destinata alla consumazione del pasto». Inoltre, «il permesso per allattamento prevede il diritto di uscire dall'azienda» e quindi, osservano i giudici, «non può l'esercizio di tale diritto comportare la perdita del beneficio dei buoni pasto», anche se ne è derivata «l'assenza di pausa». Di parere opposto sono invece i magistrati della Cassazione, i quali accolgono l'obiezione proposta dall'Agenzia delle Dogane e negano alle lavoratrici la possibilità di rivendicare i buoni pasto anche per i giorni in cui hanno usufruito di permessi per l'allattamento. I Giudici richiamano il principio secondo cui «in tema di pubblico impiego privatizzato, l' attribuzione del buono pasto è condizionata all'effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva ». Di conseguenza, «i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che, beneficiando delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, osservano, in concreto, un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore, né può valere l'equiparazione dei periodi di riposo alle ore lavorative , che vale agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro, in quanto», precisano i Giudici, «l'attribuzione dei buoni pasto non riguarda né la durata né la retribuzione del lavoro ma è finalizzata a compensare l'estensione dell'orario lavorativo disposta dalla pubblica amministrazione, con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire il recupero delle energie psico-fisiche dei lavoratori». Respinte in modo netto le obiezioni proposte dalle lavoratrici. Queste ultime insistono, innanzitutto, sulla «necessaria equiparazione dei permessi per l'allattamento alle ore lavorative», ma viene ribadito dai giudici «il diritto ai buoni pasto ha natura assistenziale e quindi non ha rilievo l'assimilazione delle ore di permesso a quelle di lavoro ai fini della retribuzione, perché il riconoscimento dei buoni pasto non ha valenza retributiva», per l'appunto. Ciò significa che «le ore di permesso non sono utili all'integrazione del requisito del superamento delle sei ore» previsto per il riconoscimento dei buoni pasto. Sotto un altro profilo, poi, le lavoratrici «sottolineano la non necessaria coincidenza tra buono pasto ed esistenza nell'orario di lavoro di una pausa pranzo». Ma i Giudici ribattono che «il contratto collettivo di riferimento subordina il diritto al buono pasto all'effettuazione di un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa al cui interno va consumato il pasto, e dunque non vi è luogo a discorrere di altri e diversi presupposti». E in questa ottica è irrilevante che i permessi consentano l'uscita dal luogo di lavoro, in quanto ciò, spiegano i Giudici, «non significa che essi abbiano la natura di pausa per pranzare». Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati sanciscono che «le lavoratrici hanno lavorato solo 5 ore e 12 minuti» nei giorni in cui hanno usufruito dei permessi per l'allattamento e quindi non hanno diritto ai buoni pasto.
Presidente Bronzini – Relatore Bellè Rilevato che la Corte d'Appello di Milano ha disatteso il gravame proposto dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che aveva riconosciuto a favore delle lavoratrici meglio indicate in epigrafe il diritto al pagamento dei buoni pasto, dell'indennità di agenzia e di quella di produttività, con riferimento ai periodi in cui le predette erano state assenti per allattamento, congedo di maternità, interdizione anticipata dal lavoro o congedo parentale la Corte territoriale riteneva che il riconoscimento, da parte dell'articolo 55 del CCNL applicabile, del diritto agli emolumenti rivendicati nel periodo di astensione obbligatoria per maternità/paternità, ove considerato unitamente al fatto che l'interdizione anticipata fosse esplicitamente ammessa, dal D.L. numero 112 del 2008, articolo 71, conv. in L. numero 133 del 2008 , all'equiparazione alla presenza in servizio, consentissero in generale di escludere che gli incentivi in questione fossero da parametrare sulla base delle ore ordinarie di servizio effettivamente prestate, come previsto dall'articolo 4 del CCNI del 2005 quanto ai buoni pasto, il riconoscimento andava ricondotto, secondo la Corte territoriale, al disposto del D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 39, secondo cui i permessi in questione erano da considerare ore lavorative agli effetti della retribuzione del lavoro, senza che rilevasse l'assenza di una pausa destinata alla consumazione del pasto, trattandosi di presupposto espressamente ritenuto non necessario dal D.P.C.M. 18 novembre 2005, articolo 5, lett. e , ed anche sul presupposto che, prevedendo il permesso per allattamento il diritto di uscire dall'azienda, non poteva poi, l'esercizio del corrispondente diritto, comportare la perdita del beneficio dei buoni pasto, pur se ne fosse derivata l'assenza di pausa l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi Ro.St. è rimasta intimata, mentre le altre lavoratrici hanno resistito con controricorso, depositando infine anche memoria. Considerato che il primo motivo denuncia, in relazione all' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 7, comma 5, e articolo 45 del D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 22, comma 5, e dell'articolo 4 del CCNL del 15 novembre 2005 nonché dell'articolo 3, comma 2, della Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività del 9 dicembre 2008, con riguardo al riconoscimento dell'indennità di produttività il secondo motivo denuncia, in relazione all' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 39 e dell'articolo 98 del CCNL 28 maggio 2004, in riferimento al riconoscimento dei buoni pasto il terzo motivo censura, in relazione all' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 39, comma 2, in riferimento al disposto riconoscimento in favore dei dipendenti di tutti gli ulteriori emolumenti richiesti, sempre sulla base dell'erronea premessa dell'equiparazione delle ore di permesso per allattamento all'effettiva presenza in ufficio i motivi vanno definiti sulla base del precedente di questa S.C., qui condiviso e cui si intende dare continuità ed alle cui motivazioni si fa richiamo ai sensi dell' articolo 118 disp. att. c.p.c. , comma 1, secondo cui in tema di pubblico impiego privatizzato, le misure di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. numero 151 del 2001 , hanno la funzione di proteggere la salute della donna ma anche quella di soddisfare le esigenze puramente fisiologiche del minore, nonché di appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicché devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro rispettiva situazione, e, in linea generale, non possono avere incidenza negativa sul trattamento retributivo complessivo degli interessati Cass. 28 novembre 2019, numero 31137 , il che comporta la conferma della pronuncia per quanto attiene alle varie indennità rivendicate e riconosciute dalla Corte territoriale, con rigetto quindi del primo e del terzo motivo di impugnazione quanto ai buoni pasto va invece confermato il principio, espresso nel contesto della medesima pronuncia di cui sopra, secondo cui in tema di pubblico impiego privatizzato, l'attribuzione del buono pasto è condizionata all'effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che, beneficiando delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al D.Lgs. numero 151 del 2001 , osservano, in concreto, un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore, nè può valere l'equiparazione dei periodi di riposo alle ore lavorative di cui allo stesso D.Lgs., articolo 39, comma 1, che vale agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro , in quanto l'attribuzione dei buoni pasto non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro ma è finalizzata a compensare l'estensione dell'orario lavorativo disposta dalla P.A., con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire il recupero delle energie psico-fisiche degli interessati sul punto, in questa sede, deve peraltro prendersi posizione sulle difese svolte dalle lavoratrici in sede di memoria conclusiva sotto un primo profilo, esse insistono sulla necessaria equiparazione dei permessi di allattamento alle ore lavorative, ma va ribadito quanto già argomentato da Cass. 31137/2019 , cit., nel senso che il diritto ai buoni pasto ha natura assistenziale e quindi non ha rilievo l'assimilazione delle ore di permesso a quelle di lavoro ai fini della retribuzione , di cui al D.Lgs. numero 151 del 2001, articolo 39, comma 2, perché il riconoscimento dei buoni pasto non ha appunto valenza retributiva pertanto, le ore di permesso non sono utili all'integrazione del requisito del superamento delle sei ore di cui all'articolo 98 del CCNL sotto altro profilo, le controricorrenti sottolineano la non necessaria coincidenza tra buono pasto ed esistenza nell'orario di lavoro di una pausa pranzo, ma anche tale difesa non può trovare accoglimento il CCNL di riferimento, all'articolo 98 cit., subordina infatti il diritto all'effettuazione di un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa, al cui interno va consumato il pasto e dunque non vi è luogo a discorrere di altri e diversi presupposti, anche rispetto alla pausa, solo astrattamente possibili ma che qui comunque non ricorrono, perché il CCNL così prevede ed in ogni caso non è stata superata la necessaria soglia oraria nè ha rilievo il fatto che i permessi consentissero l'uscita dal luogo di lavoro, in quanto ciò non significa, nè vi sono ragioni per ritenerlo, che essi avessero la natura di pausa per pranzare infine, come già ritenuto dal precedente citato, è mal richiamato il disposto del D.P.C.M. 18 novembre 2005, articolo 5, lett. c , secondo cui i buoni pasto sono utilizzati, durante la giornata lavorativa anche se domenicale o festiva, esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno e parziale, anche qualora l'orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto potendosi qui aggiungere, ad integrazione, che quella norma, come è, sempre con testi tra loro sostanzialmente del medesimo tenore, per la legge che la prevede D.L. numero 115 del 2005, articolo 14 viciester, conv. in L. numero 168 del 2005 , per quella che lo ha abrogato e ridisciplinato D.P.R. numero 207 del 2010, articolo 358, comma 1, lett. i, in relazione all'articolo 285 ed infine per quella che lo disciplina ora D.M. numero 122 del 2017, articolo 4, lett. c, in relazione al D.Lgs. 18 aprile 2016, numero 50, articolo 144, comma 5 , ha la funzione di individuare in che cosa consistano i buoni pasto in relazione all'affidamento pubblico della loro gestione ad appaltatori esterni, disponendo l'irrilevanza, a tali fini, della corrispondenza con pause pranzo, ma certamente non interferisce con i requisiti che la contrattazione collettiva di comparto o decentrato, nell'ambito del rapporto di lavoro, richieda per la loro attribuzione in definitiva, poiché è pacifico che le controricorrenti abbiano lavorato nei giorni interessati solo 5 ore e 12 minuti, il secondo motivo di ricorso va accolto e la domanda sui buoni pasto può essere definita nel merito, con il suo rigetto la cassazione comporta la ridefinizione delle spese di tutti i gradi di giudizio che, analogamente a quanto accadde nel precedente citato, vanno compensate per un quarto, in ragione della parziale soccombenza delle lavoratrici, con rimborso in loro favore dei restanti tre quarti, trattandosi delle parti prevalentemente vittoriose. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo in parte qua nel merito, rigetta la domanda di riconoscimento del diritto ai buoni pasto. Compensa per un quarto le spese di tutti i gradi e condanna l'Agenzia al pagamento in favore delle controparti dei restanti tre quarti, quota che liquida, per compensi, in Euro 1.500,00 per il primo grado, in Euro 2.415,00 per l'appello ed in Euro 6.000,00 per il giudizio di cassazione, oltre ad Euro 200,00 per esborsi e oltre a spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge, con distrazione in favore della difesa antistataria.