Respinta la tesi difensiva, secondo cui il mantenimento di una relazione non può essere oggetto di imposizione. Evidente, invece, secondo i Giudici, il comportamento intimidatorio tenuto dall’uomo nei confronti della partner.
È violenza privata pretendere che il partner porti avanti per forza la relazione e non vada via di casa. Esemplare la condanna a 8 mesi di reclusione per un uomo rivelatosi assolutamente non in grado di accettare la decisione della compagna di interrompere il loro legame. Ricostruita la vicenda, ambientata in Piemonte, i giudici di merito ritengono palese l'inaccettabile condotta aggressiva tenuta da un uomo nei confronti della compagna, condotta mirata a «non farsi lasciare dalla donna». Per i giudici di primo e di secondo grado è logico catalogare i comportamenti dell'uomo come vera e propria violenza privata nei confronti della donna. Questa visione viene contestata dall'uomo, il quale sostiene nel ricorso in Cassazione che «il rapporto tra due persone, in quanto integra una relazione, non può essere imposto con violenza o con minaccia». Per meglio chiarire la propria posizione, infine, l'uomo richiama il contesto della vicenda per sostenere che il comportamento a lui attribuito, e «diretto a non farsi lasciare dalla compagna e a non interrompere la relazione tra loro», non è catalogabile come «condotta coartatrice». Chiara la linea proposta dall'uomo egli sostiene che «il mantenimento di una relazione non può essere oggetto di imposizione ». E quindi, ragionando in questa ottica, è impossibile accusarlo di violenza privata nei confronti della compagna. Dalla Cassazione ribattono richiamando il principio secondo cui «l'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa». Ciò significa anche che «la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore», ossia, come detto, «la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa». Per quanto concerne la vicenda svoltasi in Piemonte, i Giudici della Cassazione condividono in pieno le valutazioni compiute in appello. In sostanza, è evidente «il comportamento intimidatorio » dell'uomo che ha tenuto una condotta concretizzatasi nella « minaccia , anche di morte, rivolta alla compagna se quest'ultima avesse interrotto la loro relazione». A completare il quadro, infine, viene posta in evidenza anche «l' aggressione fisica » realizzata dall'uomo nei confronti della compagna e «diretta a farla restare in casa con lui», cosa che è avvenuta «fino a quando la donna non è riuscita ad invocare aiuto». Tirando le somme, è logico catalogare come «violenza privata» il modus agendi dell'uomo, diretto a «ad imporre un comportamento determinato alla compagna», ossia la prosecuzione della relazione e della convivenza.
Presidente Guardiano - Relatore Calaselice Ritenuto in fatto e considerato in diritto 1.Con la sentenza impugnata, la Corte d'appello di Torino ha confermato la condanna, resa dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale in sede, in data 7 dicembre 2018, nei confronti di E.C. , in relazione ai reati ascrittigli, alla pena di mesi otto di reclusione articolo 56, 610 c.p. , capo 1 articolo 610 c.p. , capo 2 articolo 582 c.p. , comma 2, capo 3 articolo 635, comma 1, capo 4 . 2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato, per il tramite del difensore, deducendo, con il primo motivo, inosservanza ed erronea applicazione dell' articolo 610 c.p. , in relazione al capo 1 e correlato vizio di motivazione. Si afferma che, tenuto conto degli elementi costitutivi del reato di cui all' articolo 610 c.p. , considerato il contesto in cui si sono svolti i fatti il comportamento preteso dall'imputato diretto a non farsi lasciare dalla persona offesa, a non interrompere la relazione tra loro non costituirebbe oggetto di condotta coartatrice, non potendo il rapporto tra due persone, in quanto integra una relazione, essere imposto con violenza o minaccia. In definitiva, per il ricorrente, il mantenimento di una relazione non potrebbe essere oggetto di imposizione altrui, sicché unica condotta configurabile sarebbe quella, eventualmente, della minaccia. 2.1. Con il secondo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell' articolo 635 c.p. , e correlato vizio di motivazione. Nella specie non vi sarebbe stata alcuna condotta violenta connessa all'azione di deterioramento e a questo strumentale, non risultando sufficiente che il danneggiamento avvenga in occasione di condotte minatorie e violente. 3.Il ricorso è inammissibile. 3.1. Il primo motivo è manifestamente infondato. La censura, sotto alcuni profili, pur formalmente consentita, risulta contestare la ricostruzione dei fatti, come operata dalla Corte territoriale, con ragionamento lineare e non manifestamente illogico, devolvendo, dunque, questioni inammissibili in sede di legittimità. Inoltre, si osserva che il ragionamento dei giudici di merito è conforme all'indirizzo di questa Corte, nella sua più autorevole composizione, secondo il quale l'elemento oggettivo del reato di cui all' articolo 610 c.p. , è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa la condotta violenta o minacciosa deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Il delitto di cui all' articolo 610 c.p. , non è configurabile, dunque, qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l'evento naturalistico del reato, vale a dire il pati cui la persona offesa sia costretta l'evento del reato, nell'ipotesi di ricorso alla violenza, non può coincidere con il mero attentato all'integrità fisica della vittima o anche solo con la compressione della sua libertà di movimento conseguente e connaturata all'aggressione fisica subita Sez. 5, numero 10132 del 5/02/2018, Ippolito, Rv. 272796 Sez. 5, numero 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268405, di cui si ripercorrono le articolate argomentazioni Sez. 5, numero 1215 del 06/11/2014, dep. 13/01/2015, Calignano, Rv. 261743 . Nel caso al vaglio, invero, la Corte territoriale ha spiegato, in linea con tale indirizzo, la sussistenza dell'elemento materiale consistito nel comportamento intimidatorio, evidenziando che la condotta dell'imputato si è sostanziata nella minaccia, anche di morte, rivolta alla persona offesa se avesse interrotto la relazione con l'imputato, nonché quanto al capo 2, nella minaccia, fino all'aggressione fisica, diretta a farla restare in casa con lui fino a quando la donna non era riuscita ad invocare aiuto. Sicché, è corretta ed immune da censure di ogni tipo la qualificazione della condotta come violenza privata tentata quanto al capo 1, oggetto di ricorso, in quanto condotta diretta ad imporre un comportamento determinato nei confronti della vittima, configurandosi senz'altro il requisito della specificità e determinatezza dell'imposizione. Tanto, con coscienza e volontà di costringere la vittima, mediante la condotta esplicata, con l'elemento tipico del reato di cui all' articolo 610 c.p. , della consapevolezza dell'illegittimità di tale costrizione Sez. 2, numero 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362 Sez. 5, numero 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584 . 3.1. Il secondo motivo è manifestamente infondato. Decisivo, a tal proposito, si profila quanto già affermato da questa Corte, secondo cui il reato di danneggiamento commesso con violenza alla persona o con minaccia, nel testo riformulato dal, D.Lgs. numero 7 del 15 gennaio 2016, articolo 2, lett. I, è configurabile anche nel caso in cui non sussiste un nesso di strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l'azione di danneggiamento, posto che la ragione della incriminazione deve essere ravvisata nella maggiore pericolosità manifestata dall'agente nella esecuzione del reato tra le altre, Sez. 6, numero 16563 del 21/03/2016, Cava, Rv. 266996 . Del resto in relazione al capo 4, la Corte territoriale ha E. con ragionamento logico ed esaustivo, che il danneggiamento dei telefonini era avvenuto cfr. pag. 4 della sentenza di secondo grado in un medesimo contesto in cui la condotta violenta dell'imputato si era diretta prima verso la persona colpendo la donna con schiaffi e pugni al volto e con calci alle gambe e, poi, alle cose. 4. Consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale numero 186 del 13 giugno 2000 e valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, segue, a norma dell' articolo 616 c.p.p. , l'onere del versamento di una somma, in favore della Cassa delle ammende, determinata equitativamente nella misura di cui al dispositivo, in ragione dei motivi devoluti. 4.1. Sussistono ragioni ravvisate nel rapporto tra le parti e in relazione alle circostanze in cui si sono sviluppati i fatti, per disporre l'oscuramento dei dati sensibili in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 52 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 52 , in quanto imposto dalla legge.