Lo spioncino di controllo del bagno della cella non viola il diritto alla privacy del detenuto

Impossibile parlare di detenzione degradante, chiariscono i Giudici. Fondamentale anche la constatazione che il posizionamento dello spioncino aveva finalità di sicurezza, essendo usato solo in situazioni eccezionali.

Nessuna violazione alla privacy del detenuto a fronte di uno spioncino di controllo del bagno della cella. Impossibile parlare di trattamento penitenziario disumano e degradante. Protagonista della vicenda è un boss di camorra che considera illegittima la presenza di uno spioncino di controllo del bagno della cella in cui è costretto e perciò ritiene violato il suo diritto alla riservatezza . Egli aggiunge poi che tale abuso gli ha causato problemi psico-fisici . Questa versione non convince però né il magistrato di sorveglianza né il tribunale di sorveglianza. In sostanza, viene chiarito che la natura e il posizionamento dello spioncino non violano la riservatezza del detenuto e comunque hanno finalità di sicurezza , dovendo essere usato solo in situazioni eccezionali . A confermare la posizione assunta dal Tribunale di sorveglianza è ora la Cassazione. I magistrati chiariscono che il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo a cui ha fatto riferimento il boss non afferma che, di per sé, la presenza di uno spioncino integri un trattamento inumano e degradante nei confronti del detenuto. Al contrario, viene chiarito in quel pronunciamento che è necessario sempre porre l’accento sugli effetti cumulativi delle varie circostanze della detenzione che, nel loro complesso, rendono la detenzione disumana . Il boss di camorra, invece, ha lamentato la violazione della propria privacy senza però tenere conto, osservano i Giudici, delle esigenze di sicurezza addotte a giustificazione dell’esistenza dello spioncino e senza confrontarsi con la descrizione delle sue caratteristiche che consentono di ritenerne un suo utilizzo in casi eccezionali e con frequenza saltuaria . Per chiudere il cerchio, infine, i magistrati richiamano il principio secondo cui la continua videosorveglianza del detenuto attuata con telecamera a bassa risoluzione, idonea a riprodurre solo immagini non a fuoco, installata nella cella con inquadratura verso l’area di ingresso del locale bagno, non costituisce di per sé un trattamento penitenziario degradante , e concludono poi chiarendo che una situazione di mero disagio del detenuto, collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti, né prevedibili non consente comunque di parlare di detenzione disumana .

Presidente Mogini Relatore Rocchi Ritenuto in fatto 1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila rigettava il reclamo proposto da G.V. avverso quella del Magistrato di Sorveglianza in materia di rimedi risarcitori ex art. 35 ter ord. pen. Il reclamo era basato sulla presenza di uno spioncino di controllo del bagno della cella, la cui esistenza, secondo il reclamante, violava il suo diritto alla riservatezza determinandogli problemi psico-fisici. Secondo il Tribunale, la natura e il posizionamento dello spioncino non violava la riservatezza del detenuto e aveva finalità di sicurezza, dovendo essere usato solo in situazioni eccezionali. 2. Ricorre per cassazione il difensore di G.V., deducendo violazione dell' art. 35 ter ord. pen. e vizio di motivazione. Il ricorrente ricorda che, in una precedente ordinanza, il Tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni con riferimento all'esistenza dello spioncino che è sicuramente pregiudizievole della riservatezza del detenuto richiama una sentenza della Corte EDU Clasens c. Belgio , argomenta sui rapporti tra le norme dell' art. 35 bis e dell'art. 35 ter ord. pen. , e affronta il tema della permanenza all'aperto deduce, quindi, di aver subito un pregiudizio per il quale spetta un risarcimento. 3. Il Sostituto Procuratore generale Dott. omissis , nella requisitoria scritta, conclude per la declaratoria di inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. 1. Preliminarmente occorre dare atto che l'ordinanza impugnata ha ritenuto di non decidere su una doglianza introdotta per la prima volta nel reclamo al Tribunale concernente il diverso tema della fruizione di una sola ora d'aria al giorno per i detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all' art. 41 bis ord. pen. . Si tratta di decisione corretta questa Corte ha già affermato che è precluso al detenuto sottoporre al tribunale di sorveglianza, ai sensi dell' art. 35-bis ord. pen. , questioni nuove che non hanno costituito oggetto del reclamo diretto al magistrato di sorveglianza, atteso che il procedimento dinanzi al tribunale di sorveglianza in relazione a richiesta di rimedio risarcitorio ha natura impugnatoria, con la conseguenza che, avendo carattere devolutivo, deve essere fondata su specifici motivi di doglianza facenti riferimento all'oggetto del primo giudizio, siccome definito dal relativo atto di reclamo e dall'eventuale estensione della cognizione del giudice conseguente alle questioni successivamente dedotte dalle parti o all'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio Sez. 1, n. 2303 del 08/10/2020, dep. 2021, Mitrean, Rv. 280229 . 2. Si deve sottolineare che, avverso la decisione del tribunale di sorveglianza che provvede sul reclamo proposto contro l'ordinanza del magistrato di sorveglianza emessa ex art. 35 bis ord. pen. , il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge. Con riferimento ai rimedi risarcitori previsti dall' art. 35 ter ord. pen. , la legge di riferimento è costituita, in forza del richiamo posto dal comma 1 dell'art. 35 ter cit., dall'art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo . Come chiarito, infatti, dalle Sezioni Unite, Commisso Sez. U, n. 6551 del 24/09/2020, dep. 2021, Rv. 280433 , il giudice nazionale è chiamato ad applicare i rimedi risarcitori a favore del detenuto nei casi in cui la Corte EDU, qualora adita direttamente dal detenuto, potrebbe condannare lo Stato italiano per la violazione dell'art. 3 della Convenzione. Per giungere a questo risultato, il legislatore ha adottato uno strumento innovativo, valorizzando l'interpretazione della Corte EDU come elemento integrativo della norma di legge In effetti, in base all' art. 35-ter ord. pen. , l'interpretazione dell'art. 3 CEDU da parte della Corte diventa parte della norma che il giudice nazionale deve applicare . Le Sezioni Unite hanno, altresì, chiarito, che è solo un diritto consolidato , generato dalla giurisprudenza Europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. La nozione di giurisprudenza consolidata trova riconoscimento nell' art. 28 CEDU , che attribuisce maggiore persuasività alle pronunce che seguono un principio costantemente applicato dalla Corte, nonché alle sentenze della Grande Camera che pronuncia su questione di principio S. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054 . La Corte costituzionale indica anche i criteri per riconoscere la natura non consolidata di un orientamento espresso in una sentenza della Corte EDU la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza Europea gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera il dubbio che, nel caso di specie, il giudice Europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano . Infine, si è precisato che il sistema impedisce al giudice nazionale di adottare un'interpretazione dell'art. 3 della CEDU differente da quella consolidata fornita dalla Corte EDU su uno specifico aspetto, perché ciò violerebbe sia il principio dell'obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza Europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relationem più volte ricordato . 3. Ciò premesso, si deve innanzitutto rilevare che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'ordinanza impugnata ha fornito adeguata motivazione in ordine all'insussistenza delle violazioni denunciate, cosicché le censure mosse dal ricorrente, oltre a riproporre quelle su cui il Tribunale di Sorveglianza aveva provveduto, attaccano la logicità della motivazione e, quindi, sono inammissibili in questa sede non a caso, viene richiamato il vizio di motivazione di cui all' art. 606 c.p.p. , comma 1, lett. e . Del resto, nel prosieguo della trattazione, il ricorrente sollecita direttamente la Corte di legittimità a valutare gli effetti della presenza dello spioncino in sostanza, viene sollecitato un giudizio di merito, di fatto che si sovrapponga a quello del Tribunale di Sorveglianza. 4. Soprattutto, il ricorrente non aggancia le censure ad alcuna giurisprudenza consolidata della Corte EDU relativa alla violazione dell'art. 3 CEDU che - si deve ribadire - è l'unica norma di riferimento per il riconoscimento dei rimedi risarcitori ex art. 35 ter ord. pen. . In effetti, come si evince dal combinato disposto degli artt. 69 ord. pen. , comma 6 lett. b e art. 35 ter ord. pen. , non è sufficiente l'inosservanza da parte dell'Amministrazione penitenziaria delle norme dell' ordinamento penitenziario e del regolamento per accedere al rimedio risarcitorio occorre che il grave pregiudizio all'esercizio dei diritti del detenuto consista, per un periodo non inferiore a quindici giorni, in condizioni tali da violare l'art. 3 CEDU , come interpretato dalla Corte EDU. La sentenza Clasens contro Belgio della Corte EDU - come, del resto, ammette lo stesso ricorrente nel trascriverne un passaggio - non afferma che, di per sé, la presenza di uno spioncino integri una violazione dell'art. 3 della Convenzione, vale a dire un trattamento inumano e degradante piuttosto, nella linea costante seguita dalla Corte, pone l'accento sugli effetti cumulativi delle varie circostanze della detenzione che, nel loro complesso, rendono la detenzione inumana. Nel caso di specie, la asserita violazione della privacy del detenuto è individuata - o meglio lo era nel reclamo al Magistrato di Sorveglianza, salvo il tentativo di allargare l'ambito della cognizione nel reclamo al Tribunale di Sorveglianza, di cui si è già detto - come integrante di per sé una violazione dell'art. 3 CEDU , senza tenere conto delle esigenze di sicurezza addotte a giustificazione dell'esistenza dello spioncino esigenze che la Corte EDU, nella sua giurisprudenza, non ha mai ritenuto irrilevanti e senza confrontarsi con la descrizione delle sue caratteristiche svolte dal tribunale di Sorveglianza a sostegno di un suo utilizzo in casi eccezionali e con frequenza saltuaria. In ogni caso le precedenti pronunce di questa Corte escludono la violazione dell'art. 3 CEDU per circostanze come quelle denunciate dal ricorrente si è affermato che la continua videosorveglianza del detenuto attuata con telecamera a bassa risoluzione, idonea a riprodurre solo immagini non a fuoco, installata nella cella con inquadratura verso l'area di ingresso del locale bagno, non costituisce di per sé un trattamento penitenziario inumano e degradante contrario alla disposizione di cui all'art. 3 della CEDU Sez. 1, n. 44972 del 16/04/2018, M., Rv. 273983 , ricordando anche una sentenza della Corte EDU Paolello c. Italia, 1/9/2015 . Più in generale, si è sottolineato che non costituisce trattamento inumano o degradante, rilevante ai sensi dell'art. 3 della CEDU , così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, la situazione di mero disagio collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti, nè prevedibili Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898 . 5. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, emergendo profili di colpa nella presentazione del ricorso. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.