Nuovo abuso d’ufficio: continua ad assumere rilevanza penale il rilascio di un permesso di costruire illegittimo

«Anche a seguito della riforma attuata con d.l. 16 luglio 2020, numero 76, Il rilascio di permessi di costruire illegittimi integra il reato di abuso d’ufficio dal momento che la violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’articolo 12 del d.P.R. 380/2001, secondo il quale il permesso a costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica, che il dirigente del settore è tenuto a rispettare».

Con sentenza di primo grado, confermata in parte qua dalla Corte d'Appello, uno dei ricorrenti è stato condannato per il delitto di abuso di ufficio, unitamente ad altri reati, per aver rilasciato illegittimamente permessi edilizi, in violazione delle previsioni urbanistiche e dei regolamenti edilizi. Avverso la sentenza è stato quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra gli altri motivi, la violazione di legge da parte dei giudici di merito, per aver ravvisato gli estremi del delitto di abuso d'ufficio a fronte della violazione di fonti normative di secondo grado, a fronte delle modifiche normative intervenute per effetto del d.l. numero 76/2020, convertito in l. numero 120/2020. Secondo la difesa, infatti, la limitazione dell'ambito operativo dell'articolo 323 c.p. alle sole violazioni di legge primaria, poste in essere nell'esercizio di un potere vincolato, escluderebbe la rilevanza penale delle condotte ascritte all'imputato, che avrebbe invece operato in violazione di fonti secondarie e nell'esercizio di un potere connotato da discrezionalità tecnica. La Corte di Cassazione ha tuttavia rigettato il motivo in esame, confermando sul punto la sentenza di merito. I Giudici della Sesta Sezione condividono la premessa da cui muove la difesa, nell'osservare che, a seguito della novella, assumono rilevanza penale le sole violazioni di specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, da cui non residuino margini di discrezionalità. Si osserva, al riguardo, che la scelta del legislatore deriva dall'esigenza di ancorare l'operato del pubblico agente al rispetto di specifiche e precise regole di condotta previste da fonti normative di rango primario, che non lascino spazi discrezionali, per evitare incursioni dell'Autorità giudiziaria nella sfera della discrezionalità amministrativa e limitare il sindacato penale alla sola violazione di specifiche regole di condotta derivanti dalla legge. Tuttavia, la Corte afferma che l'orientamento secondo cui i piani urbanistici hanno natura regolamentare sia ormai risalente e superato, dovendosi invece riconoscere la loro natura di atti amministrativi generali. Esclusa la natura regolamentare dei piani urbanistici, la violazione di questi ultimi, secondo la Corte, assume pertanto rilievo quale mero presupposto di fatto della violazione della normativa primaria in materia urbanistica, con specifico riferimento agli articolo 12 e 13, d.P.R. numero 380/2001. Ai sensi del comma primo dell'articolo 12 cit., per essere legittimo, il permesso di costruire deve confermarsi «alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente». Pertanto, in forza dell'espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici, il rilascio di un titolo edilizio senza il rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra una violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità del delitto di abuso d'ufficio. La violazione di legge è infatti integrata, secondo l'impostazione accolta dalla Corte, dall'inosservanza dell'articolo 12 cit., sul presupposto che il permesso di costruire, quale atto non discrezionale, deve essere rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica di settore, che il dirigente è tenuto a rispettare ai sensi del successivo articolo 13 cit. La Corte precisa infine che la sola violazione di legge non è di per sé sufficiente ad affermare la sussistenza del delitto ex articolo 323 c.p., occorrendo il requisito della c.d. doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta – connotata da violazione di legge – che dell'evento di vantaggio patrimoniale in alternativa all'altrui danno ingiusto , in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con conseguente necessità di una duplice e distinta valutazione, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta.

Presidente Ricciarelli – Relatore Criscuolo Ritenuto in fatto 1. In parziale riforma della sentenza emessa dal G.u.p. del Tribunale di Brescia in data 11 giugno 2020, appellata dal Procuratore Generale e dagli imputati G.R. e R.W., la Corte di appello di Brescia ha assolto il G. dal reato di cui al capo 5 perché il fatto non sussiste, ha escluso l'assorbimento dei reati di falso di cui ai capi 32 , 35 e 37 nelle imputazioni di cui ai capi 31 , 36 e 38 e, dichiarata la responsabilità del G. anche per detti reati, ha rideterminato la pena per le residue imputazioni in anni 8 di reclusione, revocando la pena accessoria dell'interdizione legale durante l'espiazione della pena ha, infine, ridotto a 800 mila Euro l'importo della confisca e per il R. ha confermato la sentenza appellata. La Corte di appello ha ritenuto provato, in base alle dichiarazioni testimoniali, alle conversazioni intercettate e alla documentazione acquisita, che il G., in qualità di dirigente dell'Ufficio Tecnico del comune di Concesio, nel corso degli anni aveva affidato numerosi appalti a ditte compiacenti in assenza di una reale procedura di gara e di effettive ragioni di urgenza, provvedendo ad emettere la determina di spesa solo a lavori già eseguiti. In particolare, dipendenti amministrative e addette al settore tecnico dell'Ufficio Lavori pubblici, Manutenzione e Patrimonio comunale avevano riferito che 1 per le gare di importo inferiore ai 40 mila Euro l'Ufficio Tecnico provvedeva con affidamento diretto anche in assenza di copertura finanziaria 2 veniva effettuata la suddivisione in lotti per evitare che la gara fosse gestita dalla Centrale Unica di Committenza, competente per le gare di importo superiore ai 40 mila Euro 3 il G. faceva richiedere a più ditte i preventivi per verificare la congruità dei prezzi dell'impresa, che aveva già effettuato i lavori, ed era lui ad indicare le ditte da contattare 4 le ditte erano sempre le stesse e tra queste vi era la ditta del M. 5 la ditta rimasta a credito, si aggiudicava sempre la gara. La condotta illecita del G., frutto di accordi corruttivi e di collusioni, si collocava in un momento precedente all'adozione del bando o di atto equipollente, sicché la procedura di gara risultava meramente formale, trattandosi in sostanza di un affidamento diretto dei lavori pubblici in violazione dei criteri di rotazione e di trasparenza, in quanto la scelta del contraente era predeterminata e definita a monte. Di tale metodo aveva beneficiato, in particolare, M.F., amico del G. e titolare della Emmezeta, che risultava aver lavorato quasi esclusivamente per il comune e remunerato il pubblico ufficiale per la preferenza accordatagli con pranzi, rifornimenti di carburante, lavori edili presso l'abitazione del G. e doni costosi, integranti il reato di corruzione e destinati ad assicurare la prosecuzione del sistema illecito. Si era anche accertato che il G. aveva favorito il M. con l'emissione di un provvedimento in sanatoria per gli abusi relativi all'immobile della madre del M., pur non essendo gli abusi sanabili e il provvedimento in sanatoria neppure richiesto con determinazione del contributo di costruzione di gran lunga inferiore al dovuto, risultato funzionale alla conservazione dell'immobile. Analogo episodio corruttivo era emerso per i lavori affidati all'imprenditore V., che aveva eseguito gratuitamente opere di tinteggiatura presso l'abitazione del G Erano emersi, inoltre, numerosi falsi ed abusi d'ufficio commessi dal G. in relazione alle convenzioni urbanistiche stipulate con varie imprese edilizie, tra cui la Gielle Costruzioni srl del Gatta, alle quali erano stati consentiti aumenti di cubatura in violazione delle norme di Piano e consistenti incrementi di valore delle opere edilizie realizzate proprio grazie alle false planimetrie allegate agli atti pubblici, dichiarate dal G. conformi alle convenzioni approvate dalla Giunta comunale. A fronte di un sistema illecito instaurato da anni, di frequenti versamenti in contanti e di enormi disponibilità finanziarie del G., del tutto sproporzionate rispetto ai redditi percepiti, in assenza di giustificazioni sulla lecita provenienza delle somme, è stata disposta la confisca del profitto del reato entro il limite di 800 mila Euro. L'affermazione di responsabilità del R., Comandante della Polizia locale del comune di Concesio, per il reato di cui all'articolo 361 c.p., è stata fondata sull'esito del sopralluogo eseguito sull'area agricola ove erano in corso i lavori, oggetto degli esposti, avendo i giudici ritenuto che, risultando evidente che era in corso una lottizzazione abusiva, vi era obbligo di denuncia immediata senza necessità di confronto con il titolare dell'ufficio tecnico comunale, specie alla luce del colloquio intercettato in ambientale con il G. nel corso del quale il R. aveva censurato l'imprudenza dell'imprenditore nel riferire della prevista edificazione dell'area. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i difensori degli imputati. 2. I difensori del G. articolano i seguenti motivi 2.1 violazione di legge in relazione ai reati di cui all'articolo 323 c.p., oggetto dei capi 29 , 34 e 43 per non avere la Corte di appello tenuto conto della modifica dell'articolo 323 c.p., introdotta con D.L. numero 76 del 2020, conv. in L. numero 120 del 2020, che ha ristretto l'ambito della condotta punibile alla violazione di regole di condotta previste da norme di legge o atti aventi forza di legge dalle quali non residuino margini di discrezionalità con conseguente esclusione della violazione di fonti normative inferiori, quali gli atti amministrativi generali come il Piano di Governo del Territorio. Le condotte contestate ai capi 34 e 29 risultano fondate sulla violazione delle norme tecniche di attuazione del PGT e anche la condotta di cui al capo 43 non ha rilevanza penale, trattandosi di violazione di regolamenti amministrativi edilizi o di condotta rientrante nell'ambito di discrezionalità tecnica. 2.2 Violazione della legge penale, in particolare, dell'articolo 353-bis in relazione aglio articolo 319 e 321 c.p. per violazione del principio di specialità. La Corte di appello ha confermato la responsabilità dell'imputato per i reati di corruzione di cui ai capi 3 e 49 , dichiarando in essi assorbiti i reati di cui all'articolo 353-bis c.p. contestati ai capi 6 e da 8 a 16 , anziché escludere il reato di corruzione e ravvisare unicamente il reato di cui all'articolo 353-bis c.p., atteso che i doni del M. rientrano nella espressa previsione della norma, al pari del lavoro di imbiancatura del V., trattandosi di donativo funzionale alla scelta del contraente. 2.3 Violazione di legge in relazione all'articolo 81 c.p. e agli aumenti applicati in continuazione sulla pena base per il reato più grave di corruzione di cui al capo 3 . La Corte ha determinato la pena base in 7 anni di reclusione, ritenendo assorbiti nel reato di cui al capo 3 i reati di cui ai capi 6 e da 8 a 16, senza indicare i singoli aumenti né individuare tra i vari fatti di cui all'articolo 353-bis c.p. quello più grave. A fronte di 11 episodi di corruzione relativi al M. per i quali si è determinata la pena base in 7 anni di reclusione, comprensiva della continuazione interna pari ad 1 anno sul minimo edittale all'epoca fissato in 6 anni di reclusione , risulta sproporzionato l'aumento di 1 anno e 6 mesi applicato per la corruzione del V., episodio del tutto omogeneo ai fatti contestati al capo 3 . Analoghe considerazioni valgono per gli altri 11 reati di cui all'articolo 353-bis c.p. per i quali è stato applicato l'aumento di 1 anno e 10 mesi di reclusione, di 9 mesi per i reati di abuso di ufficio e di 11 mesi per i reati di falso. 2.4 Violazione dell'articolo 597 c.p.p., comma 1 e 3, violazione dell'articolo 240-bis c.p. e omessa motivazione sui criteri di proporzione e pertinenza relativamente alla confisca. La Corte di appello ha ritenuto fondata l'obiezione difensiva circa l'impossibilità di qualificare la somma confiscata come profitto del reato, stante la sproporzione tra le regalie, oggetto degli episodi corruttivi, e la somma rinvenuta sul conto corrente dell'imputato, accumulata ben prima dei fatti in esame, ma ha mantenuto la confisca ai sensi dell'articolo 240-bis c.p. in violazione del divieto di reformatio in peius e del contraddittorio, giustificandola come mera qualificazione giuridica del fatto. L'errore è notevole, trattandosi di misura più grave e di diversa natura. In subordine si evidenzia che anche la confisca ai sensi dell'articolo 240-bis c.p. avrebbe dovuto essere giustificata con criterio di proporzione e pertinenza cronologica, ma la Corte di appello non ha considerato che già nel 2014, epoca cui risalgono i primi episodi corruttivi, le disponibilità lecitamente accumulate dal ricorrente ammontavano a 600 mila Euro, come da documentazione prodotta in primo grado. Quanto al criterio di proporzionalità la Corte di appello ha considerato solo le dichiarazioni dei redditi dichiarati dal 2003 al 2017, ma non ha tenuto conto della capacità di risparmio, del pregresso accumulo realizzato negli anni precedenti al 2014. Quanto al requisito della ragionevolezza temporale la Corte di appello prescinde del tutto dalla valutazione della discrasia cronologica dei tempi di accumulo -15 anni a fronte dei 4 anni interessati dagli episodi corruttivi- si ribadisce che in ordine al mutato inquadramento della confisca non vi è stato contraddittorio, atteso che nell'atto di appello si ribadiva la provenienza delle somme da proventi libero-professionali, eventualmente non denunciati da oltre 15 anni deduzione incompatibile con l'articolo 240-bis c.p., che espressamente esclude che possa essere addotta quale giustificazione la provenienza dei redditi da evasione fiscale. 3. Il difensore del R. formula i seguenti motivi 3.1 violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'articolo 361 c.p. per mancanza dell'elemento materiale del reato, atteso che nella fattispecie l'autorità giudiziaria era già a conoscenza della notitia criminis perché gli esposti erano stati già indirizzati al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brescia e inviati solo per conoscenza all'Arpa e alla Polizia Locale, sicché il ricorrente non aveva alcun obbligo di notiziare l'autorità giudiziaria. Erroneamente la Corte di appello affronta il tema dell'elemento psicologico del reato anziché quello dell'elemento materiale del reato, che esclude in radice l'obbligo di denuncia in ogni caso, non vi è stata alcuna omissione, in quanto il R. dispose gli accertamenti ritenuti necessari, incaricando i suoi agenti di eseguire un sopralluogo il 21 giugno 2018, richiedendo informazioni all'Ufficio Tecnico il 25 giugno e apprendendo il 5 luglio 2018 dell'attività di indagine disposta dalla Procura né può addebitarsi al ricorrente l'omessa verifica del fatto che gli esposti fossero stati effettivamente inoltrati all'Autorità giudiziaria, non trattandosi di omissione che integra il reato. 3.2 Violazione dell'articolo 361 c.p. e D.P.R. numero 380 del 2001, articolo 30 e vizio di motivazione. La Corte di appello non ha considerato che il R. non era a conoscenza della lottizzazione abusiva prima di ricevere gli esposti né, a differenza di quanto sostenuto in sentenza, delle trame illecite del G. e del Gatta né il pubblico ufficiale può rispondere di omessa denuncia se non quando sia in grado di ritenere configurabile un reato ed a tal fine il R. aveva disposto i necessari accertamenti. E' illogica la motivazione sull'asserita evidenza della lottizzazione abusiva, specie se si considera che la p.g. delegata dal P.m. aveva riscontrato solo la violazione del D.Lgs. numero 152 del 2006, articolo 256 e, all'esito dei sopralluoghi del 5 e 10 luglio, i rifiuti risultavano rimossi e smaltiti, né la lottizzazione abusiva era resa evidente dagli elementi indicati negli esposti in assenza di opere. E', infine, errata l'interpretazione della conversazione del 5 luglio 2018, riferendosi il R. alle dichiarazioni rese dal Gatta nel corso del sopralluogo del 21 giugno 2018 agli agenti di polizia locale non alla p.g. delegata dal P.m., come ritenuto in sentenza-. Con i motivi nuovi, pervenuti in data 1 febbraio 2022, i difensori del G. ribadiscono con ulteriori argomentazioni il secondo e il terzo motivo di ricorso, insistendo nell'inquadramento dei fatti nell'articolo 353-bis c.p. piuttosto che nella corruzione e nella rimodulazione degli aumenti a titolo di continuazione. In particolare, la difesa sottolinea che la stessa sentenza riconosce che i rapporti con il M. erano connotati da regalie che queste costituivano l'unico profilo di illegittimità dei lavori affidati al M., dettati dall'urgenza e dalla disponibilità dell'imprenditore, tanto da determinare una sorta di monopolio in contrasto con il principio di rotazione e di concorrenza, consentendo di ricondurre i fatti nell'ipotesi di cui all'articolo 353-bis c.p. piuttosto che nell'ipotesi corruttiva. Depone in tal senso la presenza di due elementi specializzanti rispetto alla corruzione, quali la natura del corrispettivo doni e non denaro o altra utilità e il contenuto dell'utilità posta in sinallagma la scelta del contraente-, essendo i regali volti a influenzare la scelta del contraente e in questa chiave accettati dal pubblico ufficiale. Elementi sussistenti anche per la corruzione di cui al capo 49 , ponendosi il dono in relazione alla scelta del contraente. Quanto al terzo motivo si ribadisce la censura sul trattamento sanzionatorio e sul calcolo della pena, sia in ordine alla pena base che agli aumenti applicati a titolo di continuazione ed alla mancanza di motivazione per i singoli aumenti applicati per i reati satellite, secondo quanto affermato dalla sentenza delle Sezioni Unite numero 47127 del 24/06/2021,Pizzone. Nuove censure vengono formulate, soprattutto, in relazione al quarto motivo di ricorso, attinente alla confisca. Viene fatto riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite numero 27421 del 25 febbraio 2021, Crostella, depositata dopo la proposizione del ricorso, relativa all'articolo 240-bis c.p., richiamando il principio affermato secondo il quale la regola introdotta dalla L. numero 161 del 2017, articolo 31 impossibilità per il condannato per il reato spia di giustificare la provenienza dei beni sul presupposto che il danaro utilizzato per acquistarli provenga da evasione fiscale non è applicabile nei casi di accertamenti patrimoniali relativi ad annualità precedenti alla sua entrata in vigore. Ribadiscono l'omessa motivazione rispetto alle allegazioni della memoria depositata in primo grado e richiamata in appello ricostruttiva della situazione patrimoniale dei conti dell'imputato dal 94 al 2019 e dei depositi titoli-, con la quale è stata dimostrata la consistenza delle somme accumulate nell'arco di 25 anni a fronte di corruzioni, che hanno interessato solo 4 anni. Si ribadisce che l'imputato svolgeva attività professionale e ha accumulato la somma sul conto corrente mediante guadagni non denunciati al fisco, sicché i versamenti di 1.500-2.000 Euro non possono ricondursi a corruzioni, essendosi accertato che mai vi era stata corresponsione in danaro. Manca la motivazione per la confisca della cassetta di sicurezza, intestata alla cognata dell'imputato e contenente gioielli della moglie dell'imputato, acquistati in epoca risalente, come provato con gli scontrini prodotti, e, comunque, non qualificabili profitto del reato non poteva disporsi la confisca di un bene di un terzo, in uso anche alla moglie dell'imputato, e in ogni caso non ne è dimostrato l'uso diretto da parte dell'imputato. Si ribadisce, infine, l'eccezione relativa alla mancanza di contraddittorio. Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto nell'interesse del G. è parzialmente fondato. 1.1 n primo motivo è fondato limitatamente al reato contestato al capo 29 , infondato relativamente agli altri reati di abuso di ufficio, contestati ai capi 34 e 43 . A differenza di quanto sostenuto nel ricorso, i giudici di merito non hanno affatto ignorato le modifiche normative introdotte dal D.L. 16 luglio 2020, numero 76, convertito dalla L. 11 settembre 2020, numero 120, che, come è noto, hanno notevolmente ridotto l'ambito di applicazione dell'articolo 323 c.p., attribuendo rilevanza penale alla sola violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, da cui non residuino margini di discrezionalità. Ancorando l'operato del pubblico agente al rispetto di specifiche e precise regole di condotta previste da fonti normative di rango primario, che non lasciano spazi discrezionali, il legislatore ha chiaramente inteso evitare incursioni nella sfera della discrezionalità amministrativa, limitando il sindacato penale alla sola violazione delle specifiche regole di condotta derivanti dalla legge. Dalla soppressione nel nuovo testo dell'articolo 323 c.p. del riferimento a norme regolamentari la difesa del ricorrente fa discendere la non configurabilità del reato di abuso d'ufficio nei casi contestati, aventi ad oggetto il rilascio di concessioni edilizie non conformi alle norme di Piano di Governo del Territorio e relative norme di attuazione, trattandosi di atti amministrativi generali e di violazione di fonti normative di rango inferiore alla legge. I giudici di merito hanno, invece, fatto corretta applicazione dell'orientamento ripetutamente espresso sul punto da questa Corte, rinvenendo nel rinvio agli strumenti urbanistici, contenuto nel D.P.R. numero 380 del 2001, la normativa cui fare riferimento per ritenere integrata la violazione di legge penalmente rilevante ed integrante l'abuso d'ufficio anche a seguito della riforma. Secondo un risalente orientamento i piani urbanistici, quali strumenti di pianificazione dell'uso e dello sviluppo del territorio, adottati dagli enti territoriali in base ad una potestà normativa loro riconosciuta dalla legge, hanno natura regolamentare, ma tale orientamento risulta ormai superato. Si ritiene, infatti, che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, la cui violazione, nel mutato quadro normativo, escluderebbe la configurabilità dell'abuso in atti di ufficio, bensì in quella degli atti amministrativi generali, la cui violazione rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa in materia urbanistica D.P.R. numero 380 del 200, articolo 12 e 13 , normativa cui deve farsi riferimento per ritenere integrata la violazione di legge , quale dato strutturale della fattispecie prevista dall'articolo 323 c.p. anche a seguito della modifica normativa. E' infatti, pacifico che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi, ai sensi del D.P.R. numero 380 del 2001, articolo 12, comma 1, alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente . Dall'espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio, rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici, integra una violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'articolo 323 c.p. Sez. 3, numero 26834 del 08/09/2020, Barletta, Rv. 280266 Sez. 6, numero 31873 del 17/09/2020 Pieri, Rv. 279889 . Quindi, la violazione di legge è integrata dall'inosservanza dell'articolo 12 del D.P.R. cit., secondo il quale il permesso a costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica, che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo articolo 13 cit., sicché il rilascio di permessi edilizi illegittimi integra il reato di abuso d'ufficio. Ciò posto, l'abuso d'ufficio contestato al G. al capo 29 riguarda una convenzione urbanistica e, in particolare, lo schema di convenzione urbanistica, denominato ambito di trasformazione numero 2 , relativo alla lottizzazione del terreno di proprietà di C.E., risultato illegittimo perché non conforme alle previsioni di Piano e difforme da quello approvato. Nei giudizi di merito si è accertato che, mediante l'allegazione all'atto notarile di una copia dello schema di convenzione, diversa da quella approvata dalla Giunta comunale, falsamente attestata come conforme all'originale dal G., fu consentito alla proprietaria del terreno e all'impresa edile Gielle Costruzioni srl di edificare ben 900 metri cubi in più di quelli assentiti e assentibili 4.500 mc anziché 3.600 mc previsti dal PGT con conseguente ingiusto vantaggio patrimoniale per i privati pari a 750 mila Euro, corrispondente al valore commerciale di 2.500 Euro/mq per 300 mq realizzati in più rispetto a quelli assentiti. Dal confronto tra la convenzione allegata all'atto notarile e quella acclusa alla delibera di Giunta emergeva un notevole scostamento di volumetria, in quanto i volumi indicati nello schema di convenzione adottato dalla Giunta comunale differivano da quelli indicati nelle richieste dei permessi a costruire per complessivi 4.470,22 metri cubi per gli immobili da realizzare sui 3 lotti e la differenza di volumetria era stata rilevata dalla C., impiegata dell'ufficio tecnico, che si era rifiutata di istruire la pratica relativa al rilascio dei permessi a costruire, ma era stata incalzata dal G. a provvedere, asserendo che anche il sindaco ne era informato su tale elemento la Corte di appello ha coerentemente fondato la consapevolezza del G. dell'indebito aumento di volumetria consentito ai privati mediante l'allegazione dello schema di convenzione, falsamente attestato come corrispondente all'originale dal ricorrente nella sua qualità di responsabile del Settore comunale e parte proponente nell'atto notarile. Tuttavia, deve rilevarsi che, pur essendo la stipula della convenzione propedeutica al rilascio dei permessi di costruire per realizzare la lottizzazione, l'imputazione formulata al capo 29 non ha ad oggetto il rilascio dei permessi a costruire, bensì l'attribuzione al lotto di un indice di edificabilità pari a 4.500 metri cubi in violazione delle norme tecniche di attuazione del PGT vigente, che stabilivano una edificabilità massima di 3.600 metri cubi, mediante le modifiche inserite nella convenzione. La condotta ascritta al G. ha, quindi, ad oggetto le modifiche apportate alla convenzione rispetto allo schema adottato e approvato con Delib. Giunta comunale e, in particolare, quelle inserite nella copia presentata dal G. e allegata all'atto notarile, della quale egli aveva falsamente attestato la conformità all'originale depositato presso il Comune ne deriva che la condotta addebitata all'imputato si esaurisce nella descritta falsificazione con conseguente assorbimento dell'abuso d'ufficio nel falso contestato al capo 32 . Ed infatti, non sussiste il concorso formale tra il delitto di abuso d'ufficio e quello di falso in atto pubblico quando la condotta addebitata all'imputato si esaurisca nella mera commissione della falsità, stante la clausola di riserva di cui all'articolo 323 c.p. e la natura sussidiaria e residuale dell'abuso d'ufficio Sez. 6, numero 3515 del 18/12/2019 dep. 2020, Pinto Vraca, Rv. 278324 Sez. 6, numero 13849 del 28/02/2017, Rv.269482 . Se, dunque, la condotta contestata al G. consiste nell'attestazione di conformità dell'atto all'originale nella consapevolezza della divergenza di contenuto rispetto alla convenzione approvata dalla Giunta comunale, il falso, contestato al capo 32 ai sensi dell'articolo 479 c.p., deve essere correttamente inquadrato nell'articolo 478 c.p., comma 1, diversa qualificazione giuridica prospettata alle parti in via preliminare e accolta dalla difesa del G. nelle conclusioni formulate in udienza-, in quanto la falsa attestazione di conformità apposta dal pubblico ufficiale è elemento integrante della fattispecie incriminatrice. L'indubbia esistenza dell'originale dello schema di convenzione adottato dalla Giunta comunale costituisce il presupposto per l'applicazione dell'articolo 478 c.p., comma 1, nel caso di specie, che ha ad oggetto un'ipotesi di falsità in copia autentica diversa dall'originale nel contenuto, atteso che l'atto derivato, anziché costituire fedele e completa riproduzione dell'originale, è falsamente attestato come corrispondente nel contenuto all'originale ed il particolare affidamento riposto nell'attestazione di conformità apposta da un pubblico ufficiale giustifica la rilevanza penale della condotta. Come chiarito da questa Corte la falsità dell'atto di autenticazione è sempre preceduta, nello schema normativo delineato dall'articolo 478 c.p., da un'altra falsità, che si consuma attraverso la formazione della falsa copia falsità questa di natura materiale, non solo quando viene simulato un atto inesistente, ma anche nell'ipotesi in cui si forma una copia difforme dall'originale, perché il documento copia, prima dell'autenticazione, non è rappresentativo di alcun atto del suo confezionatore, che possa dirsi ideologicamente falso Sez. U, numero 35814 del 28/03/2019, PG c/Marcis, Rv. 276285 ipotesi quest'ultima anch'essa ascritta al capo 30 al G., che è stato assolto sin dal primo grado da tale accusa, non essendo stato ritenuto autore materiale della redazione della copia della convenzione, modificata nel contenuto rispetto all'originale. Ne deriva che, fermo il falso per induzione, contestatogli al capo 31 , il falso strumentale alla stipula dell'atto pubblico, contestato al capo 32 , va riqualificato nel meno grave reato, previsto dall'articolo 478 c.p., comma 1 con conseguente rideterminazione della pena nei termini di cui si dirà in seguito. 1.2 Le considerazioni espresse in precedenza sulla configurabilità del reato di cui all'articolo 323 c.p. valgono per l'abuso d'ufficio, contestato al capo 34 , che ha ad oggetto una vicenda analoga, relativa alla stipula di una convenzione di lottizzazione di due aree, ricadenti nell'ambito territoriale 6 e 32, tra il Comune e la ditta L. Costruzioni srl. Anche in questo caso è stata accertata la violazione dello strumento urbanistico e la falsità degli atti preliminari alla stipula della convenzione approvata dalla Giunta comunale, che aveva recepito le indicazioni del G., contrastanti con le norme di Piano in particolare, nel predisporre lo schema di convenzione, contrariamente a quanto previsto dalle norme del Piano di Governo del Territorio, che dettavano una disciplina distinta per le due aree, il G. le aveva considerate come una sola area omogenea, in modo che il volume complessivo fosse la risultante della somma della volumetria assentita per ciascuna di esse con conseguente attribuzione alla L. Costruzioni srl di volumetria in eccesso rispetto a quella massima consentita dalle norme di Piano 3.369 metri cubi anziché 2.550 e rilascio del permesso a costruire per una cubatura di 3.310,3 metri cubi. L'edificabilità dell'area era subordinata a permesso di costruire convenzionato previa verifica di assoggettabilità a Valutazione Ambientale Strategica di competenza del G., il quale, nel rapporto preliminare ambientale aveva indicato indici di edificabilità superiori a quelli previsti dal Piano, attestando nello schema di convenzione, recepito nell'atto notarile, la conformità dei volumi realizzabili sui due lotti edificabili agli strumenti urbanistici e su tali basi era stato rilasciato all'impresa il permesso a costruire per volumi in eccesso rispetto a quelli consentiti e assentibili, dunque, palesemente illegittimo. Anche per la vicenda in esame risulta accertata la consapevole violazione di legge da parte del G., atteso che anche in tal caso la C. aveva rilevato le difformità degli indici di fabbricabilità e si era rifiutata di istruire la pratica relativa al permesso di costruire, ma il G. aveva insistito affinché l'iter procedesse, in quanto l'impresa,gia pagato gli oneri di urbanizzazione risulta inoltre, accertato che la maggior cubatura realizzabile avrebbe consentito all'impresa del L. di ottenere un ingiusto vantaggio patrimoniale di oltre 650 mila Euro ne deriva la corretta valutazione dei giudici di merito sull'intenzionalità del G. di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al titolare della società, connesso alla consentita realizzazione di una lottizzazione non conforme allo strumento urbanistico. La valutazione è corretta e conforme al noto principio affermato da questa Corte, secondo il quale il delitto di abuso d'ufficio è integrato dal requisito della doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta, che deve essere connotata da violazione di norme di legge, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta Sez. 6, numero 7972 del 06/02/2020, Ostellino, Rv. 278354 , come nel caso di specie, risultando accertata la strumentalizzazione della funzione da parte del G. che, abusando della stessa, ha violato specifici parametri normativi per favorire il privato. 1.3 Altrettanto incensurabile è la valutazione dei giudici di merito in ordine all'abuso di ufficio contestato al capo 43 , relativo all'abuso edilizio riguardante l'immobile intestato alla madre del M., stante la macroscopica violazione della normativa edilizia ed il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, neppure richiesto, per abusi insanabili e con notevole risparmio di oneri concessori. I giudici di merito hanno dato conto dell'accertata non sanabilità delle opere abusive realizzate, consistenti nel cambiamento di destinazione d'uso, nell'aumento delle unità abitative e dell'altezza e nel mancato rispetto delle distanze minime dai confini dell'atteggiamento tollerante e compiacente del G., consistito nell'omessa adozione di un ordine di sospensione dei lavori e nel rilascio di un provvedimento diverso da quello richiesto il permesso di costruire in sanatoria, appunto in palese contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia e conseguente determinazione del contributo di costruzione in sanatoria di importo notevolmente inferiore alla sanzione pecuniaria applicabile per le opere abusive, coerentemente ricavando da tali elementi il consapevole e specifico intento del G. di procurare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale all'amico M., consentendogli di conservare l'immobile e sottrarlo alla demolizione consapevolezza nettamente emergente dalle ammissioni del G. nel corso delle conversazioni intercettate all'interno del suo ufficio, riportate nella sentenza di primo grado pag. 47-48 . 2. Destituito di ogni fondamento è il secondo motivo con il quale si contesta la configurabilità del reato di corruzione piuttosto che il reato meno grave previsto dall'articolo 353-bis c.p Il ricorrente sembra trascurare che la Corte di appello ha accolto il terzo motivo di appello p.82 e 111 della sentenza impugnata , riconoscendo l'errore commesso dal primo giudice, che aveva ritenuto il concorso tra i reati, e ha, pertanto, ritenuto assorbiti i reati di cui all'articolo 353-bis c.p., contestati ai capi 6 e da 8 a 16 e nei capi 21 e 22 , nei più gravi reati di corruzione, rispettivamente contestati ai capi 3 e 49 , in applicazione della clausola di riserva espressa prevista da detta norma. Ora il ricorrente chiede la soluzione opposta e ripropone il tema della qualificazione giuridica dei fatti, già posto con il primo motivo di appello, con il quale censurava 1 la non corretta valutazione delle dichiarazioni dei protagonisti della vicenda 2 la non corretta ricostruzione dei rapporti tra il privato e il pubblico ufficiale 3 la ritenuta sussistenza di un accordo corruttivo e di un rapporto sinallagmatico tra atto illecito e ricezione indebita, non emergendo dalle intercettazioni alcuna sollecitazione o richiesta del G. nei confronti del M. per ottenere favori o retribuzioni. Contestava, inoltre, la mancata individuazione dell'atto o della condotta contraria ai doveri d'ufficio da collegare alle dazioni del M., oscillando la motivazione del primo giudice tra l'affidamento diretto dei lavori senza gara e l'emissione postuma della determina, invece, indicata dal G. quale obiettivo delle dazioni. Il tema era stato riproposto con i primi motivi aggiunti con i quali si contestava la configurabilità della corruzione per impossibilità di individuare l'atto contrario ai doveri d'ufficio compiuto dal G Ma in tal modo il ricorrente tenta nuovamente di ricondurre le dazioni illecite del M. al risalente rapporto di amicizia con il G. e di escludere il nesso tra le dazioni e l'affidamento dei lavori, individuandone la ragione piuttosto nell'intento dell'imprenditore di ottenere l'emissione postuma delle determine dirigenziali, essenziali per l'emissione della fattura e per ottenere il pagamento del credito, ancora ammontante ad oltre 100 mila Euro. Ed ancora, il ricorrente fa leva sulla natura delle dazioni, consistite in doni, regalie , ma mai in somme di denaro o utilità diverse da quelle indicate nell'imputazione, per sostenere la non configurabilità della corruzione, ma solo del reato meno grave di cui all'articolo 353-bis c.p., evidenziando che la scelta del G. di avvalersi del M. era dovuta a ragioni contingenti e sempre nell'interesse della pubblica amministrazione, trattandosi di scelta obbligata perché il M. era imprenditore sempre disponibile. Il ricorrente sembra ignorare che a tali obiezioni la Corte di appello ha risposto in modo puntuale ed esaustivo, considerando riduttiva la tesi difensiva a fronte delle ripetute, ingiustificate e palesi violazioni dei criteri di rotazione e trasparenza compiute dal G., in assenza di comprovate ragioni di urgenza e del numero di appalti affidati al M., rimarcando l'inconciliabilità di affidamenti per lavori urgenti con i consistenti volumi di affari garantiti nel corso degli anni al M., che aveva lavorato quasi esclusivamente per il comune. Del tutto logico è il rilievo attribuito alla circostanza che si trattava di volumi di affari relativi a lavori entro la soglia dei 40 mila Euro, sicché la costanza, la frequenza e l'entità degli importi annualmente incassati dal M. stridevano con la dedotta imprevedibilità ed occasionalità di lavori per situazioni eccezionali e urgenti, deponendo piuttosto per una pianificata modalità di lavoro, riconducibile ad un accordo illecito a monte, che smentiva oggettivamente le giustificazioni del G Ne' la Corte di appello ha mancato di evidenziare anche l'ulteriore illecito commesso dal G. per favorire il M., rilasciando la concessione in sanatoria, palesemente illegittima e neppure richiesta, per l'immobile della madre dell'amico, ritenuto episodio altamente indicativo del rapporto paritario tra i due, del continuo scambio di favori e del sistematico abuso delle funzioni, strumentalizzate per interessi privati. E' stata idoneamente contrastata anche la tesi riduttiva della scarsa valenza dei donativi, risultati, invece, abituali elargizioni di significativo valore economico pranzi, 60 cene da asporto, rifornimenti settimanali di carburante per oltre 100 mila Euro a volta, lavori edili presso l'abitazione del G. e altro v. pag. 107 sentenza impugnata , mai disdegnate dal ricorrente, che, anzi, effettuava abitualmente il rifornimento di carburante o ritirava cibi da asporto, lasciando il conto da pagare al M., dunque, con comportamento palese, senza imbarazzo o ritrosia, a differenza di quanto sostenuto dall'imputato. Inconsistente è la tesi che àncora alla sola natura di regalie o donativi , attribuita alle dazioni illecite, la non configurabilità del delitto di corruzione come se bastasse tale denominazione ad escluderne ogni connotazione remunerativa e carattere di illiceità, trascurandone la correlazione sinallagmatica alla gestione illecita degli affidamenti dei lavori, ricostruita in sentenza. Anche la tesi difensiva del M. è stata esaminata e motivatamente disattesa. I giudici hanno evidenziato la posizione privilegiata, assicuratagli dal metodo adottato dal G. la certezza dell'imprenditore dell'emissione della determina e del pagamento dei lavori non appena vi fosse stata disponibilità di cassa o di bilancio l'interesse a mantenere inalterato il sistema e la continuità degli affidamenti con conseguente insussistenza delle dedotte preoccupazioni circa il ritardo nei pagamenti. Con argomentazione logica la Corte di appello ha sottolineato che proprio la circostanza che l'emissione della determina era correlata alle disponibilità finanziarie dell'ente e non ad una decisione autonoma del G. dimostrava l'inconsistenza della tesi difensiva del M., il quale non aveva ragione di assicurarsene la benevolenza per ottenere il pagamento dei lavori eseguiti dal momento che la disponibilità di fondi non dipendeva dal G E' stato, anzi, sottolineato che era proprio il metodo del G. di affidare i lavori senza Delib. preventiva a non consentire di stanziare la necessaria copertura finanziaria, sicché il ritardo era imputabile al sistema di gestione creato e attuato da anni dal G La Corte di appello ha, inoltre, rimarcato che anche l'aver lavorato a credito e la stessa entità del credito ancora vantato nei confronti del Comune trovavano ragione nel metodo illecito di affidamento dei lavori, che il M. non avrebbe ottenuto o almeno non ottenuto nella stessa misura e con la stessa costanza se fossero stati rispettati i doverosi criteri di rotazione, di trasparenza e di concorrenza. Tali argomentazioni contrastano più che adeguatamente la tesi difensiva e la prospettata non configurabilità del reato di corruzione per mancata individuazione dell'atto contrario ai doveri d'ufficio, invece, ulteriormente e decisamente esclusa dalle convergenti dichiarazioni delle dipendenti dell'ufficio tecnico circa il personalissimo sistema di gestione degli appalti sotto soglia, adottato da anni dal G., il numero ristretto di ditte, che ne beneficiavano, e gli espedienti adottati per aggirare il sistema di rotazione e trasparenza imposto anche per detto tipo di appalti dichiarazioni riscontrate dalla documentazione acquisita e dalle ammissioni dello stesso ricorrente nel corso dei colloqui intercettati, riportati in sentenza v. pag. 29-31 , ma del tutto ignorati nel ricorso. L'omesso confronto con la completezza e coerenza della motivazione destina il motivo all'inammissibilità. Analoga completezza e coerenza di motivazione si rinviene anche per il capo 49 . La Corte di appello ha rimarcato il nesso anche temporale tra l'affidamento dei lavori al V. giugno 2017 e l'esecuzione gratuita delle opere di tinteggiatura presso l'abitazione del G. il mese successivo, attribuendo rilievo all'affidamento dei lavori con le stesse modalità adottate per il M. ovvero con affidamento diretto, in violazione delle regole di trasparenza e concorrenza e alla circostanza che fosse stato proprio quest'ultimo ad introdurre il V. nel circuito delle ditte beneficiate dal G. con conseguente applicazione dello stesso metodo di remunerazione illecita. 3. Il terzo motivo è fondato solo per le ragioni indicate al precedente punto 1.1, che comportano la rideterminazione della pena, risultando infondate le altre censure. Infatti, a differenza di quanto indicato nel ricorso, nel determinare la pena base in 7 anni di reclusione la Corte di appello ha ampiamente giustificato lo scostamento dal minimo edittale all'epoca dei fatti fissato in 6 anni di reclusione per il reato più grave, individuato nella corruzione di cui al capo 3 , in essa assorbiti i reati di cui ai capi 6 e da 8 a 16 , come chiarito al punto precedente. Ha infatti, giustificato lo scostamento dal minimo edittale in ragione a della durata dell'accordo corruttivo b del numero rilevante di lavori affidati al M. c delle modalità fraudolente adottate per aggirare le regole d delle consistenti e continue regalie ricevute. La censura sul punto e', pertanto, del tutto infondata, al pari dell'ulteriore censura, con la quale il ricorrente si duole del fatto che il primo giudice aveva considerato il reato unico, senza tener conto della continuazione contestata al capo 3 , erroneamente ritenendo che lo scostamento di un anno dal minimo edittale sia da imputare ad aumento per la continuazione. Il ricorrente trascura che per consolidato orientamento giurisprudenziale in presenza di un solo accordo, che preveda una pluralità di atti da compiere, si configura un unico reato rispetto al quale gli atti posti in essere dal pubblico ufficiale costituiscono momenti esecutivi, che non danno luogo a continuazione, ipotizzabile solo nel caso di pluralità di accordi corruttivi Sez. 6, numero 29549 del 07/10/2020, De Simone, Rv. 279691 , sicché del tutto correttamente la Corte di appello ha considerato unico l'accordo corruttivo e plurimi gli atti esecutivi, determinando la pena base per un unico e più grave reato di corruzione. Ne deriva che erroneamente il ricorrente ritiene che lo scostamento dal minimo edittale di un anno di reclusione sia da imputare ad aumento per una continuazione, non ritenuta né applicata, stante anche l'assorbimento delle condotte nell'unico reato di corruzione, e su tale inesistente presupposto fonda l'eccepita sproporzione degli aumenti applicati a titolo di continuazione per gli altri reati. A differenza di quanto dedotto, gli aumenti di pena applicati risultano specificati per ciascun reato, giustificati e sorretti da congrua motivazione, che tiene conto della gravità delle condotte, del contesto, della strumentalizzazione dell'ufficio e della protrazione nel tempo delle condotte, in linea con i principi affermati di recente dalle Sezioni Unite Sez. U. numero 47127 del 24/06/2021, Rv. 282269 . La sentenza, richiamata nei motivi aggiunti, precisa che il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all'entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall'articolo 81 c.p. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene conf. Sez. U, numero 7930/95, Rv. 201549 , come nel caso di specie. Tuttavia, come anticipato, per effetto dell'assorbimento del reato contestato al capo 29 in quello contestato al capo 32 , riqualificato ai sensi dell'articolo 478 c.p., la sentenza va annullata in relazione alla determinazione della pena, ma l'annullamento può avvenire senza rinvio, potendo provvedere direttamente questa Corte ai sensi dell'articolo 620 c.p.p., lett. l alla rideterminazione con mera operazione di calcolo, rispettando le determinazioni del giudice di appello. Richiamato il calcolo della pena riportato in sentenza pag. 123-124 , va escluso l'aumento di tre mesi di reclusione per l'abuso d'ufficio contestato al capo 29 , sicché la pena di anni 10 e mesi 4 di reclusione, risultante dagli aumenti applicati sulla pena base per i reati di corruzione e di turbativa nel procedimento di scelta del contraente, va aumentata di 6 mesi di reclusione per i due reati di abuso d'ufficio residui. La pena di 10 anni e 10 mesi di reclusione va aumentata di 9 mesi e giorni 5 per i cinque reati di falso contestati e di giorni 25 per il reato di cui al capo 32 come riqualificato, riducendo in proporzione la pena di 1 mese e 25 giorni di reclusione stabilita dal giudice di appello per ciascuno dei falsi contestati. La pena complessiva di 11 anni e 8 mesi di reclusione, ridotta di un terzo per il rito prescelto, determina la pena finale in anni 7, mesi 9 e giorni 10 di reclusione. 4. E' invece, fondato il motivo relativo alla confisca nei limiti e con le precisazioni di seguito illustrate. 4.1 Preliminarmente va esclusa, a differenza di quanto dedotto nel ricorso, la violazione del divieto di reformatio in peius in ordine alla confisca, che la Corte di appello ha confermato ai sensi dell'articolo 240-bis c.p. anziché ai sensi dell'articolo 322-ter c.p., come disposta dal primo giudice. Il diverso inquadramento giuridico della confisca è operazione consentita secondo l'orientamento di questa Corte. Si ritiene, infatti, che non viola il divieto di reformatio in pejus una diversa qualificazione giuridica della misura ablatoria disposta dal giudice di appello rispetto a quella stabilita in primo grado, pur in assenza di gravame sul punto da parte del pubblico ministero, in quanto l'attribuzione alla misura di una diversa qualificazione giuridica costituisce un'operazione istituzionalmente spettante al giudice, anche se di secondo grado Sez. 3, numero 9156 del 17/12/2020, dep. 2021, Petito, Rv. 281327, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima la riqualificazione giuridica della confisca di denaro ai sensi del D.L. numero 306 del 1992, articolo 12-sexies convertito nella L. numero 356 del 1992, in luogo dell'originaria confisca facoltativa del profitto del reato, disposta dal giudice di primo grado ai sensi dell'articolo 240 c.p., comma 1 . Si ritiene, altresì, che tale soluzione non pregiudica le garanzie difensive, in quanto l'imputato può far valere le proprie ragioni proponendo ricorso per cassazione, deducendo anche l'eventuale mancata assunzione di prove idonee a contrastare la base probatoria posta a fondamento della diversa tipologia di confisca. Nel caso di specie il primo giudice aveva disposto la confisca delle somme sequestrate al G. ai sensi dell'articolo 322 c.p. Dopo aver dato atto della disponibilità di utilità di valore sproporzionato, non derivanti dal reddito lecito percepito, che confluiva su altro conto, nonché della circostanza che la moglie del G. non aveva alcun reddito e non poteva aver acquistato con introiti leciti i gioielli rinvenuti nella cassetta di sicurezza, il Giudice dell'udienza preliminare aveva quantificato il profitto del reato in 950 mila Euro e disposto la confisca in tale misura. Diversamente la Corte di appello non ha ritenuto ravvisabile il collegamento tra la corruttela del M. e l'esorbitante disponibilità economica e finanziaria sequestrata al G., precisando che, pur trattandosi di rilevanti regalie, mancava la prova che avessero raggiunto l'imponente importo sequestrato, da ciò derivando l'impossibilità di ricondurre la confisca dei beni al concetto di profitto del reato ai sensi dell'articolo 322-ter c.p. e la conseguente riqualificazione del provvedimento ablatorio ai sensi del D.L. numero 306 del 92, articolo 12 sexies corrispondente all'attuale articolo 240-bis c.p., che espressamente consente in caso di condanna per il reato di cui all'articolo 319 c.p. la confisca dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui dispone in valore sproporzionato al proprio reddito. E', infatti, pacifico che il sequestro disposto ai sensi dell'articolo 240-bis c.p. prescinde dal nesso di derivazione dei beni sequestrati dal reato in forza della presunzione di accumulazione illecita correlata ai reati, tassativamente indicati, che consentono tale tipo speciale di confisca. 4.2 Neppure è ravviabile l'eccepita violazione del contraddittorio. La Corte di appello ha chiarito che il sequestro preventivo era stato disposto il 10 aprile 2019 ai sensi dell'articolo 240-bis c.p. e la misura cautelare, quale anticipazione provvisoria di un esito definitivo di confisca rendeva già di per sé l'imputato edotto dell'oggetto della misura e del suo possibile epilogo, tant'e' che sin dal primo grado il G. aveva prodotto ampia documentazione per dimostrare la legittima provenienza delle somme accumulate nel corso del tempo. Ne deriva che non vi è stata alcuna modificazione a sorpresa del tipo di confisca né violazione del diritto di difesa, essendo stato garantito il contraddittorio, tant'e' che in appello l'imputato aveva sostenuto la legittima provenienza dei redditi accumulati, in tal modo contestando la ritenuta sproporzione rispetto alla propria capacità reddituale, in continuità con la linea difensiva assunta in primo grado. 4.3 Sono invece, fondate le ulteriori censure, specie in ordine al mancato rispetto del parametro della ragionevolezza temporale. La Corte di appello ha dato atto che al momento del sequestro sui conti correnti intestati al G. o cointestati con la moglie vi era la somma complessiva di 950 mila Euro e, in base alle risultanze dell'analisi reddituale compiuta, che aveva interessato un ampio arco temporale, ha evidenziato che dal 2010 al 2018 l'imputato aveva effettuato continuativi versamenti in contanti per oltre 258 mila Euro con cadenza settimanale per importi tra i 1.500-2.000 Euro sulla cui provenienza aveva reso giustificazioni inverosimili, sostenendo trattarsi di regali anonimi, recapitatigli a casa quale segno di riconoscenza per la sua disponibilità a fornire consigli ai cittadini analoga spiegazione aveva fornito anche per alcuni orologi di valore Rolex e Cartier , custoditi nella cassetta di sicurezza in suo uso benché intestata alla cognata v. pag.107 sentenza impugnata . La Corte di appello ha, inoltre, rilevato che, pur considerando i redditi da lavoro dipendente e quelli da attività libero professionale, al netto del prelievo fiscale, le disponibilità del G. risultavano di gran lunga superiori ai redditi leciti dichiarati e non ne era stata fornita una credibile giustificazione né la sperequazione risultava giustificata da eredità, donazioni o risparmi in particolare, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, la Corte di appello ha esaminato anche tale profilo, ma ha ritenuto incompatibile la dedotta capacità di risparmio del ricorrente con l'accertato possesso di un'autovettura costosa, abitudini e tenore di vita dispendioso ha comunque, calcolato la capacità di risparmio nella misura del 25% dei redditi netti, tanto da scorporare la somma di 150 mila Euro dall'importo complessivo confiscato, ridotto in misura corrispondente. Orbene, pur prendendo atto dell'attenta analisi compiuta e delle argomentazioni espresse per contrastare le obiezioni difensive, la valutazione della Corte di appello non può essere condivisa, in quanto se è corretta la qualificazione della confisca ai sensi dell'articolo 240-bis c.p., consentita dal titolo di reato per cui vi è condanna, dalla sproporzione rilevata e non giustificata, non è adeguatamente motivato il profilo della ragionevolezza temporale della misura ablatoria. E' noto che la confisca in esame non richiede il requisito della pertinenzialità né quello della proporzionalità, essendo l'ablazione fondata sulla presunzione relativa di accumulazione illecita, che connota i reati elencati dal D.L. numero 306 del 1992, articolo 12 sexies attuale 240-bis c.p. , di cui la sproporzione di valore è il principale indicatore, sicché la confisca dei singoli beni non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna o che il loro valore superi il provento del medesimo reato Sez. U, numero 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, Rv. 226490 Sez. 2, numero 18951 del 14/03/2017, Napoli, Rv. 269657 . Tuttavia, il rischio di una eccessiva e indeterminata estensione temporale della confisca, connesso alla natura stessa di questo speciale tipo di misura ablatoria, che prescinde dal nesso di pertinenzialità tra bene e reato, è temperato dal criterio della ragionevolezza temporale, indicato dalla Corte costituzionale sentenza numero 33 del 21/02/2018 quale parametro di legittimità e di compatibilità costituzionale dell'ablazione, fondata sulla presunzione di illecita accumulazione criterio ripetutamente ribadito ancora di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte Sez. U, numero 27421 del 25/02/2021, Crostella . Nella sentenza della Corte costituzionale appena indicata si chiarisce che nell'avvertita esigenza di contemperare e trovare un punto di equilibrio tra la finalità del contrasto alla criminalità produttiva di redditi illeciti e il sacrificio dei diritti di proprietà individuali, il criterio della ragionevolezza temporale risponde all'esigenza di evitare una abnorme dilatazione della sfera di operatività della confisca allargata , che legittimerebbe altrimenti, anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nell'elenco dell'articolo 240-bis c.p., un monitoraggio patrimoniale esteso all'intera vita del condannato, rendendo particolarmente problematico per l'interessato assolvere l'onere di giustificare la provenienza dei beni ancorché inteso come onere di semplice allegazione , che diventa tanto più complicato quanto più è retrodatato l'acquisto del bene da confiscare. In una simile prospettiva, la fascia di ragionevolezza temporale , entro la quale la presunzione è destinata ad operare, andrebbe determinata tenendo conto anche delle diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria . Nel solco della giurisprudenza costituzionale può, quindi, ritenersi ormai acquisito il principio secondo il quale la presunzione di illegittima acquisizione dei beni da parte dell'imputato deve essere circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, nel senso che il momento di acquisizione del bene da confiscare non deve risultare così lontano dall'epoca di commissione del reato spia da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da un'attività illecita, anche se differente da quella che ha determinato la condanna e non sia stata accertata. In tale prospettiva, se, per quanto già detto, risulta del tutto irrilevante il costante riferimento nei motivi di ricorso all'entità del profitto derivato dai reati contestati, l'obiezione rileva sotto il profilo appena indicato nella misura in cui segnala che i reati contestati coprono un arco di 4 anni che la difesa circoscrive al periodo 2012-2016, a differenza del periodo indicato nell'imputazione , a fronte del più ampio arco temporale considerato ai fini dell'ablazione. In primo luogo, va rilevato che l'entità delle dazioni illecite non è stata in alcun modo determinata o quantificata, neanche in via approssimativa, non essendosi neppure tentata una stima delle dazioni illecite, e, ribadito che nella fattispecie non si discute di profitto o di prezzo del reato, ma solo di denaro e di beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui è titolare o dispone, anche tramite terzi, in valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato, la sproporzione risultante dagli accertamenti patrimoniali svolti risulta innegabile. Ma, come già detto, è proprio questo il punto di massima criticità della motivazione resa dalla Corte di appello, che non ha affrontato il tema dell'estensione cronologica di tali accertamenti, che coprono un arco di quindici anni né ha giustificato tale dilatazione temporale delle indagini patrimoniali con riferimento a specifiche circostanze di fatto o risultanze investigative, indicative del limite cronologico individuato per dar conto della retrodatazione del perimetro dell'ablazione rispetto agli episodi corruttivi accertati nel periodo compreso tra il 2014 e il settembre 2018 capo 3, che copre anche il fatto contestato al capo 49 . In secondo luogo, non può trascurarsi che, a fronte delle allegazioni e della documentazione offerta dal ricorrente, che copre un periodo ancor più esteso dal 94 al 2019 , la Corte di appello non ha compiuto una più precisa analisi ricostruttiva della situazione patrimoniale, finanziaria e delle disponibilità progressivamente accumulate dal G. a partire dal 2003 considerato quale dato iniziale degli accertamenti patrimoniali, estesi, come già detto, sino a quindici anni prima della commissione dei reati , tenendo conto dei redditi da lavoro dipendente o autonomo percepiti dal G. e degli incrementi ascrivibili ad investimenti o impieghi di risorse lecite. Ed ancora, non risulta chiarito, per il periodo più circoscritto considerato dal 2010 al 2018 , nel quale si erano registrati costanti e sistematici versamenti in contanti, coerentemente ritenuti non giustificati in base delle inverosimili giustificazioni rese dall'imputato, in precedenza riportate, che solo nel ricorso e nei motivi aggiunti sono indicati quali proventi di evasione fiscale -, quale fosse l'importo delle somme sino ad allora depositate, incrementato dai proventi illeciti. Considerato che la presunzione di accumulazione illecita può essere superata, dimostrando la proporzione tra redditi disponibili e valore degli acquisti e/o degli investimenti, fornendo la prova che l'acquisto è avvenuto con, redditi ulteriori rispetto a quelli regolarmente dichiarati, a condizione che gli stessiinon costituiscano provento di evasione tributaria e che si tratti di provviste lecite e tracciabili fez. 6, numero 10765 del 06/02/2018, Barba, Rv. 272719 , la risposta della Corte di appello anche sui momenti di accumulo delle somme, a fronte della specifica censura difensiva, è del tutto generica e inadeguata. Le ragioni esposte impongono l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio sulla confisca ad altra sezione della Corte di appello di Brescia, che provvederà a colmare le carenze di motivazione rilevate sui temi segnalati. 5. Il ricorso proposto nell'interesse del R. è fondato e i motivi possono essere trattati congiuntamente. Va premesso che, come segnato nel ricorso, effettivamente gli esposti erano diretti alla Procura della Repubblica e per conoscenza anche all'Ufficio di Polizia Locale e all'Arpa, sicché è pacifico, sul piano oggettivo, che l'autorità giudiziaria fosse stata già informata dei fatti e avesse ricevuto direttamente la notitia criminis ciò nonostante, il ricorrente non rimase rimasti inerte, avviando invece, un'attività di verifica e di accertamento. Risulta, infatti, che il ricorrente dispose un sopralluogo il 21 giugno 2018 per poi interfacciarsi con il G., titolare dell'Ufficio Tecnico per ulteriori verifiche, erroneamente ritenute attività dilatorie e ingiustificate sul presupposto dell'evidenza della lottizzazione. Invero, come già affermato da questa Corte, non integra il reato di cui all'articolo 361 c.p. la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti all'interno del proprio ufficio, al fine di verificare l'effettiva sussistenza di una notitia criminis e non di elementi di mero sospetto Sez. 6, numero 12021 del 06/02/2014, P.G. in proc. Kutufà e altro, Rv. 258339 Sez. 6, numero 27508 del 2009, Rv. 244528 . Peraltro, dalla sentenza e dalla documentazione allegata al ricorso risulta che la polizia giudiziaria delegata dal P.m. nel corso del sopralluogo svolto il 5 luglio 2018 aveva riscontrato solo la presenza di cumuli di rifiuti e sanzionato il Gatta, titolare della Gielle Costruzioni srl, che aveva poi provveduto a rimuovere i rifiuti e pagato la sanzione pecuniaria risulta, inoltre, che le dichiarazioni del Gatta, cui si riferiva il ricorrente parlando con il G. lo stesso 5 luglio 2018, erano quelle verbalizzate nel corso del primo controllo da lui delegato, quando il Gatta aveva affermato che l'area oggetto del controllo faceva parte dell'ambito di trasformazione 4B, non ancora riconsegnata al Comune, e che lui stava utilizzando l'area adiacente agricola come deposito temporaneo di materiale per completare gli edifici adiacenti, sicché dalla conversazione non emerge un riferimento al progetto di lottizzazione, ma solo un commento del R. sull'eccesso di informazioni, non necessarie, fornite dal Gatta al personale da lui delegato. Di ciò ne dà atto anche la sentenza di primo grado pag. 37-38 e la circostanza priva il colloquio della significatività assegnatagli dai giudici di appello per desumerne la consapevolezza dell'intento lottizzatorio del Gatta e, quindi, il comportamento volutamente dilatorio del R Ne' pare irrilevante considerare che lo stesso G. sia stato assolto dal reato di omissione di atti di ufficio, contestato al capo 5 , avente ad oggetto la mancata adozione in data 21 giugno 2018 dell'ordine di sospensione dei lavori in corso sull'area agricola di salvaguardia, pur essendo consapevole, lui sì per come emerge nettamente dalle intercettazioni e dall'aiuto promesso al Gatta, della finalità da questi perseguita di realizzare una lottizzazione abusiva sull'area. La decisione ha ricaduta sulla posizione del R., in quanto si dà atto in sentenza che il M. uno degli autori degli esposti non aveva diffidato il G. ad intervenire e ad emettere un'ordinanza di sospensione dei lavori, ma gli si era rivolto solo per avere informazioni, assunte le quali e documentato con video il transito di camion per scaricare rifiuti sull'area, aveva indirizzato l'esposto direttamente alla Procura della Repubblica. Se ne ricava che lo stesso esponente aveva chiesto informazioni al titolare dell'Ufficio Tecnico, non essendo certo che fosse in corso una lottizzazione. Anche la circostanza che, persino dopo la ricezione degli esposti, la polizia giudiziaria, delegata dal P.m. ad eseguire un sopralluogo sull'area con il preciso compito di verificare se fosse in corso una lottizzazione, riscontrò solo la violazione della normativa sui rifiuti e si limitò a sanzionare il Gatta, consente di escludere che la lottizzazione fosse evidente e che il comportamento del R. fu dolosamente dilatorio, non potendo ritenersi certamente in corso un'attività di trasformazione dell'area e palese la finalità lottizzatoria perseguita dal Ga. si ribadisce, nota al G.-, desumendola dalla sola installazione di una gru e dall'innalzamento della quota del terreno mediante deposito di terra e rocce. Per le ragioni esposte la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di R.W. perché il fatto non sussiste. Assorbito il reato di cui al capo 29 nel reato di cui al capo 32 e riqualificato tale reato ai sensi dell'articolo 478 c.p., comma 1, annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G.R. in ordine alla quantificazione della pena principale, che ridetermina in anni sette mesi nove e dieci di reclusione annulla, inoltre, la sentenza impugnata nei confronti di Gardonp relativamente alla disposta confisca e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Brescia. Rigetta nel resto il ricorso di G Condanna G. a rifondere alla parte civile Comune di Concesio le spese di rappresentanza e difesa nel presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.510,00 oltre accessori di legge.