Militare di leva morto a causa della meningite contratta nell’infermeria della caserma: benefici economici per i genitori

Riconosciuta dai Giudici della Cassazione l’equiparazione con le cosiddette vittime del dovere. Decisiva la constatazione della scarsa vigilanza degli organi superiori militari nella gestione dell’infermeria, dove i militari colpiti dalla malattia non erano tenuti in quarantena bensì ricoverati con gli altri militari non infetti.

Catalogabile come vittima del dovere - con relativo indennizzo per i suoi familiari da parte dello Stato - il militare di leva morto a causa della meningite contratta per contagio all’interno dell’infermeria della caserma. A essere presa in esame è la vicenda riguardante la morte di un militare italiano, deceduto nel febbraio del 1984 a seguito di una meningite contratta tramite contagio all’interno dell’infermeria della caserma. Sul tavolo dei Giudici c’è la richiesta dei genitori del militare, richiesta mirata a vedersi riconosciuti, in quanto familiari superstiti, i benefici previsti dalla legge per le cosiddette vittime del dovere . Sia in Tribunale che in Corte d’Appello, però, la domanda proposta dalla madre e dal padre del militare viene ritenuta non accettabile. Ciò perché, osservano i Giudici, «non va riconosciuto al militare deceduto la qualifica di soggetto equiparato a vittima del dovere», essendo conferibile tale qualifica, secondo la legge, «soltanto nei confronti di eventi legati ad un’ attività specifica intrinsecamente pericolosa e non anche ad accadimenti derivanti dall’esposizione a un fattore letale» come il contrarre per contagio una malattia. In sostanza, i Giudici di secondo grado non ritengono possibile porre la morte del militare in relazione causale e temporale con lo svolgimento di un’ordinaria attività di servizio, sostenendo, invece, che «l’evento letale non si è determinato nell’ambito di una precisa missione assegnata al militare di leva, dal momento che questi non svolgeva servizio in infermeria né come guardia ordinaria di vigilanza, in condizioni ambientali di freddo intenso, tali da determinare l’aggravamento del rischio di contagio». Per completare il quadro, poi, i Giudici sottolineano ancora che non è emerso che l’infortunio alla caviglia, che ha costretto il militare a recarsi in infermeria per una visita, «si fosse verificato durante l’espletamento del’ordinaria attività di servizio», mentre si è appurato che «il militare si era recato in infermeria come mero paziente e non nello svolgimento di un incarico istituzionale a lui assegnato». Di conseguenza, «la causa del contagio era dipesa, in definitiva, dal fatto che all’interno dell’infermeria erano ricoverati altri commilitoni con sospetta meningite». Col ricorso in Cassazione il legale che rappresenta i genitori del militare contesta duramente la valutazione compiuta in Tribunale. In particolare, egli sostiene che «le particolari condizioni ambientali ed operative richieste dalla legge possono essere configurate anche nel caso in cui, pur non essendovi stato uno specifico incarico o lo svolgimento di una specifica mansione, è l’attività di servizio in sé ad esporre il soggetto ad un rischio anomalo». E ragionando in questa ottica il legale porta avanti la tesi secondo cui «nel concetto di missione va ricompreso anche il servizio di leva » e «le particolari condizioni ambientali e operative in cui esso si svolge giungono fino a ricomprendere le condizioni ambientali di igiene e sicurezza». Di conseguenza, «l’omissione del dovere di sorveglianza sanitaria e di isolamento dei militari infetti - che mangiavano insieme agli altri militari e venivano ricoverati in infermeria con i colleghi non colpiti da contagio - concretizza esattamente quel rischio specifico che giustifica il riconoscimento della qualifica dei genitori del militare deceduto quali familiari superstiti di soggetto equiparato a vittima del dovere». Per i Giudici della Cassazione le osservazioni proposte dal legale dei genitori del militare deceduto hanno una evidente solidità. Innanzitutto, essi pongo in evidenza il fatto che centrale, nella vicenda presa in esame, è «la circostanza che il militare in servizio di leva obbligatorio, nell’impossibilità di rivolgersi a strutture sanitarie alternative, è stato, di fatto, esposto obiettivamente ad un rischio specifico in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei suoi compiti». Difatti, egli «ha corso un rischio non generico, che in nessun modo può essergli imputato, e nemmeno è riferibile a una missione compresa nelle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti d’istituto». Esaminando poi i dettagli della vicenda, i magistrati evidenziano che «i militari affetti da contagio non erano tenuti in quarantena, ma ricoverati in infermeria a contatto con i militari non infetti». Tale rilievo è sufficiente a configurare «la sussistenza delle particolari condizioni ambientali od operative in capo al militare di leva in servizio obbligatorio, il cui decesso è dipeso dalla ragione obiettiva che quella di rivolgersi all’infermeria della caserma costituiva una scelta necessitata, non avendo egli nessun’altra possibilità riguardo al permanere all’interno dell’infermeria e della stessa caserma». Evidente, quindi, l’esistenza di «cause specifiche e straordinarie che hanno modificato radicalmente le condizioni ambientali e operative del servizio, rendendole rischiose al punto tale da costituire un vulnus per la vita stessa dei militari», anche perché non si può considerare fisiologica «l’inerzia e la scarsa vigilanza degli organi superiori militari» in merito alla «salvaguardia dell’integrità psico-fisica del personale in servizio di leva». Tirando le somme, e acclarata la ricostruzione della vicenda, è sacrosanta «la stigmatizzazione dell’operato della pubblica amministrazione nella gestione igienico-sanitaria della caserma, gestione che ha messo a rischio la salute e l’incolumità del militare di leva» poi deceduto, che deve essere considerato, precisano i Giudici, «soggetto equiparato a vittima del dovere » con annesse «conseguenze di legge nei confronti dei genitori superstiti», i quali, in sostanza, hanno tutto il diritto di pretendere benefici economici e assistenziali dallo Stato.

Presidente Berrino – Relatore De Felice Fatti di causa La Corte d'appello di Venezia, a conferma della pronuncia del Tribunale di Treviso, ha rigettato la domanda proposta da B.G. e S.I., diretta alla concessione dei benefici assistenziali di legge in quanto familiari superstiti di Bo.Gi., militare di leva presso la caserma di omissis , deceduto nel omissis a seguito di meningite contratta per contagio all'interno dell'infermeria, ove si era recato per sottoporsi ad una visita medica. La Corte territoriale disattendendo la domanda attrice non ha riconosciuto al militare deceduto la qualifica di soggetto equiparato a vittima del dovere, ritenendo che la L. numero 266 del 2005, articolo 1, comma 564, imponga di conferire siffatta qualifica soltanto nei confronti di eventi legati a un'attività specifica intrinsecamente pericolosa e non anche ad accadimenti derivanti dall'esposizione a un fattore letale. In altri termini, la Corte territoriale non ha inteso porre l'evento mortale in relazione causale e temporale con lo svolgimento dell'ordinaria attività di servizio, sostenendo che l'evento letale non si era determinato nell'ambito di una precisa missione assegnata al militare di leva, dal momento che questi non svolgeva servizio in infermeria nè come guardia ordinaria di vigilanza, in condizioni ambientali di freddo intenso, tali da determinare l'aggravamento del rischio di contagio. La Corte ha rilevato ancora che non era risultato che l'infortunio alla caviglia fosse avvenuto durante l'espletamento dell'ordinaria attività di servizio e che il militare si era recato in infermeria come mero paziente e non nello svolgimento di un incarico istituzionale a lui assegnato. La causa del contagio era dipesa, in definitiva, dal fatto che all'interno dell'infermeria, presso la quale egli si era recato come paziente, erano ricoverati altri commilitoni con sospetta meningite. È sulla base di tale percorso argomentativo che la Corte d'appello, richiamandosi alla sentenza di questa Corte numero 22686 del 2018, ha escluso il ricorrere delle condizioni richieste dalla L. numero 266 del 2005, articolo 1, comma 564, ai fini del riconoscimento dei benefici riservati ai soggetti equiparati alle vittime del dovere in capo ai genitori del militare deceduto in quanto familiari superstiti. La cassazione della sentenza è domandata da B.G. e S.I. sulla base di un unico motivo, illustrato da successiva memoria. Il Ministero della Difesa ha depositato tempestivo controricorso. Il P.G. ha concluso per l'accoglimento del ricorso. Ragioni della decisione Con l'unico motivo, parte ricorrente deduce Violazione della L. numero 26 del 2005, articolo 1, comma 564, del D.P.R. numero 243 del 2006, articolo 1, commi b e c . La sentenza impugnata avrebbe ritenuto erroneamente che, non essendosi in presenza dello svolgimento di una missione di qualunque natura , non sarebbero configurabili le condizioni ambientali e operative tali da concretizzare quel rischio che giustifica il riconoscimento della qualifica di soggetto equiparato a vittima del dovere in capo al soggetto interessato. Il motivo fa appello alla giurisprudenza di questa Corte al fine di sostenere che le particolari condizioni ambientali ed operative richieste dalla legge possono essere configurate anche nel caso in cui, pur non essendovi stato uno specifico incarico o lo svolgimento di una specifica mansione, è l'attività di servizio in sé ad esporre il soggetto ad un rischio anomalo. In definitiva, parte ricorrente sostiene che nel concetto di missione di qualunque natura L. numero 266 del 2005, ex articolo 1, comma 564, e del D.P.R. numero 243 del 2006, articolo 1 lett. b, va ricompreso anche il servizio di leva e che le particolari condizioni ambientali e operative in cui esso si svolge giungono fino a ricomprendere le condizioni ambientali di igiene e sicurezza che l'omissione del dovere di sorveglianza sanitaria e di isolamento degli infetti che nel caso in esame mangiavano insieme agli altri militari e venivano ricoverati in infermeria con i colleghi non affetti da contagio da parte dei responsabili, concretizza esattamente quel rischio specifico che giustifica il riconoscimento della qualifica dei ricorrenti quali familiari superstiti di soggetto equiparato a vittima del dovere. Il motivo merita accoglimento. Va premesso che il richiamo al precedente, al quale la Corte territoriale fa espresso riferimento Cass. numero 22686 del 2018 , si rivela inconferente nel caso in esame. Nel caso di specie, infatti, il punto dirimente non è costituito dal perimetro di tipizzazione delle attività che possono dar luogo al riconoscimento della qualifica di vittima del dovere, ossia all'ampiezza del concetto di missione, sì come estesa a tutti i compiti svolti dal personale militare resi per funzioni operative, addestrative, logistiche su mezzi o nell'ambito di strutture, stabilimenti e siti militari. Quanto emerge nella fattispecie in esame è, altresì, indipendente dalla causa dell'infermità, e concerne la circostanza, tutt'affatto diversa che, nell'impossibilità per il militare in servizio di leva obbligatorio di rivolgersi a strutture sanitarie alternative, egli è stato, di fatto, esposto obiettivamente ad un rischio specifico in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti d'istituto. Nel caso di specie, Bo.Gi. aveva corso un rischio non generico che in nessun modo può essergli imputato, e nemmeno è riferibile a una missione compresa nelle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti d'istituto. I militari affetti da contagio non erano tenuti in quarantena, ma ricoverati in infermeria a contatto con i militari non infetti. Il rilievo è sufficiente a configurare la sussistenza delle particolari condizioni ambientali o operative in capo al militare di leva in servizio obbligatorio, il cui decesso è dipeso dalla ragione obiettiva per cui, quella di rivolgersi all'infermeria costituiva una scelta necessitata, non avendo egli nessun'altra possibilità riguardo al permanere o non all'interno dell'infermeria e della stessa caserma. Dunque la Corte territoriale, che ha dato, comunque, conto del subentrare delle cause specifiche e straordinarie che hanno modificato radicalmente le condizioni ambientali e operative del servizio, rendendole rischiose al punto tale da costituire un vulnus per vita stessa dei militari, non ha tratto da tale accertamento le necessarie conseguenze - a meno di non voler considerare fisiologica l'inerzia e la scarsa vigilanza degli organi superiori militari - il che entrerebbe in collisione diretta e immediata con il principio costituzionale di tutela della salute e sicurezza, nonché con le corrispondenti tutele contemplate negli ordinamenti civile e militare a salvaguardia dell'integrità fisico - psichica della persona, e, segnatamente, del personale in servizio di leva. La lettura degli atti reclama, in conclusione, la stigmatizzazione dell'operato della pubblica amministrazione nella gestione igienico - sanitaria della caserma di omissis , così come accertata nel giudizio di merito, che ha messo a rischio la salute e la stessa incolumità del militare di leva Bo.Gi., al quale va, pertanto, riconosciuta la qualifica di soggetto equiparato a vittima del dovere, con le dovute conseguenze di legge nei confronti dei genitori superstiti, attuali ricorrenti. In definitiva, il ricorso va accolto. La sentenza impugnata va cassata, e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Venezia in diversa composizione, anche sulla determinazione delle spese del giudizio di legittimità. In considerazione dell'esito del giudizio, dà atto che non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Venezia in diversa composizione, anche sulle spese del presente giudizio.