Gelosia, vacanza e casa in affitto bastano per dare concretezza all’adulterio

Confermato a carico di una donna l’addebito per la separazione coniugale. Impossibile ridimensionare il rapporto da lei avuto con un uomo che non era il marito e catalogarlo come esclusivamente epistolare e virtuale.

Gelosia, vacanza e casa in affitto sono elementi sufficienti per ritenere reale, e non solo virtuale, la relazione della donna con un uomo che non è il marito. Sacrosanto perciò attribuire a lei la responsabilità per l'irreversibile crisi coniugale. Ufficializzata la separazione tra moglie e marito, i giudici di merito sanciscono, sia in primo che in secondo grado, che il comportamento della donna ha dato il “la” alla crisi della coppia. In Appello viene sottolineato che «le risultanze processuali acquisite evidenziano l'esistenza di una relazione extraconiugale della donna». Più precisamente, è emerso che la donna «si era recata in Comune dichiarando che avrebbe ospitato per circa un mese un cittadino algerino B.S.» e «in alcuni scritti» sono state accertate «manifestazioni di gelosia espresse nei di lui confronti», a testimonianza, secondo i giudici, della «sussistenza di un legame affettivo». Significative poi anche le dichiarazioni della figlia della donna, la quale ha parlato alle insegnanti della «vacanza programmata dalla mamma in compagnia di un fidanzato». Infine, viene anche sottolineato il dato rappresentato dal «reperimento», da parte della donna, «di un'unità immobiliare in locazione con versamento di cauzione». Non discutibile, quindi, secondo i giudici d'Appello, «la sussistenza dell'addebito e la sua efficacia causale sulla separazione, sia sul piano cronologico che su quello logico, difettando la prova di una intollerabilità della convivenza tra moglie e marito in data antecedente al comportamento assunto dalla donna in violazione dei suoi doveri coniugali». Nel contesto della Cassazione, però, la donna sostiene non le si possa addebitare «la violazione dell'obbligo di fedeltà coniugale», avendo, spiega, solo «allacciato una corrispondenza epistolare e via chat con un uomo», mentre «si deve intendere per adulterio una relazione affettiva reale e non virtuale, fatta di incontri e di effusioni che invece non ci sono stati». Queste osservazioni non convincono però i Giudici di terzo grado, i quali ribattono, innanzitutto, che «la relazione extraconiugale rende addebitabile la separazione quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà, e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all'onore del coniuge». Ma nella vicenda in esame, aggiungono i magistrati, «le risultanze processuali acquisite» hanno consentito di ritenere accertata «l'esistenza di una relazione extraconiugale della donna», non certo riferibile a un mero «scambio di corrispondenza epistolare e via chat con un uomo». Tirando le somme, è provato il tradimento reale e concreto perpetrato dalla donna ai danni del marito, e ciò è più che sufficiente per attribuirle la responsabilità per la separazione.

Presidente Parise – Relatore Caradonna Rilevato che 1. Con sentenza dell'11 novembre 2020, la Corte di appello di Ancona ha rigettato l'appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Ancona numero 442/2020 del 10 marzo 2020, che aveva pronunciato la separazione dei coniugi M.P. e P.S. , con addebito a quest'ultima, disponendo l'affido condiviso dei due figli minorenni, F. e G. , con collocamento presso la madre e stabilendo un obbligo contributivo di mantenimento a carico del padre pari ad Euro 500,00 mensili, oltre al concorso nella misura del 50% per spese straordinarie. 2. La Corte d'appello, per quel che rileva in questa sede, ha affermato che le risultanze processuali acquisite evidenziavano l'esistenza di una relazione extraconiugale della P. riferibile quantomeno al 2014, come riscontrato dal fatto che l'appellante si era recata in Comune dichiarando che avrebbe ospitato per circa un mese il cittadino algerino B.S. e dalle manifestazioni di gelosia espresse nei di lui confronti in alcuni scritti contenenti manifestazioni che evidenziavano la sussistenza di un legame affettivo tra i due, nonché dalle dichiarazioni della figlia G. alle insegnanti sulla vacanza programmata dalla mamma in compagnia di un fidanzato e dal reperimento di un'unità immobiliare in locazione con versamento di cauzione i giudici di secondo grado hanno, poi, confermato la sussistenza dell'addebito e la sua efficacia causale sulla separazione sia sul piano cronologico, che su quello logico, difettando la prova di una intollerabilità della convivenza in data antecedente al comportamento assunto dalla P. in violazione dei suoi doveri coniugali. 3. P.S. ricorre in cassazione con atto affidato a due motivi. 4. M.P. ha depositato controricorso. 5. Il ricorso è stato assegnato all'adunanza in Camera di consiglio non partecipata del giorno 15 febbraio 2022 ai sensi dell'articolo 380 bis c.p.c Considerato che 1. Con il primo motivo si deduce che la Corte d'appello aveva omesso di valutare il fatto decisivo correlato alle violenze e alle vessazioni derivanti dall'etilismo di M.P. risultante nel decreto emesso in sede di udienza preliminare del G.I.P. del Tribunale di Ancona del 30 maggio 2017, da cui si evince che la crisi della relazione coniugale era iniziata nel 2013, e del decreto del Tribunale dei Minorenni delle Marche del 28 aprile 2016, che attesta che lo stesso M. aveva ammesso l'abuso di alcool ai Servizi Sociali. 1.1 Il motivo è inammissibile. 1.2 Ed invero, le censure si appalesano aspecifiche, poiché non si confrontano con il contenuto del provvedimento impugnato, che, lungi dal non esaminare le violenze e i maltrattamenti posti in essere dal marito nei suoi confronti fin dal 2013, li esamina specificamente, affermando, con un iter argomentativo, che non è stato adeguatamente censurato, che le violenze e i maltrattamenti risultavano smentiti sia dall'avvenuta assoluzione in sede penale dalle accuse e che, al riguardo, non appariva affatto decisivo il rilievo che l'assoluzione fosse avvenuta con formula dubitativa e ciò in disparte l'affermazione di controparte che l'assoluzione fosse stata pronunciata con formula piena, ai sensi dell'articolo 530 c.p.p., comma 1 , sia dal difetto di qualsiasi accertamento che potesse dare credito all'assunzione di bevande alcoliche da parte del M. , sia in quanto la crisi coniugale appariva difficilmente collocabile nell'anno 2013, dato che proprio quell'anno il 21 luglio 2013 la coppia, già coniugata civilmente, aveva celebrato il matrimonio religioso. 1.3 Rileva anche un difetto di autosufficienza delle censure, laddove la ricorrente richiama il decreto del Tribunale dei Minorenni delle Marche del 28 aprile 2016, del quale, tuttavia, non viene riportato analiticamente il contenuto. Ed invero, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, prescritto, a pena di inammissibilità, dall'articolo 366 c.p.c., comma 1, numero 3, è volto ad agevolare la comprensione dell'oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell'impugnazione ne deriva che il ricorrente ha l'onere di operare una chiara funzionale alla piena valutazione di detti motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte di cassazione che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto Cass., 4 ottobre 2018, numero 24340 . La doglianza si risolve, dunque, nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma attualmente vigente ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, numero 5, nonché volta ad una nuova valutazione dei fatti e delle risultanze istruttorie, non ammissibile in questa sede. 2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 143 c.c., comma 2, in quanto non configurava la violazione dell'obbligo di fedeltà l'avere allacciato una corrispondenza epistolare e via chat con altro soggetto, dovendosi intendere per adulterio una relazione affettiva reale e non virtuale, fatta di incontri e di effusioni che nella specie non vi erano stati. 2.1 Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. 2.2 È infondato nella parte in cui afferma che è ius receptum che per adulterio deve intendersi una relazione affettiva reale e non virtuale, dovendosi richiamare sul punto la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensi dell'articolo 151 c.c., quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all'onore dell'altro coniuge Cass., 19 settembre 2017, numero 21657 . 2.3 Nel caso in esame, tuttavia, i giudici di appello hanno affermato che le risultanze processuali acquisite evidenziavano, al di là di ogni dubbio, l'esistenza di una relazione extraconiugale della P. riferibile quantomeno al 2014, specificando le circostanze di fatto ritenute rilevanti alle pagine 8 e 9 della sentenza impugnata, niente affatto riferibili ad uno scambio di corrispondenza epistolare e via chat tra la ricorrente e il cittadino algerino, ritenendo, dunque, sufficientemente provata anche l'infedeltà reale. 2.4 Il motivo è, inoltre, inammissibile sotto lo specifico profilo di censura di violazione di legge, perché non rientra nell'ambito applicativo dell'articolo 360 c.p.c., comma 1, numero 3, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità Cass., 14 gennaio 2019, numero 640 . 3. In conclusione, il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell'ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. numero 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis. Dispone, per l'ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, numero 196, articolo 52. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.