L'accordo concluso fra gli esercenti richiedeva doversi svolgere ad almeno due chilometri l'attività di bar e quella di pasticceria.
Con l'ordinanza in esame, la Corte di Cassazione è stata chiamata ad accertare la violazione del patto di non concorrenza tra un bar e una pasticceria nello specifico, tra gli esercenti era intervenuto un accordo di non svolgere l'attività a una distanza inferiore ai due chilometri. Secondo i Giudici, l'apertura di un'impresa nelle vicinanze di altra integra la violazione del patto di non concorrenza in particolare, la Corte territoriale ha ritenuto provata l'esistenza del pregiudizio sulla base delle considerazioni ex articolo 2729 c.c., atteso che la prossimità degli esercizi commerciali, anche comparata all'accordo concluso fra le parti, lasciava presumere che la nuova apertura era mirata alla sottrazione della clientela dell'altro esercizio. Sul punto, la Suprema Corte ha già avuto modo di chiarire che il danno da violazione dell'obbligo di non concorrenza, pattuito tra le parti, ben possa essere provato mediante presunzioni, come nella specie la contiguità dei due esercizi commerciali Cass. civ., numero 8233/2016 nel calcolo del danno, poi, non bisogna fare riferimento solo alla contrazione del fatturato, ma anche della riduzione del potenziale di vendita. Pertanto, nel caso di specie per determinare l'entità del danno i giudici di merito hanno correttamente utilizzato il criterio equitativo, secondo il parametro dato dal valore concordato all'avviamento aziendale moltiplicato per tre annualità.
Presidente Di Marzio – Relatore Nazzicone Rilevato Viene proposto ricorso per cassazione, sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d'appello di Firenze del 20 giugno 2019, numero 1515, la quale, decidendo su rinvio da Cass. 22 aprile 2016, numero 8233 ed in accoglimento delle domande proposte da Le Golosità di C.F. & C. s.a.s., ha a accertato una minor somma dovuta ai soci uscenti, in ragione di passività emerse e riferite al periodo ante recesso, condannando i soci stessi alla restituzione della differenza b accertato la violazione del patto di non concorrenza, ad opera dei soci, condannandoli a titolo di risarcimento del danno, in via solidale, al pagamento della somma di Euro 60.000,00 in favore della società, oltre alle spese di lite. Si difende con controricorso la società intimata. Parte ricorrente ha depositato la memoria. Ritenuto 1. - Il ricorso articola verso la sentenza impugnata i seguenti motivi 1 violazione o falsa applicazione degli articolo 1226 e 2056 c.c., i quali permettono la liquidazione equitativa del danno provato nell'an, ma nella specie non esiste tale prova inoltre, non si sarebbe potuto liquidare il danno da violazione dell'obbligo di non concorrenza prendendo a parametro l'avviamento dell'azienda, che non riguarda solo i clienti della stessa 2 violazione o falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c., perché la controparte non ha assolto al proprio onere probatorio, avendo beneficiato della liquidazione equitativa del danno, il quale, invece, non poteva essere considerato in re ipsa. 2. - La corte territoriale, decidendo su rinvio, ha ritenuto - per quanto qui ancora rileva - che la sentenza rescindente Cass. 22 aprile 2016, numero 8233 abbia chiarito come, da un lato, il danno da violazione dell'obbligo di non concorrenza, pattuito tra le parti, ben possa essere provato mediante presunzioni, come nella specie la prossimità dei due esercizi commerciali bar e pasticceria , e, dall'altro lato, il danno non consista solo nella contrazione del fatturato, ma anche nella riduzione del potenziale di vendita. Sulla base di tali principi, ha ritenuto, da un lato, provata l'esistenza del pregiudizio, sulla base degli elementi probatori in atti e delle considerazioni da essa esposte, ai sensi dell'articolo 2729 c.c., atteso, in particolare, che la prossimità degli esercizi commerciali - anche comparata all'accordo concluso fra le parti, che richiedeva doversi svolgere ad almeno due chilometri il bar e fuori dalla provincia di Arezzo la pasticceria - lascia presumere la sottrazione di clientela. Per determinare il danno, ha utilizzato il criterio equitativo, secondo il parametro dato dal valore concordato dell'avviamento aziendale, ridotto con riguardo alla sottrazione solo parziale del medesimo, peraltro per tre anni. 3. - I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto presentano lo stesso vizio, sono inammissibili. In entrambi gli assunti, i motivi mirano invero a riproporre il giudizio fattuale - l'esistenza di un danno da violazione del dovere di non concorrenza, la riduzione dell'avviamento - che non pertiene alla Corte di legittimità, ma ai poteri-doveri riservati al giudice del merito. Del resto, il potere del giudice di merito di valutare il danno in via equitativa, ai sensi dell'articolo 1226 c.c., consiste nella possibilità del giudice di ricorrere, anche d'ufficio, a criteri equitativi per raggiungere la prova dell'ammontare del danno risarcibile, integrando così le risultanze processuali che siano insufficienti a detto scopo ed assolvendo l'onere di fornire l'indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale ha adottato i criteri stessi. Quanto al secondo motivo, esso è inammissibile anche perché, denunciando violazione del principio dell'onere della prova di cui all'articolo 2697 c.c., non concerne affatto l'individuazione del soggetto gravato dell'onere probatorio, ma si appunta in buona sostanza sull'assunto, concernente però il merito, secondo cui sarebbe mancata la prova di un danno. Tuttavia, costituisce principio costante che la violazione dell'articolo 2697 c.c., ricorre solo quando il giudice attribuisca l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulti per legge gravata Cass. 17 giugno 2013, numero 15107 più di recente, Cass. 13 febbraio 2018, numero 3450, ed altre . Nel caso in esame, invece, la censura non investe l'individuazione del soggetto tenuto a provare la sussistenza del credito risarcitorio soggetto che resta il danneggiato, come invero la corte territoriale ha correttamente affermato. 4. - Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 5.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge. Dà atto che sussistono le condizioni per l'applicazione del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, ove dovuto il contributo unificato.