Benemerenza ai perseguitati per motivi d’ordine razziale: un primo mutamento di rotta della Corte dei Conti

Nel Giorno della Memoria l’Autore e l’Editore segnalano al lettore la sentenza della Corte dei Conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello, numero 349 del 15 settembre 2021 che ha riconosciuto l’assegno di benemerenza a un cittadino italiano costretto ad allontanarsi dalla propria residenza per sfuggire alle persecuzioni conseguenti all’appartenenza del proprio nucleo familiare alla comunità ebraica.

La Corte ritiene che il forzato spostamento di residenza configuri specifica violenza, sia pure d'ordine morale, compiuta da parte di «persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista» tale da legittimare il diritto alla concessione dell'assegno di benemerenza. La vicenda dibattuta. Il Sig. N.S.J. proponeva ricorso innanzi alla Corte dei Conti Sezione giurisdizionale Lombardia avverso la deliberazione emessa dalla Commissione per le Provvidenze ai Perseguitati Politici o Razziali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, recante rigetto della domanda di riconoscimento del diritto alla percezione dell'assegno vitalizio di benemerenza di cui all'articolo 3 della l. numero 932/1980. La Sezione giurisdizionale Lombardia respingeva il ricorso valutando le allegazioni del richiedente generiche, «non precisandosi in alcun modo quali sarebbero state le ‘persecuzioni e angherie' lamentate, né potendosi con la necessaria sicurezza escludere che la fuga della famiglia a G. fosse ricollegabile non alle conseguenze delle leggi razziali ma ad altre cause, quali i bombardamenti alleati sulla Libia». Il Sig. N.S.J. ha interposto gravame avverso detta sentenza, formulando un unico motivo di impugnazione avente ad oggetto la falsa ed erronea applicazione delle norme di diritto che disciplinano il riconoscimento dell'assegno vitalizio di benemerenza. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha contrastato le pretese dell'istante chiedendo il rigetto dell'appello sul presupposto della corretta argomentazione alla base della sentenza impugnata. Con ulteriore memoria l'appellante ha evidenziato che la più recente legislazione articolo 1, comma 373, l. numero 178/2020 ha modificato la ripartizione dell'onere della prova, stabilendo che, nel caso di persecuzioni per motivi di ordine razziale, gli atti di violenza o sevizia subiti in Italia o all'estero si presumono, salvo prova contraria. La novella legislativa sull'inversione dell'onere della prova non ha effetto retroattivo. I Giudici si concentrano anzitutto sulle modifiche alla normativa di riferimento introdotte dall'articolo 1, comma 373, l. numero 178/2020, secondo cui, all'articolo 1 della legge 10 marzo 1955, numero 96, «nel caso di persecuzioni per motivi di ordine razziale, gli atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero di cui al secondo comma, lettera c , si presumono, salvo prova contraria». Osserva, al riguardo, il Collegio che tale novella legislativa è esplicitamente rivolta al futuro le posizioni già incardinate debbono essere trattate sulla base delle disposizioni esistenti al momento in cui la domanda amministrativa è stata proposta. Le modifiche alla disciplina di legge vengono dunque ritenute inapplicabili al caso in esame muovendo dal presupposto che il citato articolo 1 al successivo comma 374 stabilisce che «le disposizioni di cui al comma 373 si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e non danno titolo alla corresponsione di arretrati riferiti ad annualità precedenti». Le persecuzioni per motivi di ordine razziale. Nonostante quanto sopra, l'appello viene ritenuto fondato nel merito. La Corte, dopo aver ripercorso le prove fornite dall'appellante e, segnatamente, la documentazione storiografica prodotta, rileva che la famiglia del richiedente, poiché appartenente alla comunità ebraica, venne effettivamente costretta ad allontanarsi dalla propria residenza a Tripoli per stabilirsi in altra località all'interno del territorio libico, con lo scopo di sfuggire alle persecuzioni. A conferma di tali fatti storici è richiamato in atti il contenuto del volume di Renzo De Felice, “Ebrei in un paese arabo gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo 1835-1970 ”, nel quale narrato che il giorno 7 aprile 1941 un appartenente alla famiglia dell'appellante – esponente della comunità ebraica tripolitana e al tempo noto politico – fu costretto a scendere dal treno sul quale viaggiava perché pesantemente insultato da alcuni fascisti che «non volevano sopportare né vedere tra i piedi nessun ebreo». La famiglia di appartenenza dell'appellante, puntualizza la Corte dei Conti, fu quindi costretta, a seguito di tali persecuzioni, a spostarsi in altro luogo come dimostrato dalla nascita della sorella risultante dal depositato stato di famiglia. In quel contesto le leggi razziali impedivano agli ebrei di concludere accordi di acquisto, di vendita, di appalto, ed era stata disposta la mobilitazione per lavori forzati degli ebrei sino a 45 anni. In breve, dall'attenta disamina del compendio documentale, la Corte trae la conseguenza che, soggettivamente, la famiglia di appartenenza dell'appellante fu destinataria di violenze, tanto da essere indotta a trasferirsi altrove per evitare di essere esposta a ulteriori effetti negativi. Gli atti persecutori di violenza. Vengono poi richiamate le decisioni numero 9/1998/QM e numero 8/2003/QM delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti che hanno qualificato come atti di violenza di cui alla normativa di riferimento articolo 1 della l. 10 maggio 1955, numero 96, a seguito delle modifiche apportate dall'articolo 1 della l. 3 aprile 1961, numero 284, dall'articolo 1 della l. 24 aprile 1967, numero 261 e dall'articolo 1 della l. 22 dicembre 1980, numero 932 , quelli che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto della persona in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti accanto alla violenza fisica, dunque, quale presupposto e fondamento degli assegni di cui trattasi, si pone la violenza cosiddetta morale, ogniqualvolta essa si estrinsechi e si concreti in azioni lesive del diritto della persona. Chiarisce la Corte dei Conti che affinché la lesione del diritto della persona sia idonea a far sorgere, in capo al soggetto leso, il diritto ad uno degli assegni medesimi, occorre che gli atti di violenza muovano da intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso, con l'avvertenza che la motivazione razziale può presumersi ove la violenza - con le connotazioni precisate e nel concorso delle altre condizioni di legge – abbia colpito un soggetto appartenente alla comunità discriminata. Precisa inoltre la Corte che tali atti debbono essere stati compiuti tra il 7 luglio 1938 e l'8 settembre 1943, ed è necessario, infine, che siano avvenuti ad opera di «persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista». A detta della Corte gli atti lesivi devono essere riferibili ai soggetti indicati dalla norma, secondo i consueti criteri di imputazione soggettiva delle azioni, e quindi con applicazione del principio generale secondo cui non impedire un evento che si ha la possibilità di impedire equivale a cagionarlo. Pertanto, conclude il Collegio, vanno considerati commessi dai soggetti appena ricordati, non soltanto gli atti di violenza da essi direttamente compiuti, ma anche quelli da essi ordinati, promossi o comunque non impediti, ove ne fosse possibile l'impedimento. I presupposti per il conseguimento della benemerenza. Segnala infine la Corte, nel solco della giurisprudenza contabile, che per il conseguimento dell'assegno, occorre sempre il riscontro di una concreta iniziativa, che si sia manifestata in una delle “circostanze di cui all'articolo 1 della legge 10 marzo 1955, numero 96, e successive modificazioni” e sia stata promossa in pregiudizio del richiedente. Con la precisazione che, a tale fine, non è indispensabile la percepibilità della reale attitudine lesiva dei comportamenti potendo, in astratto, configurarsi un diritto all'assegno da parte di soggetti minori o addirittura neonati tuttavia, occorre che vi sia un robusto, obiettivo ed immediato legame tra gli accadimenti che si assumono persecutori e il soggetto coinvolto altrimenti, subentrerebbe, puntualizza il Collegio, solo in ragione della condizione di età del richiedente all'epoca dei fatti, quell'automaticità di attribuzione del beneficio che in ogni sede giudiziaria è stata sempre recisamente esclusa. Nel caso in esame l'appello viene pertanto accolto essendosi realizzata, ad avviso della Corte dei Conti, a carico del richiedente l'assegno di benemerenza, nella famiglia di sua appartenenza, una specifica violenza induzione a spostare il luogo di residenza , sia pure d'ordine morale, da parte di «persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista», secondo il criterio di imputazione soggettiva sopra richiamato di non aver impedito l'azione lesiva. Il mutamento di rotta della Corte dei Conti. È rilevante la sentenza in commento perché i giudici della Corte dei Conti, pur negando la retroattività delle nuove disposizioni in ordine alla ripartizione dell'onere della prova di cui all'articolo 1, comma 373, l. numero 178/2020, hanno comunque accolto la domanda dell'istante riconoscendo che l'induzione a spostare il luogo di residenza integri una fattispecie di specifica violenza seppur morale. In senso difforme, la Corte dei Conti Sezione I Giurisdizionale Centrale di Appello, con sentenza numero 507/2015 aveva statuito che «non è sufficiente un generico stato di disagio e di timore di eventi infausti, indotto dalla politica generale antirazziale delle autorità dell'epoca. Peraltro, tale stato di timore e la conseguente esigenza dii nascondersi non poteva non essere comune alla totalità della popolazione ebraica in quei tempi». Ancora, con sentenza numero 609/2017 la Sezione II Giurisdizionale Centrale di Appello aveva ulteriormente argomentato che «l'essere stata costretta a vivere in clandestinità, in quanto i genitori, di religione ebraica, affidarono la bimba neonata alle cure di una famiglia amica, non integra di per sé gli estremi di un fatto persecutorio chiaro, individualizzato e specifico, idoneo a colpire la ricorrente in via diretta». Le persecuzioni per motivi di ordine razziale e l'importanza della Carta Costituzionale. «Proviamo a pensare a cosa sarebbe accaduto se la guerra fosse andata a finire in modo diverso. Non so neanche immaginare quante categorie, oltre agli ebrei, avrebbero fatto sparire ignominiosamente dalla faccia dalla faccia della terra perché il progetto di razza eletta, di razza pura, di razza più bella delle altre, avrebbe portato a un disastro ancora maggiore. Per fortuna non è accaduto e io mi sono innamorata fin da giovanissima della Carta, scritta dai padri costituenti che per mesi hanno studiato quel gioiello che è la Costituzione Italiana. E quell'articolo 3, che andrebbe fatto imparare a memoria nelle scuole ai giovani cittadini un inno alla libertà» in questi termini, LILIANA SEGRE, La giustizia che ricuce, in Corriere della Sera, La Lettura, 31 ottobre 2021, pag. 3 . Anche G. CANZIO Perché dobbiamo mantenere la parola “razza” nella Costituzione, in CANZIO, Dire il diritto nel XXI secolo, Milano, 2022, pag. 547 osserva che i Padri costituenti «intesero fissare al livello più alto delle fonti del diritto un punto di non ritorno, una sorta di spartiacque fra il “prima” la legislazione razziale, con la conseguente persecuzione dei diritti e delle vite degli ebrei, delle minoranze etniche, dei resistenti, dei “diversi”, lo sterminio e la Shoah e il “dopo” lo Stato di diritto, la democrazia, la democrazia, le libertà . Insomma, memori delle pagine buie della storia dell'umanità segnate nella coscienza collettiva da quegli eventi tragici, posero un baluardo, che fosse intangibile dalle precarie e transeunti determinazioni politiche dei futuri governanti di turno». In argomento, significative le parole del programma di apertura della rivista Il Ponte, diretta dal Padre costituente Piero Calamandrei e fondata nell'aprile 1945 anno I, numero, 1, pag. 2 «nella società, come nel mondo dello spirito, tutto è collegato. Il fascismo e il nazismo, con tutti i loro orrori, sono stati la espressione mostruosa di questo spengersi nelle coscienze della fede nell'uomo di questo diffondersi di una concezione inumana dell'uomo e della società. Non dimentichiamo che accanto a diecine di milioni di combattenti caduti nella mischia, sterminate moltitudini di pacifiche e inermi creature umane, vecchi, donne e bambini, sono state scientificamente distrutte nei “campi della morte” da milioni di altri uomini che in tutti i paesi dell'Europa continentale hanno freddamente partecipato a questa metodica distruzione razionalizzata, o ne sono stati complici coscienti e consenzienti. Nessuna vittoria militare per quanto schiacciante, nessuna epurazione per quanto inesorabile potrà essere sufficiente a liberare il mondo da questa pestilenza, se prima non si rifaranno nelle coscienze le premesse morali, la cui mancanza ha consentito a tante persone, che vivono ancora in mezzo a noi, di associarsi senza ribellione a questi orrori, di adattarsi senza protesta a questa belluina concezione del mondo. Ora la resistenza europea, che da generoso sacrificio di pochi gruppi isolati è diventata in un ventennio guerra civile di popolo contro il fascismo e contro il nazismo, è stata ed è sopra tutto lotta contro questa concezione del mondo e contrapposizione ad essa di una diversa concezione la sconfitta militare delle forze fasciste non è la conclusione, ma la premessa per la costruzione di una società libera, cioè liberata dalle innumerevoli e non sempre facilmente afferrabili forze contrarie a quella concezione dell'uomo che è la nostra».

Corte dei Conti, sez. I, sent., 15 settembre 2021, numero 349