Confermata la condanna per un uomo. A inchiodarlo è il contenuto di alcuni messaggi vocali e di testo inviati alla parte offesa. Rilevante il fatto che la richiesta di denaro e le minacce siano avvenute nello stesso contesto spazio-temporale.
Condannato per estorsione il venditore che vuole imporre all'acquirente le proprie condizioni, ossia la cifra da pagare, e che accompagna questa pretesa con chiare minacce. A finire sotto processo è un uomo. A suo carico le accuse sono di estorsione e di minacce. Ricostruita la vicenda, grazie al racconto fatto dalla persona offesa, corroborato dai messaggi scritti e vocali ricevuti, i giudici di merito ritengono inevitabile la condanna per il reato di estorsione. Col ricorso in Cassazione, però, l'uomo sotto processo prova a difendersi, mettendo in dubbio l'attendibilità della persona offesa e sostenendo non vi sia correlazione tra minacce – dubbie, peraltro, a suo dire – e richieste di denaro. I Giudici di terzo grado ribattono però condividendo la valutazione compiuta in appello, laddove si è ritenuta acclarata «l'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, attendibilità confermata da ulteriori dichiarazioni testimoniali nonché dal dato documentale costituito dal contenuto dei messaggi vocali e di testo presenti nel suo telefono». Logico, poi, parlare di «estorsione», poiché «le minacce formulate all'indirizzo della persona offesa e le richieste di corresponsione di somme di denaro hanno avuto luogo nel medesimo contesto spazio-temporale». Indiscutibile anche l'esistenza delle minacce. Fondamentale, a questo proposito, «la lettura del contenuto della comunicazione intercorsa l'uomo e la vittima». Nello specifico, «l'uomo ha ingiunto di contattare l'acquirente al fine di comunicargli il proprio volere e ha accompagnato tale pretesa con la minaccia di spaccare la testa ad entrambi, ove non avessero congiuntamente accondisceso» alla sua richiesta.
Presidente Gallo – Relatore Beltrani Svolgimento del processo R.A. ricorre contro la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Lecce - sez. Taranto ha confermato la sua condanna alla pena ritenuto di giustizia in ordine ai reati di estorsione ed altro, deducendo violazione dell'articolo 192 c.p.p. e vizi di motivazione quanto 1. all'affermazione di responsabilità per asserita inattendibilità delle dichiarazioni della p.o. T.V.G. 2. alla non configurabilità del reato di estorsione ln difetto di correlazione tra richieste di corresponsione di somme di denaro e minacce 3. all'insussistenza della minaccia valorizzata per integrare il reato di cui all'articolo 612 c.p., comunque provocata 4. all'insussistenza del reato di cui agli articolo 56/610 c.p. per asserita irrilevanza penale della espressione forte” adoperata dall'imputato 5. alla quantificazione della provvisionale. Motivi della decisione Il ricorso, presentato per motivi in parte non consentiti, in parte privi della specificità necessaria ex articolo 581 c.p.p., comma 1, e articolo 591 c.p.p., comma 1, lett. C , perché meramente reiterativi di doglianze già correttamente disattese dalla Corte di appello, con argomentazioni con le quali il ricorrente in concreto non si confronta, o comunque manifestamente infondati, è integralmente inammissibile. La Corte di appello f. 5 ss. della sentenza impugnata ha motivatamente ritenuto l'attendibilità delle dichiarazioni della p.o., confermata dalle ulteriori dichiarazioni testimoniali raccolte nonché dall'invincibile dato documentale costituito dal contenuto dei messaggi vocali e di testo presenti nel telefono della vittima ha configurato il reato di estorsione evidenziando che le minacce formulate dall'imputato all'indirizzo della p.o. e le richieste di corresponsione di somme di denaro avevano avuto luogo nel medesimo contesto spazio-temporale ha incensurabilmente evidenziato la sussistenza del reato di cui all'articolo 612 c.p., poiché il messaggio minatorio oggetto di contestazione era diretto ad entrambi i germani M. . D'altro canto, questa Corte Sez. 2, numero 21684 del 12/02/2019, Rv. 275819 - 02 ha già chiarito che, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'articolo 612 c.p., che costituisce reato di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima, il cui eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie. Come osservato dalla Corte di appello, la lettura del contenuto della comunicazione intercorsa tra l'imputato e la p.c., al di là delle giustificazioni addotte, è assolutamente dirimente nel senso accusatorio. L'uomo, infatti, aveva ingiunto alla donna di contattare l'acquirente al fine di comunicargli il proprio volere e aveva accompagnato tale pretesa dalla minaccia di “spaccare la testa ad entrambi”, ove non avessero congiuntamente accondisceso al proprio volere. Il motivo riguardante la quantificazione della provvisionale non è consentito questa Corte cfr., da ultimo, Sez. 2, numero 44859 del 17/10/2019, Rv. 277773 - 02 è, infatti, ferma nel ritenere che non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento. In considerazione della declaratoria d'inammissibilità totale del ricorso, il ricorrente, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., va condannato al pagamento delle spese processuali nonché, apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando le cause d'inammissibilità per colpa Corte Cost., 13 giugno 2000 numero 186 , di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende che, tenuto conto della significativa entità della predetta colpa, appare equo quantificare nella somma di Euro tremila. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.