Qualora la vittima di un danno alla salute, che sia conseguenza di un fatto illecito, sia deceduta prima della conclusione del relativo giudizio, per cause non ricollegabili alle menomazioni sofferte, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato defunto e non a quella statisticamente probabile.
Il giudice di merito è tenuto a liquidare il danno secondo il criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e d'invalidità, ad un danneggiato che sia rimasto in vita fino al termine del giudizio, per poi diminuirne l'importo in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti. Con l'ordinanza numero 41933, depositata il 29 dicembre 2021, la Corte Suprema di Cassazione, Terza Sezione Civile, ha affrontato il tema dell'iniquità dei criteri delle tabelle milanesi, per la liquidazione del danno da premorienza. Il fatto. L'origine della vicenda processuale si rinviene nella domanda di risarcimento, proposta da una donna, per i gravi danni riportati, in occasione di un sinistro stradale . La donna era poi deceduta prima della conclusione del giudizio di primo grado, che si era però concluso con il riconoscimento, ai suoi eredi , iure successionis , di un'importante somma a titolo di danno biologico e di danno non patrimoniale . La sentenza era stata impugnata, in via principale, dalla compagnia assicuratrice ed in via incidentale dagli eredi della vittima. I giudici di secondo grado, all'esito del giudizio, avevano rigettato l'appello incidentale ed accolto parzialmente quello principale, diminuendo sensibilmente l'importo del risarcimento, sul presupposto che, in assenza di un nesso di causalità certo fra le menomazioni sofferte dalla danneggiata e la sua morte, la liquidazione del danno doveva essere parametrato alla durata effettiva della sua vita e non a quella probabile. Essi, pertanto, adottando i criteri delle tabelle milanesi allora vigenti, avevano ritenuto che l'intensità del danno subito doveva considerarsi maggiore nei primi due anni e decrescente a partire dal terzo. Avverso tale pronuncia, gli eredi proponevano ricorso innanzi alla Corte di Cassazione. La quantificazione del danno iure ereditatis in assenza di collegamento certo fra il decesso e le menomazioni. La Terza Sezione della Corte ha voluto preliminarmente dare atto della corretta impostazione della sentenza di secondo grado, per quanto attiene alla liquidazione del danno iure ereditatis , nel caso in cui il danneggiato sia deceduto per cause non direttamente collegate alle menomazioni causategli dal fatto illecito. In tal caso, infatti, la quantificazione del risarcimento spettante agli eredi dev'essere parametrata all'effettiva durata della vita del defunto, dal momento che la durata della vita, dopo il verificarsi del fatto illecito e delle sue conseguenze lesive, è ora un dato noto e non più ancorato alla mera probabilità statistica. D'altro canto, non sarebbe ammissibile l'ipotesi di un risarcimento del danno, per il tempo successivo alla morte dello stesso danneggiato Cass. numero 12913/2020 , numero 10897/2016 . Tale principio opera nel solo caso di decesso avvenuto precocemente, rispetto all'aspettativa di vita ordinaria, dato che, in caso contrario, i normali criteri di liquidazione del danno tengono già debitamente conto delle ridottissime aspettative di vita del danneggiato, escludendo la necessità di ulteriori riduzioni Cass. numero 25157/2018 . L'iniquità del concetto di danno decrescente. I Giudici della Suprema Corte, inoltre, hanno anche ritenuto utile precisare che la scelta di affidare alle tabelle milanesi il ruolo di guida, per la liquidazione del danno non patrimoniale , era stata dettata dalla necessità di garantire l'equità della valutazione dei singoli casi concreti e l'uniformità di giudizio in tutto il territorio nazionale. Alla luce di tale premessa, essi si sono poi chiesti se, per la liquidazione del danno da premorienza , l'utilizzo delle dette tabelle garantisse il rispetto del criterio dell' equità . Sotto tale profilo, pertanto, hanno censurato la scelta di considerare il danno biologico non come una funzione costante, ma di ritenerlo maggiore in prossimità dell'evento e poi progressivamente decrescente, col passare del tempo, fino a stabilizzarsi. Tale assunto è fallace sia dal punto di vista medico legale, dal momento che i postumi della malattia si definiscono permanenti, proprio perché stabili nel tempo e sia sotto un profilo logico-giuridico, poiché applica al danno biologico l'indimostrato presupposto che esso si riduca col passare del tempo, mentre tale danno si configura piuttosto come una rinuncia forzata e irreversibile ad una serie di attività, da parte del danneggiato, dovuta alla perdita di alcune abilità, che egli non potrà più recuperare Cass. numero 7513/2018 . L' iniquità delle tabelle milanesi , pertanto, sta proprio nell'ingiustificata disparità nella liquidazione del danno , a seconda che la vittima sia o meno sopravvissuta almeno fino al termine del processo. Nel primo caso, infatti, l'importo liquidato per il risarcimento del danno, in funzione della percentuale d'invalidità e dell'età del danneggiato, sarà decisamente più alto di quello spettante al soggetto deceduto prima della fine del giudizio, anche nel caso in cui entrambi abbiano sopportato pregiudizi identici, per lo stesso arco temporale. Tale eventualità non può ritenersi né equa, né ammissibile. La via tracciata dalla Terza Sezione. I Giudici della Terza Sezione, pertanto, nel criticare i criteri adottati nelle tabelle milanesi, indicano un principio di diritto da seguire, per non incorrere in scelte inique. Essi affermano che, ove la vittima di un danno alla salute , conseguenza di un fatto illecito , sia deceduta prima della conclusione del relativo giudizio, per cause non ricollegabili alla menomazione sofferta, l'ammontare del risarcimento spettante agli eredi va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile. Il giudice di merito è tenuto a liquidare il danno secondo il criterio della proporzionalità , cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e d'invalidità, ad un danneggiato che sia rimasto in vita fino al termine del giudizio, per poi diminuirne l'importo in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti.
Presidente Sestini – Relatore Cirillo Fatti di causa 1. Z.L., in qualità di tutore della moglie M.G., convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Siracusa, Sezione distaccata di Avola, la F.S. s.p.a., quale impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, chiedendo che fosse condannata al risarcimento dei danni subiti dalla M. a causa dell'investimento, da parte di un motociclo rimasto ignoto, nel mentre la stessa stava attraversando la strada. A sostegno della domanda espose, tra l'altro, che la M. era stata investita, nella serata del omissis , da un motociclo il cui conducente si era dato alla fuga rimanendo non identificato, e che a seguito dell'incidente era stata trasportata in ospedale avendo riportato gravissimi danni. Si costituì in giudizio la società di assicurazione, contestando l'attribuzione esclusiva di responsabilità a carico del conducente del motociclo e invocando, comunque, il limite del massimale assicurativo. Nel corso del giudizio di primo grado la M. venne a mancare in data omissis e il giudizio fu proseguito dagli eredi L., R. e Z.C Espletata una c.t.u., il Tribunale accolse la domanda e condannò la società di assicurazioni al risarcimento dei danni liquidati nella somma di Euro 418.635,50 a titolo di danno biologico ed Euro 202.000 a titolo di danno non patrimoniale, con gli interessi dalla data del fatto fino al soddisfo e con il carico delle spese di lite. 2. La pronuncia è stata impugnata in via principale dalla Fondiaria s.p.a. e in via incidentale dagli eredi Z. e la Corte d'appello di Catania, con sentenza del 20 giugno 2018, ha parzialmente accolto l'appello principale, ha rigettato quello incidentale e, in riforma della decisione del Tribunale, ha condannato la società Fondiaria al risarcimento dei danni liquidati nella minore somma di Euro 153.753, compensando per metà le spese dei due gradi e ponendo l'altra metà a carico della società di assicurazioni. La Corte territoriale, dopo aver ribadito che la responsabilità dell'incidente era da porre per intero a carico del conducente del motociclo rimasto non identificato, dato che il comportamento della M. non poteva considerarsi in alcun modo colposo, ha proceduto alla riliquidazione del danno, sul rilievo che la morte della danneggiata non poteva essere posta in collegamento causale con l'incidente patito. La sentenza ha premesso che la morte della vittima si era determinata prima che si concludesse il giudizio di primo grado, ma dopo che il c.t.u. aveva svolto i suoi accertamenti peritali per cui il consulente non aveva affrontato il problema del nesso di causalità tra la morte e le lesioni subite. Era stato quindi necessario richiamare il c.t.u. il quale aveva redatto un supplemento di perizia, pervenendo alla conclusione che non era possibile affermare l'esistenza di un nesso eziologico tra il complesso delle lesioni subite dalla M. il omissis e la morte, sopraggiunta il omissis . La Corte d'appello, richiamate le conclusioni del c.t.u., integralmente condivise, ha affermato che la morte della M. era stata determinata, con ogni probabilità, da uno shock settico tuttavia, tenendo in considerazioni gli insegnamenti della scienza medico-legale in ordine alla verifica della sussistenza del nesso di causalità, la sentenza ha concluso nel senso che molti dei criteri indicati dalla medicina legale non erano, nella specie, soddisfatti, per cui l'evento morte non poteva essere posto in collegamento causale con il sinistro. Ciò premesso in ordine al nesso di causalità, la Corte etnea ha affermato che il Tribunale aveva errato, in sede di liquidazione del danno, nel non tenere in considerazione la circostanza della morte. Se, infatti, il decesso si è verificato per cause non collegabili alla menomazione risentita, il danno spettante agli eredi iure successionis va calcolato assumendo come parametro la durata effettiva della vita del danneggiato, e non quella probabile. Nel procedere alla nuova liquidazione del danno, la Corte d'appello ha dichiarato di voler seguire le tabelle milanesi dell'anno 2018, tenendo presente che il pregiudizio subito ha un'intensità maggiore nei primi due anni e decresce a partire dal terzo anno. Assumendo come punto di partenza che il c.t.u. aveva riconosciuto alla vittima un'invalidità permanente, a titolo di danno biologico, pari al 62 per cento, e che tra l'incidente e la morte erano trascorsi cinque anni, il giudice d'appello ha riconosciuto agli eredi le somme di Euro 50.708 per il primo e il secondo anno e di Euro 43.464 per i successivi tre anni, per un totale di Euro 94.172. Tale liquidazione è stata poi incrementata, a titolo di personalizzazione, nella misura massima consentita, pari al 50 per cento, in tal modo pervenendo alla liquidazione nella somma di Euro 141.258 a titolo di danno non patrimoniale da premorienza. Aggiunta, poi, l'ulteriore somma di Euro 12.495 a titolo di danno da inabilità temporanea, la Corte d'appello è giunta alla somma globale di Euro 153.753, da devalutare alla data del sinistro e poi rivalutare anno per anno, con i relativi interessi. La Corte d'appello, infine, ha rigettato l'appello incidentale degli eredi Z., rilevando che il suo accoglimento presupponeva l'accertamento della positiva esistenza del nesso di causalità tra le lesioni subite dalla M. e la morte. 3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Catania propongono ricorso L., R. e Z.C. con unico atto affidato a quattro motivi. La Unipolsai Assicurazioni s.p.a., già Fondiaria s.p.a., non ha svolto attività difensiva in questa sede. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all' articolo 360 c.p.c. , comma 1, numero 3 , violazione e falsa applicazione degli articolo 2043 e 2059 c.c. , per erroneità della valutazione sull'esistenza del nesso di causalità. Rilevano i ricorrenti che l'accertamento compiuto dalla Corte d'appello si è limitato a verificare se l'infezione mortale sia stata o meno causata dalle patologie dalle quali la vittima era affetta. Il vero obiettivo dell'accertamento, invece, doveva essere quello di valutare le cause della morte, alla luce delle pregresse condizioni della paziente la Corte d'appello, cioè, pur dando per dimostrato che l'infezione fosse stata causata da fattori estranei rispetto alle patologie conseguenti al sinistro, avrebbe dovuto valutare se, ove la vittima fosse stata in buone condizioni di salute, avrebbe avuto o meno maggiori possibilità di sopravvivenza. In altri termini, la decurtazione del danno operata in appello si giustificherebbe soltanto se fosse certo che il paziente non sarebbe comunque sopravvissuto alla patologia letale, anche se in buono stato di salute . L'infezione, trovando nelle condizioni debilitate della M. un terreno fertile, ha avuto maggiori possibilità di risultare letale, e tale elemento non sarebbe stato affatto considerato. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all' articolo 360 c.p.c. , comma 1, numero 3 e numero 5 , violazione e falsa applicazione dell' articolo 112 c.p.c. , oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dai rilievi critici mossi al c.t.u. dal c.t. di parte. I ricorrenti osservano che la sentenza, dopo aver riportato le conclusioni del c.t.u., non si sarebbe in alcun modo occupata delle puntuali critiche ad essa rivolte dal perito di parte. Il c.t.u., e di conseguenza la Corte d'appello, avrebbero dovuto stabilire se, in considerazione dell'età e delle condizioni della M., fosse scientificamente possibile che le conseguenze dell'incidente avessero almeno favorito l'aggravarsi dell'infezione e il conseguente shock settico. Riportando nel corpo del ricorso le osservazioni critiche del c.t. di parte e la risposta del c.t.u., i ricorrenti ribadiscono che la sentenza non avrebbe neppure preso in considerazione l'eventualità che la morte potesse essere conseguente anche alle gravi e debilitate condizioni di salute della vittima in conseguenza dell'incidente. 3. Il primo e il secondo motivo devono essere trattati insieme, data l'evidente connessione che li unisce. Essi sono, quando non inammissibili, comunque privi di fondamento. La Corte etnea ha illustrato nella sua motivazione, con una serie di argomentazioni complete ed esaurienti, che la morte della M. non poteva considerarsi causalmente collegata con l'incidente subito. Ed invero la sentenza, dimostrando sul punto l'attenzione scrupolosa del Collegio, ha ricordato che, essendosi il decesso della vittima verificato dopo che nel giudizio di primo grado erano stati svolti gli accertamenti del c.t.u., il consulente nominato non poteva aver esaminato anche il problema della sussistenza o meno del nesso causale tra il sinistro e la morte. Per ovviare a tale problema la Corte d'appello ha richiamato il medesimo consulente nominato dal Tribunale e gli ha posto lo specifico quesito. Quindi, facendo proprie le conclusioni alle quali era giunto il c.t.u. appositamente richiamato, la Corte di merito ha dichiarato di condividerle e di farle proprie, siccome esenti da vizi logici e frutto di esauriente e puntuale ricognizione della documentazione oggetto di valutazione ed ha perciò concluso nel senso dell'esclusione del nesso di causalità. A fronte di tale ricostruzione, che attinge chiaramente ad un profilo insindacabile in questa sede se adeguatamente motivato, i due motivi di ricorso, pur prospettando apparenti violazioni di legge, finiscono col risolversi nel tentativo di sollecitare in questa sede un diverso e non consentito esame del merito. E' evidente, infatti, che l'affermazione secondo cui la Corte d'appello avrebbe dovuto stabilire che il paziente non sarebbe comunque sopravvissuto alla patologia letale, anche se in buono stato di salute primo motivo equivale a mettere in dubbio proprio la bontà di quell'accertamento peritale che la Corte di merito ha ritenuto di dover condividere. Per cui le censure del primo e secondo motivo sono, in effetti, altrettante censure di vizio di motivazione poste in termini ormai non più previsti dall' articolo 360 c.p.c. , comma 1, numero 5 , e come tali devono essere rigettate. 4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all' articolo 360 c.p.c. , comma 1, numero 3 , violazione e falsa applicazione degli articolo 2043 e 2059 c.c. , osservando che, ove fossero accolti i due precedenti motivi, il giudice di rinvio dovrebbe essere chiamato a riesaminare le censure contenute nell'appello incidentale respinto. 4.1. Il motivo rimane, ovviamente, assorbito dal rigetto dei due precedenti, rispetto ai quali non ha alcuna valenza autonoma. 5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all' articolo 360 c.p.c. , comma 1, numero 3 , violazione e falsa applicazione dell' articolo 3 Cost. e degli articolo 2043 e 2059 c.c., contestando le modalità di liquidazione del danno. La censura osserva che, se anche fossero rigettati i primi due motivi, la sentenza impugnata dovrebbe essere ugualmente cassata, perché la liquidazione dei danni non risponde ai criteri tabellari che la stessa Corte d'appello ha dichiarato di voler applicare. La contestazione ha ad oggetto, prima di tutto, il fatto che la liquidazione determinerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento a favore di chi sopravvive sino alla fine del giudizio risarcitorio rispetto a chi viene a mancare nel corso del giudizio ciò in quanto la medesima sofferenza verrebbe valutata in modo diverso. Le tabelle milanesi prevedono, ad esempio, per una persona di 72 anni qual era la M. nel momento dell'incidente che riporti il 62 per cento di invalidità, un risarcimento pari ad Euro 434.647 facendo applicazione, invece, della tabella sulla premorienza, si ha un danno di Euro 50.708 per i primi due anni successivi al sinistro e di Euro 14.488 per ogni anno successivo calcolando una media di 15 anni, posto che l'aspettativa di vita media di una donna è di 87 anni, si avrebbe comunque un risarcimento pari ad Euro 239.052, cioè pari a più della metà di quello ottenuto col calcolo per le persone rimaste in vita. In sostanza, la liquidazione compiuta dalla Corte d'appello sarebbe iniqua e tale iniquità, ad avviso dei ricorrenti, non potrebbe essere corretta neppure con l'aumento per la personalizzazione, poiché esso è previsto sia per la tabella principale che per quella sulla premorienza. Per cui la sentenza avrebbe violato il principio fondamentale in base al quale a danno uguale deve corrispondere risarcimento uguale. 5.1. La complessa e articolata censura esige innanzitutto un inquadramento del problema. La prima affermazione da compiere, a questo proposito, è che la sentenza impugnata muove da una premessa in diritto che è pienamente in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte. La Corte etnea, infatti, ha correttamente richiamato le pronunce nelle quali è stato stabilito che in tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto e, d'altra parte, non è giuridicamente configurabile un danno risarcibile in favore della persona per il tempo successivo alla sua morte in questo senso v. le sentenze 3 ottobre 2003, numero 14767, 24 ottobre 2007, numero 22338, 31 gennaio 2011, numero 2297, 14 novembre 2011, numero 23739, 18 gennaio 2016, numero 679, 26 maggio 2016, numero 10897, e 26 giugno 2020, numero 12913 . Rispetto a questo pacifico orientamento - al quale la pronuncia odierna intende dare ulteriore continuità - non deve considerarsi dissonante l'ordinanza 11 ottobre 2018, numero 25157, la quale si è limitata ad affermare che il principio suindicato assume rilievo solo nel caso in cui il decesso sia avvenuto in età precoce rispetto all'ordinaria aspettativa di vita, atteso che, nel caso opposto, il punto-base di riferimento per la liquidazione del danno tiene già conto delle ridottissime aspettative di vita del danneggiato, sicché nessuna ulteriore riduzione deve essere applicata in considerazione dell'intervenuto decesso si trattava, in quel caso, della morte avvenuta, in corso di causa, di un soggetto di 96 anni di età, per il quale l'aspettativa di vita residua era, per ovvie ragioni, talmente ridotta da non poter acquisire alcun rilievo . Deve quindi affermarsi che la Corte d'appello è partita da una premessa giuridica del tutto corretta. 5.2. Allo stesso modo, questo Collegio rileva che la Corte di merito ha correttamente applicato le tabelle milanesi del 2018 alle quali ha dichiarato di volersi rifare. Quelle tabelle, infatti, nel dettare i criteri di liquidazione del c.d. danno da premorienza - cioè il danno alla salute sofferto da persona che venga a mancare, per cause non dipendenti dal fatto illecito, prima che il suo credito risarcitorio sia stato soddisfatto stabiliscono che per esso spetti una liquidazione maggiore se la morte si verifica entro il primo anno o i primi due anni dalla data del sinistro, per poi riconoscere una somma fissa per ogni ulteriore anno successivo , cioè per ogni anno a partire dal terzo fino al momento della morte. A fronte di una percentuale di invalidità del 62 per cento, cioè quella che la Corte di merito ha riconosciuto alla defunta M., le tabelle milanesi citate accordano la somma di Euro 50.708 per i primi due anni e quella di Euro 14.488 per ogni anno successivo. E poiché la morte si è verificata nel quinto anno successivo all'incidente, la Corte etnea ha liquidato la somma complessiva di Euro 94.172, risultante dall'addizione tra Euro 50.708 per i primi due anni ed Euro 14.488 per ciascuno dei tre anni successivi . Su questa somma, poi, la sentenza ha applicato la personalizzazione in misura massima 50 per cento . L'applicazione delle tabelle milanesi del 2018, dunque, è avvenuta correttamente, trattandosi delle tabelle vigenti al momento della decisione ordinanza 28 giugno 2018, numero 17018 . 5.3. Tutto ciò premesso, la questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi investe la coerenza della tabella milanese sopra ricordata, rispetto alla quale il quarto motivo di ricorso pone una serie di motivate censure, col principio di equità, unico profilo sotto il quale la valutazione del giudice di merito può essere sindacata in questa sede. Si tratta cioè di stabilire se la tabella in questione sia equa , perché è evidente che, se così non fosse, essa non potrebbe essere assunta come valido parametro, in quanto in contrasto con l' articolo 1226 c.c. . E' appena il caso di ricordare, in proposito, che la giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla nota e fondamentale sentenza 7 giugno 2011, numero 12408, ha riconosciuto alle tabelle del Tribunale milanese il valore di parametro guida a livello nazionale sulla base dell' articolo 1226 c.c. , osservando che, in mancanza di criteri legali, la liquidazione del danno deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi. Il punto di partenza di quella pronuncia fu la semplice constatazione per cui sul piano dei valori tabellari di punto si registrano divergenze assai accentuate, che di fatto danno luogo ad una giurisprudenza per zone, difficilmente compatibile con l'idea stessa dell'equità . Fenomeno, questo, che la sentenza numero 12408 rilevò essere inaccettabile in quanto, incidendo sui fondamentali diritti della persona, vulnera elementari principi di eguaglianza, mina la fiducia dei cittadini nell'amministrazione della giustizia, lede la certezza del diritto, affida in larga misura al caso l'entità dell'aspettativa risarcitoria, ostacola le conciliazioni e le composizioni transattive in sede stragiudiziale, alimenta per converso le liti, non di rado fomentando domande pretestuose anche in seguito a scelte mirate cosiddetto forum shopping o resistenze strumentali . Non è necessario qui ripercorrere il cammino della successiva giurisprudenza di questa Corte in ordine all'applicazione delle tabelle milanesi. Ciò che conta è che quel riferimento in tanto mantiene la sua validità - perdurando, allo stato, la mancata emanazione della tabella unica nazionale prevista dal D.Lgs. 7 settembre 2005, numero 209, articolo 138, comma 2, - in quanto esso garantisca, con un criterio di ragionevole approssimazione, l'uguaglianza di trattamento di situazioni uguali, con conseguente rispetto del principio di equità chiaramente in tal senso, tra le altre, l'ordinanza 22 gennaio 2019, numero 1553, e la sentenza 6 maggio 2020, numero 8532 . Ed è proprio in vista di un tendenziale obiettivo di parità di trattamento che due recenti pronunce di questa Corte - cioè la sentenza 21 aprile 2021, numero 10579, e l'ordinanza 29 settembre 2021, numero 26300 sono intervenute censurando le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano in relazione alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale. La sentenza numero 10579 del 2021, in particolare, ha posto in luce come la tabella milanese, non seguendo la tecnica del punto, finiva col liquidare quel danno con una somma ricompresa tra un minimo e un massimo con un intervallo molto ampio tra l'uno e l'altro e senza modulare la liquidazione sulla base di una serie di circostanze di fatto ritenute rilevanti, risultando perciò non idonea a garantire il rispetto di una ragionevole equità e prevedibilità la sentenza qui citata parla di un livello massimo di certezza, uniformità e prevedibilità che solo la tabella nazionale, per la sua natura di diritto legislativo, potrà al meglio garantire . 5.4. Si può passare, a questo punto, ad esaminare la tabella milanese sul c.d. danno da premorienza, per saggiarne la conformità al criterio fondamentale dell'equità. Questa tabella muove da due premesse, espressamente indicate nella relazione che l'accompagna. La prima è che un criterio liquidativo diversificato per fasce di età sia inidoneo ad esprimere la peculiarità della fattispecie , trattandosi di un criterio utilizzato per calcolare l'aspettativa di vita, concetto che diviene irrilevante nel momento in cui la persona viene a mancare. Ciò significa, in termini più semplici, che se una persona muore, come nel caso oggi in esame, cinque anni dopo il sinistro, non ha alcuna importanza che ella avesse trenta, quaranta o sessant'anni nel momento in cui il sinistro si verificò, perché i cinque anni di vita residua sono risarciti allo stesso modo, a tutte le età. Si potrebbe discutere dell'accettabilità e della correttezza di questa impostazione, ma non è il caso di attardarvisi, per le ragioni che si vanno ad illustrare. La seconda premessa dalla quale muove la tabella è quella che il danno non è una funzione costante nel tempo, ma esso è ragionevolmente maggiore in prossimità dell'evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi . Questa premessa non può essere condivisa, in quanto in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale. Sul piano logico, la contraddizione è evidente per la semplice ragione che non ha senso ipotizzare che un danno possa decrescere nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, permanente . Il danno biologico è definito dalla legge come permanente sul presupposto che esso scaturisca da una lesione i cui postumi, una volta stabilizzatisi, non siano più suscettibili di variazioni nel tempo v. in tal senso le sentenze 7 marzo 2003, numero 3414, e 19 dicembre 2014, numero 26897, nelle quali si è detto che il danno biologico da invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità, con relativa stabilizzazione dei postumi . Sul piano giuridico, l'idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta. Tale pregiudizio consiste infatti in una forzata rinuncia ad una o più attività quotidiane così, tra le altre, la nota ordinanza 27 marzo 2018, numero 7513 il danno biologico permanente e', dunque, una rinuncia permanente. Rispetto ad essa, il decorso del tempo può, in teoria, attutire la sofferenza causata da quella rinuncia, ma non consente comunque di recuperare le abilità perdute. Sul piano della medicina legale, infine, la suindicata affermazione è scorretta, proprio perché permanenti sono definiti in medicina legale quei postumi che residuano alla cessazione dello stato di malattia e sono perciò caratterizzati da una condizione di stabilità nel tempo. La seconda premessa dalla quale prende avvio la tabella milanese qui in esame, dunque, finisce con l'applicare al danno biologico, che è lesione permanente e irreversibile del diritto alla salute, un presupposto non dimostrato, e cioè che quel danno si riduca col passare del tempo. Un simile criterio è accettabile in relazione al danno morale inteso come sofferenza giuridicamente rilevante, perché appartiene alla natura dell'essere umano la capacità di adattarsi entro certo limiti anche alle più gravi perdite per cui si può dire che il dolore diminuisce a mano a mano che l'evento dannoso si allontana nel tempo. Il danno biologico, invece, è per sua natura destinato a permanere e si calcola, col sistema del punto, proprio come invalidità permanente. Le criticità sopra evidenziate conducono a risultati iniqui sul piano della liquidazione, come può vedersi facendo un confronto tra il sistema di liquidazione del danno biologico da invalidità permanente che le tabelle milanesi seguono per il caso di sopravvivenza della vittima fino alla conclusione del giudizio, con quelle del danno da premorienza. Le prime, com'e' ovvio, sono regolate secondo un criterio statistico, nel senso che la liquidazione avviene in base al punto di invalidità e all'età della vittima, che rileva perché indica, secondo le aspettative di durata media della vita, per quanti anni la vittima dovrà convivere con la sua menomazione. Una volta che il giudizio termina col passaggio in giudicato della sentenza, la liquidazione diventa definitiva, senza che assuma più alcun rilievo il momento in cui la vittima effettivamente viene a mancare proprio perché il calcolo si fonda su di un'aspettativa di vita . La tabella sul danno da premorienza, come si è visto, prende le mosse dal fatto che la vittima è morta prima che il giudizio finisse, per cui il calcolo del danno biologico va compiuto sulla base di un dato ormai certo e non più ipotetico. Tuttavia - e questo è il punto centrale che il Collegio intende mettere in evidenza - una tabella sul danno da premorienza, per poter essere equa nel senso che si è detto, deve partire dal presupposto che a parità di durata della vita residua deve corrispondere, ovviamente in caso di uguale invalidità permanente, un risarcimento uguale. Detto in termini più semplici, il danno già sopportato per un tempo certo nel caso in esame, cinque anni non può essere liquidato meno di un danno che verosimilmente si sopporterà, in futuro, per un identico arco di tempo. Il tempo, infatti, esprime la durata della sofferenza che si è patita o che si dovrà patire, ma a parità di durata deve corrispondere, tendenzialmente, parità di risarcimento. I cinque anni nei quali la sfortunata signora M. è sopravvissuta col suo carico di invalidità non possono essere liquidati con una somma minore rispetto ai medesimi cinque anni vissuti da un'altra persona che, viceversa, sia sopravvissuta fino al termine del giudizio e sia morta, magari, molti anni dopo. Illuminanti e corretti sono, sotto questo profilo, i conteggi contenuti nel quarto motivo dell'odierno ricorso che pongono in evidenza le incongruenze della tabella milanese. Come si è già detto, i ricorrenti hanno rilevato che detta tabella per i soggetti che sopravvivono prevede, per una persona di 72 anni quale la M. nel momento dell'incidente che riporti il 62 per cento di invalidità, un risarcimento pari ad Euro 434.647. Ora, anche calcolando un'aspettativa di vita fino a 87 anni cosa che pare eccessiva, visto che per l'ISTAT essa si colloca, per le donne, intorno a 83-85 anni - ciò significa che per un soggetto che si trovi nella situazione della M. le tabelle riconoscono, in caso di sopravvivenza, un risarcimento pari ad Euro 28.976 per ogni anno Euro 434.647 diviso 15, cioè gli anni di aspettativa di vita ed è appena il caso di rilevare che, in caso di aspettativa di vita inferiore, il valore di ogni anno sarebbe maggiore, essendo il divisore costituito da un numero minore . Moltiplicando la somma di Euro 28.976 per cinque, si ha la somma di Euro 144.880, ben maggiore rispetto a quella liquidata dalla Corte d'appello solo riconoscendo questa somma si potrebbe affermare che i cinque anni di vita residua della M. sono stati risarciti nella stessa misura in cui sarebbero stati risarciti se ella fosse rimasta in vita. La tabella milanese del danno da premorienza si dimostra, quindi, non conforme al parametro dell'equità. D'altra parte - volendo fare una sorta di controprova - si può assumere la diversa situazione di un danneggiato molto più giovane della signora M. ad esempio, di 35 anni , che avesse riportato un'uguale percentuale di invalidità permanente 62 per cento . I suoi eredi, in considerazione dell'aspettativa di vita molto più lunga all'incirca 48 o 50 anni , verrebbero a percepire, in caso di premorienza della vittima, un risarcimento del danno ben più alto di quello riconosciuto al danneggiato rimasto in vita per il medesimo numero di anni come si può verificare con un calcolo matematico non complesso . Il che sarebbe indice di un'analoga sperequazione, anche se di senso contrario rispetto al caso odierno. Ne' giova considerare l'ammissibilità di una personalizzazione - com'e' avvenuto nel caso di specie - perché si tratta di una possibilità riconosciuta anche nella tabella per la sopravvivenza. 5.5. Ritiene la Corte, pertanto, che la tabella milanese sul danno da premorienza si dimostri non equa e, come tale, non possa costituire un utile strumento per la liquidazione del relativo danno. Si pone, a questo punto, nel permanere dell'inerzia del legislatore circa le tabelle di cui all'articolo 138 cit., la necessità di indicare un criterio alternativo. Va detto, a questo proposito, che le indicazioni che il Collegio sta per formulare costituiscono, ovviamente, un orientamento in attesa di un futuro intervento del legislatore, allo scopo di evitare che le liquidazioni ricadano in un arbitrio generale che costituirebbe l'antitesi dell'equità. Non bisogna dimenticare, infatti, che la liquidazione di cui si discute rimane come si è detto - una liquidazione equitativa, rispetto alla quale i giudici di merito sono liberi di esercitare la valutazione discrezionale che deriva dalla specificità dei singoli casi. Osserva la Corte che, ragionando in astratto, le tecniche di liquidazione possono essere diverse appare preferibile, però, un sistema di calcolo che sia rispettoso del criterio della proporzionalità. Ciò significa che il danno da premorienza deve essere calcolato considerando come punto di partenza dividendo la somma che sarebbe spettata al danneggiato, in considerazione dell'età e della percentuale di invalidità, se fosse rimasto in vita fino al termine del giudizio rispetto a tale cifra, assumendo come divisore gli anni di vita residua secondo le aspettative che derivano dalle tabelle dell'ISTAT, dovrà essere calcolata la cifra dovuta per ogni anno di sopravvivenza, da moltiplicare poi per gli anni di vita effettiva, in modo da pervenire ad un risultato che sia, nei limiti dell'umanamente possibile, maggiormente conforme al criterio dell'equità. Può essere utile tener presente, a supporto della odierna decisione, che questa Corte ha già enunciato, nella sentenza 30 giugno 2015, numero 13331, non massimata su questo punto dal competente Ufficio, la necessità di fare riferimento al criterio della proporzionalità il risarcimento che si sarebbe liquidato a persona vivente sta al numero di anni che questi aveva ancora da vivere secondo le statistiche di mortalità, come il risarcimento da liquidare a persona già defunta sta al numero di anni da questa effettivamente vissuti tra l'infortunio e la morte . Ciò non toglie, peraltro, che siano ammissibili anche altri criteri e, in particolare, quelli che, ad esempio, applichino il criterio proporzionale soltanto in parte residua, riconoscendo che una quota del risarcimento si matura immediatamente e l'altra in ragione proporzionale al numero di anni effettivamente vissuti. 6. In conclusione, sono rigettati i motivi primo e secondo del ricorso, con assorbimento del terzo, mentre è accolto il quarto. La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla medesima Corte d'appello di Catania, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi al seguente principio di diritto Qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella statisticamente probabile. Il giudice di merito è tenuto a liquidare tale danno seguendo il criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio, e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti . Al giudice di rinvio è demandata anche la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte rigetta i motivi primo e secondo del ricorso, con assorbimento del terzo, accoglie il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d'appello di Catania, in diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di cassazione.