Confermata la responsabilità penale delle tre persone sotto processo. Definitiva la condanna a cinque anni di reclusione e 1.000 euro di multa a testa. Decisivo lo stato di prostrazione in cui è caduta la vittima a causa delle loro richieste di denaro.
Suora presa di mira con alcuni fotomontaggi che la ritraggono in pose pornografiche. Per lei, spaventata all'idea della diffusione di quelle immagini, seppur palesemente false, l'unica soluzione è pagare per tenere buone le tre persone che sono in possesso di quelle foto. Logico, di conseguenza, parlare di estorsione in piena regola Cass. penumero , sez. II, 22 giugno 2021, numero 39256 . Ricostruita la delicata vicenda, le tre persone sotto processo vengono ritenute colpevoli di « estorsione » ai danni di una suora e condannate, in appello, a «cinque anni di reclusione e 1.000 euro di multa» a testa. Chiarissimo per i Giudici di merito il quadro probatorio. In sostanza, si è appurato che le tre persone ora sotto processo «si sono procurate un ingiusto profitto », pari a quasi 10.000 euro, «costringendo, mediante minaccia, una suora a consegnare, a più riprese, somme di denaro» per «evitare la diffusione di foto porno di una sua nipote» nonché «di fotomontaggi» che ritraevano direttamente lei «in pose pornografiche». Col ricorso in Cassazione le tre persone sotto processo provano a ridimensionare l'addebito a loro carico, sostenendo sia illogico parlare di estorsione e abbia invece più senso catalogare la vicenda come una – meno grave – truffa . Il loro legale osserva che «se la minaccia di un danno nasconde una truffa e ciò avviene senz'altro tutte le volte che il male è immaginario ed inventato , la fattispecie di riferimento, benché nella versione aggravata dall'ingenerato pericolo immaginario, sarà proprio la truffa, non già l'estorsione». E sempre in questa ottica il legale aggiunge che «certamente la paura della persona offesa è essenziale nell'estorsione, ma sicuramente un male concretamente realizzabile è cosa diversa da un male immaginario, e se tale paura non è connessa ad una minaccia, la cui realizzabilità in effetti dipenda dalla persona che agisce, allora si può dire, senza alcun dubbio, che si sia all'interno della sfera tipica del delitto di truffa». Inoltre, secondo il legale, «anche volendo prescindere dal considerare l'oggettiva inverosimiglianza della minaccia», che «essa non fosse dotata di alcuna effettiva potenzialità coercitiva e che soprattutto non abbia in concreto coartato la volontà della vittima, si ricava chiaramente dalle stesse dichiarazioni testimoniali della persona offesa». Il riferimento è in particolare a quanto riferito dalla suora in merito ai rapporti con i propri familiari ed in particolare con la sorella, ossia, «colei che avrebbe ordito il ricatto, manipolando le fotografie e pretendendo la consegna del denaro per evitarne la divulgazione». E, osserva il legale, è proprio la suora ad avere dichiarato di «non aver mai pensato che sua sorella potesse o anche solo volesse arrecarle del male», e ciò «esclude ineluttabilmente che la minaccia diffusione di fotomontaggi compromettenti abbia avuto un'effettiva efficacia coercitiva della volontà della persona offesa», sostiene il legale, poiché «se la suora riteneva la sorella incapace di arrecarle danno, evidentemente nemmeno la poteva credere capace di attuare il male minacciato». A depotenziare totalmente le obiezioni difensive è la constatazione, osservano i Giudici della Cassazione, dello «stato di profonda prostrazione » della suora, confermato da diversi testimoni, tutti convergenti nel descriverla «come una donna spaventata, soggiogata, non più lucida e psicologicamente distrutta», e spiegabile solo con la minaccia della diffusione dei fotomontaggi che la ritraevano in pose pornografiche. Per fare ulteriore chiarezza, poi, i Giudici ribadiscono che «integra il reato di estorsione, e non quello di truffa aggravata, la minaccia di un male , indifferentemente reale o immaginario, dal momento che identico è l'effetto coercitivo esercitato sul soggetto passivo, tanto che la sua concretizzazione dipenda effettivamente dalla volontà della persona che agisce, quanto che questa rappresentazione sia percepita come seria ed effettiva dalla persona offesa, ancorché in contrasto con la realtà, a lei ignota». In sostanza, «il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è infatti rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva , e non meramente manipolativa, della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con verifica ex ante , che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato». E in questa vicenda, aggiungono i Giudici, è evidente «l'attività coercitiva esercitata sulla vittima, intimidita e piegata alla richiesta estorsiva accompagnata da chiari ed univoci atti intimidatori», e quindi è impossibile «qualificare la condotta come truffa, in assenza di effetti semplicemente manipolatori». Difatti, come detto, «la volontà della suora è risultata fortemente coartata dal male prospettatole dagli autori della condotta in ragione del profondo stato di prostrazione psicologica e fisica nella quale ella si trovava», rappresentandosi ella «il pericolo della diffusione dei fotomontaggi pornografici come certo e realizzabile e ritenendo di non avere altra scelta se non quella di soddisfare le continue richieste di denaro».
Presidente Cervadoro – Relatore Pellegrino Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 11/09/2019, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado resa dal Tribunale di Como in data 06/12/2016, dichiarava non doversi procedere nei confronti di A.O., C.A.G. e C.F. in relazione ai reati di cui ai capi A , B e D e rideterminando la pena nei loro confronti in relazione al residuo capo C d'imputazione articolo 81 cpv., 110 e 629 c.p. nella misura di anni cinque di reclusione ed Euro 1000 di multa ciascuno. Con riferimento al capo C , ai ricorrenti viene imputato di essersi - in tempi diversi e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso - procurati un ingiusto profitto non inferiore a Euro 9600,00 in danno di A.C. , costringendo quest'ultima mediante minaccia a consegnare loro a più riprese somme di denaro di quell'ammontare complessivo, onde evitare la diffusione di fotografie in pose pornografiche di una sua nipote A.S. nonché di fotomontaggi che ritraevano in pose siffatte la stessa A.C. . 2. Avverso detta sentenza, nell'interesse di A.O., C.A.G. e C.F., viene proposto ricorso per cassazione. Lamentano i ricorrenti - mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'affermazione di penale responsabilità in ordine al reato di estorsione primo motivo in particolare, si insisteva nel rilevare come, nel racconto della persona offesa e dei testi, il fatto non risultasse per nulla circostanziato e non trovasse collocazione temporale, nè vi fosse prova del versamento di alcuna somma in conseguenza della presunta minaccia e quindi della percezione dell'illecito profitto da parte degli imputati inoltre, era risultata evidente la contraddittorietà tra la testimonianza della persona offesa e quella resa dagli altri testi in ordine al male minacciato e alla provenienza del medesimo - inosservanza ed erronea applicazione di legge in relazione alla qualificazione della condotta di estorsione anziché in quella di truffa aggravata, ex articolo 640 c.p. , comma 2, numero 2, con sussistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale necessitante, in subordine, il ricorso alle sezioni unite secondo motivo in particolare, l'orientamento cd. oggettivo della giurisprudenza appare maggiormente aderente ad una valutazione materiale del reato e risulta quindi maggiormente conforme a principi di tipicità e di certezza del diritto di tal che, se la minaccia di un danno nasconde una truffa e ciò avviene senz'altro tutte le volte che il male è immaginario ed inventato dall'agente , la fattispecie di riferimento, benché nella versione aggravata dall'ingenerato pericolo immaginario, sarà quest'ultima, non già l'estorsione. Certamente la paura dell'offeso è essenziale nell'estorsione, ma sicuramente un male concretamente realizzabile dall'agente è cosa diversa da un male immaginario e se tale paura non è connessa ad una minaccia la cui realizzabilità in effetti dipenda dall'agente, allora si può dire, senza alcun dubbio, che si sia all'interno della sfera tipica del delitto di truffa - mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, laddove ha ritenuto di attribuire alla condotta posta in essere dagli imputati nei confronti della persona offesa, concreta efficacia coercitiva ai fini dell'integrazione del reato di estorsione, nonostante le contrarie risultanze dell'istruttoria dibattimentale terzo motivo si evidenzia come, nella fattispecie, anche volendo prescindere dal considerare l'oggettiva inverosimiglianza della minaccia, che la stessa non fosse dotata di alcuna effettiva potenzialità coercitiva e che soprattutto non abbia in concreto coartato la volontà della vittima, si ricava chiaramente dalle stesse inequivoche dichiarazioni testimoniali della persona offesa. In tal senso, è emblematico e risolutivo quanto da suor Ca. riferito relativamente ai rapporti con i propri familiari ed in particolare con la propria sorella R., ovvero colei che, secondo la prospettazione data, avrebbe ordito il ricatto manipolando le fotografie e pretendendo la consegna del denaro per evitarne la divulgazione. Ed è la stessa suor Ca. che ha dichiarato di non aver mai pensato che sua sorella R. potesse o anche solo volesse arrecarle del male, il che esclude ineluttabilmente che la minaccia diffusione da parte della stessa di fotomontaggi compromettenti abbia avuto un'effettiva efficacia coercitiva della volontà della persona offesa se, infatti, suor Ca. riteneva la sorella R. incapace di arrecarle danno, evidentemente nemmeno la poteva credere capace di attuare il male minacciato. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono entrambi inammissibili. 2. Aspecifico e comunque manifestamente infondato è il primo motivo. 2.1. Invero, pur volendo superare il profilo della concomitante proposizione di una non consentita, e come tale inammissibile censura cumulativa e/o alternativa in relazione a tutti e tre i profili del vizio di motivazione Sez. U, numero 29541 del 16/07/2020, Filardo ed altri, secondo cui il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell' articolo 606 c.p.p. , comma 1, lett. e , ha l'onere - sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione , nella fattispecie, si è comunque in presenza di doglianze prive di specificità in tutte le loro articolazioni in quanto meramente reiterative di censure già proposte e sulle quali la Corte territoriale ha fornito ampia ed adeguata risposta, doglianze che, in ogni caso, appaiono - come detto - manifestamente infondate. Ricorre, inoltre, un'ipotesi di c.d. doppia conforme con riferimento all'affermazione della penale responsabilità in ordine al capo C , con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell'adozione - da parte di entrambe le sentenze - dei medesimi criteri nella valutazione delle prove cfr., Sez. 3, numero 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 Sez. 2, numero 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 . 2.2. I ricorrenti contestano la sentenza di secondo grado che - a loro dire avrebbe fatto esclusivo riferimento alle dichiarazioni della teste P. , oggetto di testimonianza indiretta e, in quanto tale, inidonea a costituire elemento di prova tuttavia, gli stessi omettono di confrontarsi con il rilievo per cui la sentenza di condanna è fondata - come rilevato dalla Procura generale - oltre che sulla testimonianza resa dalla sunnominata teste P. anche sulle dichiarazioni della persona offesa, che risultano intrinsecamente attendibili in quanto precise e circostanziate. Invero, dette dichiarazioni risultano riscontrate da ulteriori elementi oggettivi quali sms, aventi oggetto le continue richieste di denaro a suor Ca., e i riscontri documentali dei pagamenti effettuati. Lo stato di profonda prostrazione della persona offesa, non altrimenti spiegabile, è stato poi confermato da numerosi testi, tutti convergenti nel descrivere Suor Ca. come una donna spaventata, soggiogata, non più lucida e psicologicamente distrutta. 2.3. Come è noto, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede, non necessita di altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità Sez. U, numero 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214 ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l'attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l'ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere, in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza . In tal senso, non può che ribadirsi il principio giurisprudenziale secondo cui, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti elementi di riscontro richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nell' articolo 192 c.p.p. , comma 3, il giudice deve limitarsi a verificare l'intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri, o da lui ragionevolmente ritenuti tali cfr., Sez. 6, numero 27185 del 27/03/2014, P.G. in proc. P., Rv. 260064 . 2.3.1. Sotto altro, ma connesso profilo, l'espressione fino a prova contraria non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l'una o l'altra di dette ipotesi Sez. 1, numero 7568 del 02/06/1993, dep. 03/08/1993, Rv. 194774 . In assenza, quindi, di elementi di sospetto , il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza. 2.3.2. Peraltro, le dichiarazioni di un testimone anche se si tratti della persona offesa , per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con il logico corollario che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone Sez. 3, numero 11829 del 26/08/1999, dep. 15/10/1999, Rv. 215247 . Il fatto poi che la testimonianza della persona offesa, quando portatrice di un personale interesse all'accertamento del fatto, debba essere certamente soggetta a un più penetrante e rigoroso controllo circa la sua credibilità soggettiva e l'attendibilità intrinseca del racconto Sez. U, numero 41461/2012, cit. non legittima un aprioristico giudizio di inaffidabilità della testimonianza stessa espressamente vietata come regola di giudizio nella fattispecie, tale rigoroso controllo, alla luce dei rilievi sopra esposti, risulta essere stato effettivamente compiuto dai giudici di merito. 2.3.3. In ogni caso, va tenuto presente che il giudizio circa l'attendibilità del teste è di tipo fattuale, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa conseguentemente, lo stesso può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito - come nella fattispecie - abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria cfr., Sez. 3, numero 41282 del 05/10/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578 . 3. Aspecifico e comunque manifestamente infondato è anche il secondo motivo. 3.1. I giudici di merito si sono attenuti al principio statuito dalla giurisprudenza di legittimità, di recente consolidatasi da qui l'assenza dei presupposti per ritenere l'attualità di un contrasto giurisprudenziale da rimettere al giudizio delle Sezioni unite , secondo il quale integra il reato di estorsione, e non quello di truffa aggravata, la minaccia di un male, indifferentemente reale o immaginario, dal momento che identico è l'effetto coercitivo esercitato sul soggetto passivo, tanto che la sua concretizzazione dipenda effettivamente dalla volontà dell'agente, quanto che questa rappresentazione sia percepita come seria ed effettiva dalla persona offesa, ancorché in contrasto con la realtà, a lei ignota. Il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è infatti rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva, e non meramente manipolativa, della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con verifica ex ante, che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato cfr., Sez. 2, numero 21974 del 18/04/2017, Cianci, Rv. 270072 Sez. 2, numero 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267124 Sez. 2, numero 46084 del 21/10/2015, Levak, Rv. 265362 Sez. 2, numero 7662 del 27/01/2015, Lanza, Rv. 262574 Sez. 6, numero 27996 del 28/05/2014, Stasi, Rv. 261479 Sez. 2, numero 35346 del 30/06/2010, De Silva, Rv. 248402 Sez. 2, numero 23326 del 02/07/2020, El Montaser, non mass. Sez. 2 numero 23896 del 14/7/2020, Faldini, non mass. . 3.1.1. Fermo quanto precede, con ampie argomentazioni, la Corte territoriale, conformemente alla sentenza di primo grado, ha ricostruito il fatto evidenziando l'attività coercitiva esercitata sulla vittima, intimidita e piegata alla richiesta estorsiva accompagnata da chiari ed univoci atti intimidatori, con conseguente impossibilità di qualificare la condotta come truffa, in assenza di effetti semplicemente manipolatori. Scrivono i giudici di appello nel caso in esame, la volontà di suor Ca. risulta fortemente coartata dal male prospettatole dagli autori della condotta in ragione del profondo stato di prostrazione psicologica e fisica nella quale la donna si trovava, condizione comprovata dalle dichiarazioni rese dai vari testi nel corso del processo. Come risulta dagli atti del processo, ella si rappresentava il pericolo della diffusione dei fotomontaggi pornografici come certo e realizzabile, ritenendo di non avere altra scelta se non quella di soddisfare le continue richieste di denaro provenienti dagli imputati . 3.1.2. La difesa ha sostanzialmente omesso di confrontarsi con dette conclusioni, finendo per sollecitare un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate ed invocando una rilettura delle prove poste a fondamento della decisione impugnata. Come è noto, è preclusa alla Suprema Corte la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova così, Sez. 3, numero 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217 in senso conforme, Sez. 5, numero 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100, in motivazione Sez. 4, numero 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702 Sez. 2, numero 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217 Sez. 6, numero 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482 Sez. 2, numero 23338 del 07/07/2020, Saccenti, non mass. . 4. Manifestamente infondato è, infine, il terzo motivo. Premesse le considerazioni esposte nel precedente paragrafo 2.1. del considerato in diritto in relazione alla proposta censura cumulativa del vizio motivazionale, evidenzia il Collegio come si sia in presenza di un motivo di doglianza che tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito. Le conclusioni circa la responsabilità dei ricorrenti risultano adeguatamente giustificate dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni. Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile. Esula, infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali cfr., Sez. U, numero 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 Sez. U, numero 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 Sez. numero 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260 Sez. U, numero 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074 . 5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell' articolo 616 c.p.p. , la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dai ricorsi, si determina equitativamente in Euro duemila per ciascuno. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.