La violazione dell’obbligo di astensione da parte del PM non integra il requisito del danno ingiusto

La violazione dell’obbligo di astensione da parte del Pubblico Ministero non integra di per sé il requisito del danno ingiusto, in quanto il difetto di imparzialità assume rilevanza solo a condizione che si traduca in accuse pretestuose e palesemente insussistenti, nonché in iniziative del tutto prive di fondamento, strumentali rispetto al perseguimento di finalità persecutorie o, comunque, improntate ad un iniquo esercizio dei poteri processuali.

La Corte d'Appello di Genova riformava la pronuncia di primo grado con cui l'imputato V.F. veniva assolto dal reato di abuso d'ufficio commesso in concorso con M.M., avendo violato «l'obbligo di astensione nell'esercizio delle funzioni di PM della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, essendosi occupato in tale veste del procedimento per maltrattamenti in famiglia e lesioni personali in staurato a carico di A.R. e che vedeva, quale persona offesa, M.M., nonostante avesse instaurato con quest'ultima una relazione sentimentale». A.R., costituitosi parte civile, ricorre in Cassazione sostenendo che «la sentenza di assoluzione avrebbe erroneamente affermato che, a fronte della violazione del dovere di astensione da parte del PM, la sussistenza del danno ingiusto non potrebbe essere ravvisata nel mero esercizio dell'azione penale, se non quando questa si configuri come “abnorme” o comunque “disancorata dalla realtà”». La doglianza è infondata. L'articolo 51 c.p.p. prevede quale clausola generale «l'astensione del PM nei casi di “gravi ragioni di convenienza”, tra i quali può rientrare anche la sussistenza di una relazione sentimentale con una delle parti processuali». E la giurisprudenza di legittimità, con la sentenza numero 12075/2020, ha previsto che «il danno ingiusto è requisito ulteriore e diverso rispetto alla violazione del dovere di imparzialità, che presuppone la produzione di un effetto pregiudizievole, concreto ed individuabile, conseguente alla mancata astensione». Nel caso di specie la Corte d'Appello ha affermato, infatti, che «l'esercizio dell'azione penale non rappresenta di per sé un danno ingiusto, essendo richiesto un quid pluris, tale da farne desumere il carattere della pretestuosità o abnormità», limitandosi a spiegare quali siano le condizioni a fronte delle quali l'iniziativa processuale può tradursi in un danno ingiusto, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente. Tesi smentita anche dalla giurisprudenza con la sentenza numero 12655/2016 secondo cui «la violazione dell'obbligo di astensione da parte del PM non determina una nullità degli atti, né la inutilizzabilità degli elementi acquisiti, potendo incidere tale situazione solo sull'attendibilità delle prove». Ed è per questo che il Collegio conclude ritenendo che «la violazione dell'obbligo di astensione da parte del Pubblico Ministero non integri di per sé il requisito del danno ingiusto, in quanto il difetto di imparzialità assume rilevanza solo a condizione che si traduca in accuse pretestuose e palesemente insussistenti, nonché in iniziative del tutto prive di fondamento, strumentali rispetto al perseguimento di finalità persecutorie o, comunque, improntate ad un iniquo esercizio dei poteri processuali». Rigetta quindi il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Presidente Fidelbo – Relatore Di Geronimo Ritenuto in fatto 1. Con ricorso a firma del difensore di fiducia, R.A. , costituitosi parte civile nel procedimento a carico di F.V. , impugnava la sentenza della Corte di appello di Genova che, riformando quella di primo grado, aveva assolto l'imputato dal reato di abuso d'ufficio, asseritamente commesso in concorso con M.M. già assolta in primo grado . Al F. si contestava la violazione dell'obbligo di astensione nell'esercizio delle funzioni di pubblico ministero della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, essendosi occupato in tale veste del procedimento per maltrattamenti in famiglia e lesioni personali instaurato a carico del R. e che vedeva, quale persona offesa, M.M. , nonostante avesse instaurato con quest'ultima una relazione sentimentale. La Corte di appello assolveva il F. ritenendo sussistente la violazione dell'obbligo di astensione, ma escludendo il requisito del danno ingiusto, elemento costitutivo del reato di cui all'articolo 323 c.p., sul presupposto che l'esercizio dell'azione penale non potesse di per sé integrare un danno, a meno che tale iniziativa non risulti del tutto abnorme o meramente strumentale rispetto al fine illecito perseguito dal pubblico ufficiale. 2. La parte civile ricorrente ha formulato un unico, complesso, motivo di ricorso, lamentando l'erronea applicazione dell'articolo 323 c.p. e l'inosservanza degli articolo 97 Cost., del D.P.R. 16 aprile 2013, numero 62, articolo 7 Codice di comportamento dei pubblici dipendenti e della L. numero 241 del 1990, articolo 6 - bis, nonché vizio di motivazione, ritenendo che la sentenza di assoluzione avrebbe erroneamente affermato che, a fronte della violazione del dovere di astensione da parte del pubblico ministero, la sussistenza del danno ingiusto non potrebbe essere ravvisata nel mero esercizio dell'azione penale, se non quando questa si configuri come abnorme o, comunque, disancorata dalla realtà . Si sostiene che, nella peculiare fattispecie in esame, il danno ingiusto sarebbe integrato dal fatto stesso che il processo a carico del R. si sia svolto con la partecipazione di un rappresentante della pubblica accusa non imparziale, posto che tale carenza determinerebbe di per sé un pregiudizio rispetto al corretto svolgimento del procedimento penale. Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto dalla parte civile è infondato. 2. La vicenda oggetto di giudizio è stata compiutamente ricostruita nella sentenza impugnata, dalla quale emerge che il F. , pubblico ministero della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, era titolare del fascicolo iscritto a seguito della denuncia querela presentata da M.M. nei confronti del marito, R.A. , in ordine ai reati di lesioni personali e maltrattamenti in famiglia. Il F. , in occasione dell'escussione a sommarie informazioni testimoniali della M. , forniva alla predetta il proprio numero di telefono cellulare e, successivamente, tra i due si instauravano rapporti confidenziali, culminati in una relazione sentimentale. Al contempo, il F. mutava le scelte processuali precedentemente compiute nei confronti del R. , chiedendo la revoca della richiesta di archiviazione, cui faceva seguito la richiesta di misura cautelare, accolta dal giudice per le indagini preliminari, l'esercizio dell'azione penale ed il rinvio a giudizio del R. . Nei confronti della M. , contro la quale il R. aveva precedentemente sporto denuncia, il F. chiedeva ed otteneva l'archiviazione del procedimento. Nel procedimento instaurato a carico del R. , questi veniva prima attinto da misura cautelare e, all'esito del giudizio, era condannato per il reato di lesioni personali, mentre veniva assolto dall'imputazione di maltrattamenti in famiglia. 2.1. La parte civile ricorrente sostiene che tutte le iniziative processuali assunte dal F. , a partire dalla proposizione della revoca della richiesta di archiviazione, siano state dettate dalla sopravvenuta relazione sentimentale instaurata con la M. che, evidentemente, privavano di imparzialità il rappresentante della pubblica accusa, inducendolo ad assumere una condotta processuale finalizzata ad avvantaggiare la M. a discapito del R. . Tale condotta integrerebbe il reato di abuso d'ufficio, configurandosi la violazione dell'obbligo di astensione in capo al pubblico ministero ed il conseguente pregiudizio subito dal R. , sottoposto ad iniziative processuali, anche cautelari, deleterie per la sua posizione. 2.2. Occorre premettere che la violazione dell'obbligo di astensione è stata riconosciuta in entrambe le sentenze di merito, sul presupposto che l'articolo 52 c.p.p., prevede, quale clausola generale, l'astensione del pubblico ministero nei casi di gravi ragioni di convenienza , tra i quali può rientrare anche la sussistenza di una relazione sentimentale con una delle parti processuali. Le ragioni che hanno condotto all'assoluzione in secondo grado attengono, pertanto, alla sola esclusione del profilo del danno ingiusto, avendo la Corte di appello ritenuto che - pur sussistendo la non imparzialità del pubblico ministero questi non aveva posto in essere condotte processuali strumentali e disancorate dalla realtà, meramente finalizzate ad arrecare un danno ingiusto al destinatario di tali iniziative. 2.3. La difesa della parte civile contesta la tesi recepita nella sentenza d'appello, ritenendo che il reato di abuso d'ufficio non richieda affatto l'abnormità o pretestuosità della condotta posta in essere dal pubblico ufficiale in conflitto di interessi con il destinatario della sua azione. Inoltre, assume che la fattispecie concreta in esame non sarebbe stata correttamente valutata con riguardo al ruolo ed alla funzione del pubblico ministero, organo deputato allo svolgimento delle indagini preliminari ed a sostenere l'accusa, sul quale, tuttavia, grava pur sempre un obbligo di imparzialità. Lì dove tale imparzialità viene meno, l'imputato si troverebbe di per sé a subire un pregiudizio, derivante dal fatto stesso di dover sostenere un procedimento penale nel quale la parte pubblica, violando l'obbligo di astensione, è portatrice di un interesse in contrasto. 3. La prospettazione sostenuta dal ricorrente non è fondata, non tenendo conto del consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, anche nel caso in cui il reato di abuso d'ufficio consegua alla violazione dell'obbligo di astensione, è richiesta la sussistenza dell'ulteriore elemento costitutivo del danno o vantaggio ingiusto. Il danno ingiusto è requisito ulteriore e diverso rispetto alla violazione del dovere di imparzialità, che presuppone la produzione di un effetto pregiudizievole, concreto ed individuabile, conseguente alla mancata astensione Sez.6, numero 12075 del 06/02/2020, Stefanelli, Rv. 278723 Sez.6, numero 47978 del 27/10/2009, Calzolari, Rv. 245447, quest'ultima relativa alla condotta di un vice-procuratore onorario che non si era astenuto dal trattare il procedimento penale nel quale era imputato un soggetto di cui era stato in precedenza difensore . Tale principio risulterebbe violato ove si ritenesse, come prospettato dal ricorrente, che nel caso di specie il danno ingiusto sarebbe derivante, in re ipsa, dalla violazione dell'obbligo di imparzialità gravante sul pubblico ministero. Così facendo, infatti, il requisito della doppia ingiustizia verrebbe svuotato di contenuto, ritenendo che - in relazione all'attività giurisdizionale - la lesione dell'imparzialità costituirebbe il fondamento dell'obbligo di astensione ed integrerebbe di per sé un danno ingiusto, senza che la prima debba tradursi in concreti ed autonomi pregiudizi per la parte nei cui confronti si procede. Si tratta di una soluzione che non solo collide con il dato normativo contenuto nell'articolo 323 c.p., per come interpretato da consolidata giurisprudenza, ma che non tiene neppure in debito conto di come sia ben possibile distinguere iniziative processuali indebitamente esercitate, rispetto a condotte che - pur poste in essere da un soggetto in conflitto di interesse - siano in concreto scevre da condizionamenti tali da poterle qualificare come poste in essere in danno del destinatario. Tale aspetto è quello che la Corte di appello ha inteso recepire lì dove ha affermato che l'esercizio dell'azione penale non rappresenta di per sé un danno ingiusto, essendo richiesto un quid pluris, tale da farne desumere il carattere della pretestuosità o abnormità. A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte di appello non ha inteso introdurre un requisito normativo ulteriore rispetto a quelli indicati all'articolo 323 c.p., ma si è limitata a spiegare quali siano le condizioni a fronte delle quali l'iniziativa processuale può tradursi in un danno ingiusto. In quest'ottica risulta pienamente condivisibile l'assunto secondo cui l'iniziativa, anche cautelare, assunta dal pubblico ministero non si sia tradotta nel compimento di atti comportanti di per sé un danno ingiusto per il R. , posto che la misura cautelare è stata evidentemente vagliata e ritenuta congrua dal giudice per le indagini preliminari, il che dimostra la sussistenza dei presupposti della stessa. Non è stato neppure dedotto, peraltro, che il F. possa aver prospettato la vicenda ed illustrato gli elementi indiziari in modo tale da aggravare la posizione del R. , sicché l'applicazione della misura degli arresti domiciliari deve ritenersi frutto di una legittima richiesta, positivamente passata al vaglio del giudice per le indagini preliminari, circostanza che di per sé esclude che l'iniziativa cautelare, pur se proveniente da soggetto non imparziale, abbia risentito di tale vulnus. Analoghe considerazioni valgono anche in ordine all'esercizio dell'azione penale che, sia pur in parte, ha condotto all'adozione di una sentenza di condanna a carico del R. , il che dimostra ulteriormente come il pubblico ministero non abbia affatto intrapreso l'azione in assenza dei necessari presupposti. Nè rileva il fatto che il giudizio si sia concluso con una parziale assoluzione, trattandosi di un'eventualità fisiologica e di per sé inidonea a dimostrare l'assoluta infondatezza e pretestuosità dell'azione penale. In conclusione, si ritiene che la violazione dell'obbligo di astensione da parte del pubblico ministero non integri di per sé il requisito del danno ingiusto, in quanto il difetto di imparzialità assume rilevanza solo a condizione che si traduca in accuse pretestuose e palesemente insussistenti, nonché in iniziative del tutto prive di fondamento, strumentali rispetto al perseguimento di finalità persecutorie o, comunque, improntate ad un iniquo esercizio dei poteri processuali. Applicando tali principi alla fattispecie in esame, sarebbe stato necessario quanto meno dedurre se ed in che misura la presenza di un pubblico ministero in conflitto di interessi con l'imputato abbia concretamente arrecato un danno a quest'ultimo, sia pur con riguardo al mero trattamento processuale deteriore rispetto a quello di cui questi avrebbe altrimenti goduto. Lo svolgimento del procedimento, pertanto, è stato tale da non denotare specifiche irregolarità causalmente collegabili alla mancanza di imparzialità del pubblico ministero. Infine, si sottolinea come la tesi del ricorrente secondo cui la mancata astensione implicherebbe di per sé un vulnus rispetto al corretto svolgimento del processo, è smentita anche dalla consolidata giurisprudenza secondo cui la violazione dell'obbligo di astensione da parte del pubblico ministero non determina una nullità degli atti, nè la inutilizzabilità degli elementi acquisiti, potendo incidere tale situazione solo sulla attendibilità delle prove Sez.6, numero 12655 del 26/02/2016, Bambini, Rv. 266949 Sez.1, numero 6618 del 17/01/2008, Rinaldi, Rv. 239364 . Il fatto che gli atti assunti dal pubblico ministero o su impulso di questi, permangono pienamente validi ed efficaci nonostante la sua mancata astensione, costituisce la riprova del fatto che il difetto di imparzialità non inficia automaticamente la regolarità processuale e, quindi, non può neppure sostenersi che il procedimento risulti di per sé viziato per effetto della mera partecipazione di un rappresentante della pubblica accusa non imparziale. 4. Alla luce delle considerazioni sopra svolte il ricorso va rigettato, con condannato del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.