Quali criteri legano mani e piedi al datore di lavoro?

I criteri di scelta indicati nella dichiarazione di mobilità non vincolano il datore di lavoro. Infatti, dopo l’avvio della procedura di confronto tra datore e associazioni sindacali, questi stessi criteri possono mutare e possono colpire lavoratori non inizialmente contemplati nella dichiarazione d’avvio.

La Corte di Cassazione ha così deciso nella sentenza numero 14170, depositata il 23 giugno 2014. Il caso. La Corte d’appello rigettava il ricorso del lavoratore, in riferimento ad un provvedimento di mobilità lunga, ritenendo violati, da parte dell’azienda, i criteri di scelta dei lavoratori fissati negli accordi sindacali. Il soccombente adiva poi la Suprema Corte, lamentando la violazione e falsa applicazione degli stessi accordi. La dichiarazione di mobilità è mero inizio della procedura. La Corte ritiene infondato il ricorso. Infatti, la stessa ricorda che la dichiarazione di mobilità, quale rappresentazione della situazione aziendale, è momento di mero inizio di una procedura destinata a svilupparsi nel confronto delle parti sociali e non condiziona i poteri delle parti sociali nella determinazione dei criteri da applicare per la soluzione della crisi aziendale né la loro applicazione a tutto il personale, a prescindere dall’assegnazione ai reparti originariamente considerati dalla dichiarazione di mobilità. Perciò, come avvenuto nel caso in esame, se venga scelto come criterio di scelta quello della prossimità alla pensione del personale, previsto legittimamente negli accordi sindacali, questo può riferirsi a tutto il personale aziendale, a prescindere dall’assegnazione ai reparti originariamente evidenziati nella dichiarazione iniziale della procedura. Il criterio pattuito con accordo sindacale prevale su quello indicato nella dichiarazione d’avvio. La Cassazione afferma dunque che in materia di collocamenti in mobilità, ove il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore e organizzazioni sindacali sia unico e riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, questo sarà applicabile a tutti i dipendenti dell’azienda a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, restando perciò irrilevanti i settori in crisi, a cui il datore aveva fatto riferimento nella comunicazione di avvio alla procedura.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 maggio – 23 giugno 2014, numero 14170 Presidente Stile – Relatore Buffa 1. Con sentenza del 13.2.2007, la Corte d'appello di Catanzaro, confermando la sentenza 24.2.2004 del tribunale di Vibo Valentia, ha rigettato l'impugnativa del provvedimento di collocazione in mobilità lunga del lavoratore S.C., ex articolo 1 septies 1. 176/98, adottato dal suo datore di lavoro Nuovo Pignone s.p.a. 2. Ha ritenuto, in particolare, la corte territoriale che il provvedimento aziendale era rispettoso dei criteri di scelta dei lavoratori fissati negli accordi sindacali intervenuti tra le parti, che su tali criteri non incidevano né l'esigenza - prevista dai detti accordi - di ricerca di un consenso dei dipendenti alla mobilità non essendo la ricerca del consenso un elemento condizionante la validità del provvedimento né l'indicazione dei reparti con esubero di personale contenuta nella comunicazione di avvio della procedura di mobilità atteso che le parti sociali avevano fatto successivamente riferimento al criterio delle esigenze tecniche organizzative e che l'applicazione di tale criterio nell'azienda, priva di autonome articolazioni insensibili alle vicende degli altri reparti, imponeva in ogni caso l'esigenza di prendere in considerazione tutti i dipendenti dell'azienda . 3. Ricorre avverso tale sentenza il lavoratore, con un motivo. Resiste il datore con controricorso, illustrato da memoria. 4. Con unico motivo di ricorso, si deduce violazione e falsa applicazione degli articolo 4 e 5 1. numero 223 del 1991 nonché degli accordi sindacali sottoscritti in data 25.10.1999 e 30.4.2010, per avere la sentenza impugnata trascurato che il criterio di scelta fissato delle parti sociali era sì quello delle esigenze tecnico organizzative, ma sempre nell'ambito della dichiarazione di mobilità del 15.9.1999, la quale aveva circoscritto i reparti interessati e tra i quali non risultava quello cui era addetto il ricorrente , e, per altro verso, per non aver considerato la sentenza che la ricerca del consenso dei lavoratori alla mobilità era attività oggetto in quanto tale di obbligo datoriale, a prescindere dal risultato completamente omessa dalla società in violazione dei detti accordi. 5. Il ricorso deve essere rigettato. 6. Il motivo è intanto inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, nella parte in cui deduce violazione di norme contrattuali senza riportarne analiticamente il contenuto, atteso che, come affermato da questa Corte in più occasioni tra la tante, Sez. 1, Sentenza numero 21473 del 19/09/2013 Sez. L, Sentenza numero 2602 del 03/02/2009 Sez. L, Sentenza numero 21379 del 04/11/2005 , qualora, in sede di giudizio di legittimità, vengano denunciati vizi della sentenza impugnata per mancata considerazione della portata di clausole d contratto collettivo, il ricorrente ha l'onere - in forza del principio d autosufficienza del ricorso per cassazione ed a pena di inammissibilità dello stesso - di riprodurre le clausole del contratto collettivo. 7. Il motivo, che si articola in due distinti profili, è per il resto infondato. 8. Premesso che il lavoratore deduce la violazione di legge solo quale conseguenza della violazione degli accordi contrattuali, quanto a profilo della asserita violazione della dichiarazione di mobilità, i motivo è infondato, atteso che la dichiarazione di mobilità - quale rappresentazione, peraltro solo unilaterale, della situazione aziendale e momento di mero inizio di una procedura destinata a svilupparsi ne confronto delle parti sociali, anche in relazione ai criteri individuati dalle stesse in appositi accordi - non condiziona i poteri delle part sociali nella determinazione dei criteri da applicare per la soluzione della crisi aziendale né la loro applicazione a tutto il personale dell'azienda, a prescindere dall'assegnazione ai reparti originariamente considerati dalla dichiarazione di mobilità. 9. Così, l'individuazione del criterio di scelta della prossimità alla pensione del personale previsto dalle parti sociali criterio legittimo v Sez. L, Sentenza numero 9263 del 04/05/2005 e Sez. L, Sentenza numero 13963 del 26/09/2002 , non può che riferirsi, come nel caso avvenuto, tutto il personale aziendale, a prescindere dal'assegnazione ai reparti originariamente evidenziati nella dichiarazione iniziale della procedura cfr. Sez. L, 26057 del 11/12/2009 . 10. Peraltro, nel caso non possono desumersi dalla dichiarazione d mobilità del 15.9.1999 specifici vincoli per il datore di lavoro, atteso che il ricorrente invoca la dichiarazione di mobilità ma non ne riporta il contenuto nel ricorso, mediante trascrizione delle clausole che potrebbero rilevare per la fattispecie, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non consentendo così a questa Corte di valutare la portata della dichiarazione di mobilità e conseguentemente, degli accordi contrattuali che la stessa richiama. 11. Può dunque affermarsi che, in materia di collocamenti in mobilità e di licenziamenti collettivi, ove il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali sia unico e riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, tale criterio sarà applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, e restando perciò irrilevanti i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura. 12. Quanto all'aspetto della ricerca del consenso dei lavoratori, la deduzione è infondata, in quanto la mera violazione dell'obbligo puramente procedurale di ricerca del consenso dei singoli lavoratori - configurabile peraltro, nel caso, solo per un limitato periodo temporale nel quale non era ancora intervenuto il collocamento in mobilità del ricorrente - non inficia la legittimità della procedura collettiva. 13. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in € 100 per spese ed € 3500 per competenze, oltre accessori come per legge.