Divieto di cumulo delle pensioni: quando è derogabile?

Affrontato il tema del trattamento pensionistico attraverso l’analisi dell’art. 72, legge n. 388/2000, secondo cui, a decorrere dal 1° gennaio 2001, le pensioni con anzianità contributiva pari o superiori a 40 anni sono interamente cumulabili con i redditi da lavoro autonomo o dipendente.

Tale disciplina sarebbe però applicabile solo a coloro che hanno dapprima cessato il loro rapporto e successivamente siano stati rioccupati. La Cassazione, invece, con la sentenza n. 2843 del 7 febbraio 2014, ritiene che le norme in oggetto, sebbene contenute in leggi finanziarie di portata generale, devono essere derogate da una serie di leggi speciali art. 1, commi 185/187, legge n. 662/96 e art. 44, legge n. 289/2002 che riconoscerebbero un trattamento pensionistico anche ai dipendenti che abbiano mutato il proprio rapporto di lavoro da full time a part-time, pur senza cessare il rapporto stesso. Il caso. La questione muove da una sentenza di primo grado del Tribunale di Torre Annunziata del 21 aprile 2005 con la quale, il giudice di merito accoglie il ricorso proposto da un cittadino che aveva richiesto il cumulo integrale della pensione e la restituzione delle somme trattenute sul trattamento pensionistico. Il giudice di merito e poi la Corte d’appello di Napoli accolgono il suddetto ricorso. La Cassazione, interpellata sulla faccenda dall’INPS, accoglie il ricorso. Disparità di trattamento tra lavoratori full-time e part-time . In primo luogo, l’INPS ritiene falsa l’applicazione dell’art. 1, commi 185 e 187, legge n. 662/96, dell’art. 44, legge 289/2002, degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione agli artt. 1 e 3, d.m. 28 luglio 1997 n. 331, ex art. 360, n. 3, c.p.c., deducendo in particolare che il divieto di cumulo sarebbe stato abrogato solo con riferimento ai dipendenti già collocati in quiescenza e non anche a quelli in servizio che mutano il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a parziale, senza cioè cessazione del rapporto di lavoro. Svista sulla norma speciale . In secondo luogo si ritiene che sia stata ritenuta non speciale la normativa di cui al detto art. 1, commi 185/187, legge 662/96 ex art. 360, n. 3, c.p.c., pertanto abrogabile da una norma generale quale quella del 2002 che ha abrogato il divieto di cumulo, mentre la disciplina suddetta sarebbe speciale riguardando solo i dipendenti pubblici i quali trasformavano il loro rapporto da tempo pieno a parziale a condizione che il trattamento complessivo non superasse quello previsto per il rapporto a tempo pieno. Ebbene, la Cassazione ritiene che la legge 23 dicembre 1996 n. 662 sia eccezionale poiché consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente, anche se a tempo parziale, e il contemporaneo conseguimento entro certi limiti del trattamento pensionistico in costanza del rapporto di lavoro, derogando così ai principi generali secondo cui il diritto alla pensione di anzianità sarebbe subordinato alla cessazione del rapporto di lavoro dipendente. Conviene dunque che tale disciplina non è derogabile dalla norma generale n. 289/2002, abolitrice del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro subordinato. L’esito è stato dunque quello di cassare la sentenza impugnata che non aveva riconosciuto tale principio di diritto.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 dicembre 2013 – 7 febbraio 2014, n. 2843 Presidente De Cesare – Relatore Maisano Svolgimento del processo Con sentenza del 15 maggio 2008 la Corte d'appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata del 21 aprile 2005 con la quale è stato accolto il ricorso proposto da M.F. nei confronti dell'INPS con la dichiarazione del diritto dello stesso M. al cumulo integrale della pensione con il reddito da lavoro e la conseguente condanna dell'istituto alla restituzione delle somme trattenute sul trattamento pensionistico. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia ritenendo infondato l'assunto dell'INPS secondo cui l'art. 72 della legge 388 del 2000, secondo cui, a decorrere dal 1 gennaio 2001, le pensioni con anzianità contributiva pari o superiori a 40 anni sono interamente cumulabili con i redditi da lavoro autonomo o dipendente, sarebbe applicabile solo a coloro che hanno dapprima cessato il loro rapporto e successivamente siano stati rioccupati, non essendovi alcun elemento letterale o logico a sostegno di tale assunto. D'altra parte le disposizioni in esame sono contenute in leggi finanziarie di portata generale e, inoltre, non avrebbe alcuna giustificazione una disparità di trattamento fra i lavoratori a tempo parziale che subirebbero una decurtazione della pensione, e i lavoratori a tempo pieno che, a seguito della normativa citata, potrebbero beneficiare del cumulo fra retribuzione e pensione. L'INPS propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a due motivi. Il M. resiste con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1, commi 185 e 187 della legge n. 662 del 1996, dell'art. 44 della legge n. 289 del 2002, degli artt. 1362 e segg. Cod. civ. in relazione agli artt. 1 e 3 del d.m. 28 luglio 1997 n. 331, ex art. 360, n. 3 cod. proc. civ. In particolare si deduce che il divieto di cumulo sarebbe stato abrogato solo con riferimento ai dipendenti già collocati in quiescenza e non anche a quelli in servizio che mutano il proprio rapporto da tempo pieno a tempo parziale senza, cioè, cessazione del rapporto di lavoro. Con il secondo motivo si assume violazione e falsa applicazione dell'art. 15 delle disposizioni della legge in generale, dell'art. 22 della legge n. 153 del 1969 e dell'art. 1, commi 185 e 187 della legge n. 662 del 1996 ex art. 360, n. 3 cod. proc. civ In particolare si lamenta che sarebbe stata erroneamente ritenuta non speciale la normativa di cui al detto art. 1, commi 185 e 187 e, come tale, abrogabile da una norma generale quale quella del 2002 che ha abrogato il divieto di cumulo, mentre la normativa precedente dovrebbe considerarsi speciale riguardando solo i dipendenti pubblici i quali trasformavano il proprio rapporto da tempo pieno a tempo parziale a condizione che il trattamento complessivo non superasse quello previsto per il rapporto a tempo pieno. Il ricorso è fondato. La questione all'esame della Corte è stata già affrontata con sentenza Cass. 2 dicembre 2011 n. 25800 che ha statuito che l'art. 1, comma 185, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 è norma eccezionale poiché consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente, per quanto a tempo non più pieno ma parziale, e il contemporaneo conseguimento, entro specificati limiti, del trattamento pensionistico di anzianità in costanza del rapporto, con lo stesso datore di lavoro, derogando ai principi generali per cui il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell'attività di lavoro dipendente. Ne deriva che la suddetta disciplina - contenente l'esplicita previsione che la somma dell'ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti a tempo parziale non possa superare l'ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di condizioni, presti la sua attività a tempo pieno - non è derogabile non è derogabile dalla successiva normativa generale di cui all'art. 44 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, abolitrice del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro subordinato, senza che possa trovare spazio alcuna censura costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico Cass. 25800/2011 e, successivamente negli stessi termini Cass. 30662/2011 e Cass. 4835/2013 . In questa sede il principio va ribadito. La sentenza impugnata, che non ha dato applicazione a tale principio di diritto, deve essere conseguentemente cassata. Decidendo nel merito, la domanda proposta da M.F. con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado deve essere rigettata. Nulla si dispone sulle spese dell'intero processo in quanto il nuovo testo dell'art. 152 disp. att. cod. proc. civ., contenuto nell'art. 42 punto 11 del D.L. n. 269 del 2003, che nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali limita ai cittadini aventi un reddito inferiore a un importo prestabilito il beneficio del divieto di condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali, non si applica ai procedimenti incardinati prima dell'entrata in vigore del relativo provvedimento legislativo. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da M.F. con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado Nulla sulle spese dell'intero processo.