L’anteriore responsabilità penale non impedisce la protezione dell’extracomunitario potenzialmente a rischio

In tema di riconoscimento dello status di rifugiato e quindi di immigrazione e diritto al soggiorno, l’esistenza di una sentenza di condanna penale anche per reati di natura terroristica non può precludere il riconoscimento della protezione internazionale, sussidiaria o umanitaria l’indagine del magistrato può, infatti, riguardare esclusivamente le condizioni socio-giuridico-politiche dello Stato di provenienza dell’extracomunitario.

E’, così, illegittima la sentenza con cui, accertato il pericolo inerente l’incolumità dell’extracomunitario anche se trattasi di Stato democratico, il reiterato rinvio del processo in Italia, l’errore di valutazione commesso in sede di Commissione ministeriale e di secondo grado nonché la ratio legis , venga negata, per la sopravvenuta irreperibilità dell’immigrato, la concessione della misura di protezione, già ottenuta in primo grado in riforma della decisione della Commissione. Il principio si argomenta dall’ordinanza n. 21667 depositata il 20 settembre 2013. Il caso. Un cittadino turco, sposato da più di dieci anni con una cittadina italiana, già costretto ad abbandonare il proprio Paese da circa venti anni per essere stato sottoposto a tortura fisica e psichica a seguito dell’attività politica esercitata, poi condannato in Italia dalla Corte d’Assise d’Appello a sette anni di reclusione per il reato di associazione con finalità terroristica e con due procedimenti penali pendenti in Turchia per i medesimi reati, otteneva, in primo grado, il riconoscimento dello status di rifugiato, già negato dalla competente commissione la cui composizione mutava in fase istruttoria a seguito di riunione non comunicata all’interessato e con data posteriore a tale riunione, con provvedimento redatto e firmato dal solo presidente non estensore, privo della certificazione del segretario di commissione e dell’attestazione di conformità dell’atto notificato all’originale. La sentenza di primo grado, però, veniva, per la sopravvenuta irreperibilità dell’immigrato rilevata dalla Questura ed attestata dal Tribunale di sorveglianza e con relativa sospensione del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, riformata in appello, a seguito di un processo rinviato per oltre 19 mesi al fine di acquisire il provvedimento del Tribunale di sorveglianza sull’eventuale applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione nonostante fosse stata prodotta, in giudizio, copia del medesimo provvedimento. Gli obblighi del magistrato e delle parti legittimazioni e legittimità. Sotto il profilo formale, è da ricordare, in linea generale, che il principio del tantum devolutum quantum appellatum artt. 434 e 437 c.p.c. non impedisce al magistrato di pronunciarsi sulla base di una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti e sulla base di una qualificazione giuridica dei fatti e dell’applicazione di una norma diverse da quelle invocate dal ricorrente Cass. n. 20652/2009 e n. 11039/2006 inoltre, in sede di legittimità, è inammissibile la censura posta in violazione del principio di autosufficienza del giudizio di cassazione Cass. n. 8569/2013, n. 4220/2012, n. 22726/2011, n. 6937/2010 . Segnatamente, i procedimenti riguardanti il riconoscimento delle misure di protezione internazionale rientrano in ambito di giurisdizione civile. Pertanto, gli unici limiti processuali applicabili sono la mancata risposta all’interrogatorio formale o la mancata comparizione all’interrogatorio libero artt. 117 e 185 c.p.c. così, non si configura come ostativa l’irreperibilità e questa non può essere intesa come volontà di rinunciare alla richiesta di tutela. E’ da precisare che sono consentiti, senza che quindi possa configurarsi violazione di legge, mutamenti nella composizione della commissione ministeriale in fase istruttoria e sino all’udienza di discussione successivamente, invece, opera il divieto di deliberazione della sentenza da parte di un collegio diversamente composto Cass. n. 26820/2007, n. 11295/2009 . La persona tra soggiorno ed espulsione fonti normative e presupposti. In termini di diritto sostanziale, è da sottolineare che la Convenzione C.E.D.U. non prevede un diritto generalizzato ed incondizionato di asilo bensì una serie di limiti al potere giudiziale di estradare e/o espellere verso Stati a rischio e ciò determina, ipso facto ma non ex se , la titolarità della relativa situazione giuridica a favore dell’extracomunitario che si traduce, quindi, nell’aspettativa di esercizio così, l’espulsione coatta dell’immigrato è subordinata ad un’apposita valutazione di verosimiglianza del rischio di maltrattamenti ovvero della minaccia alla vita Cass. n. 10375/2012 senza che si possa operare un bilanciamento tra tale rischio ed il motivo invocato per l’espulsione CEDU 28-02-2008, 24-03-2009, 05-05-2009, 27-03-2010, 19-06-2012 . . Per il riconoscimento della protezione non è, peraltro, richiesta l’instaurazione, tra Stato ed immigrato, di un vincolo fiduciario reciproco non sussiste, cioè, alcun obbligo di collaborazione a carico del richiedente asilo. La tutela della persona quale bene giuridico rende, dunque, il Ministero responsabile amministrativo delle conseguenze del mancato riconoscimento di protezione e fa sì che tale responsabilità prevalga su quella penale dell’immigrato stesso ciò in quanto l’ anima” della fonte normativa ne influenza il corpo”, rendendo legittimo l’annullamento sanzionatorio” della difforme decisione della Commissione e di appello. Peraltro, la costituzione processuale della parte esclude ogni accertamento sulla reperibilità effettiva nel corso del contenzioso giurisdizionale non è, inoltre, necessario che il Ministero dell’interno eccepisca la sopravvenuta irreperibilità come ostativa al riconoscimento della protezione internazionale. Illegittimo il diniego se lo Stato di origine dell’immigrato viola i diritti umani fondamentali e quindi l’immigrato ha diritto di non rientrarvi. In ambito di protezione sussidiaria o umanitaria, il magistrato di merito, contrariamente a quanto sostenuto da App. Bari n. 785/2012, è tenuto ad accertare se trattasi di Stato che violi sistematicamente i diritti e le garanzie CEDU es. l’inapplicabilità del principio del ne bis in idem nei rapporti tra i due Stati ovvero nel cui territorio sia altamente improbabile lo svolgimento di un processo rispettoso degli standard europei di difesa e, quindi, a trarre da tali premesse le conseguenze derivanti dall’applicazione dei parametri normativi in tal senso, la tutela internazionale è sub conditio sine qua non e, per il carattere assoluto dell’art. 3 CEDU, è, invece, irrilevante il tipo di reato commesso. In altri termini, l’ordinamento interno, sul piano anatomico” e funzionale, consente la separazione tra diritti e doveri dell’immigrato e non tra obblighi di non aberratio iuris del giudice in ambito di manutenzione dei diritti soggettivi universali e libertà del rifugiato se e quando non è invocabile alcun principio di prevenzione o sicurezza sociale così, l’immigrato è titolare del l’aspettativa al diritto di soggiorno nonché della relativa situazione giuridica aggregata” ad ottenerne la concessione non mediata e quindi a prescindere da un processo ad hoc se si ravvisa un’occasione negativa” di tutela da parte dello Stato di provenienza dell’immigrato stesso . La priorità, infatti, è l’incolumità dell’extracomunitario e, cioè, la gravità dello stato di diritto del Paese d’origine e, soltanto successivamente, l’ordinamento penalistico-sanzionatorio italiano. Ergo , il ricorso va accolto e la sentenza va cassata con rinvio.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 1, ordinanza 2 luglio - 20 settembre 2013, n. 21667 Presidente Di Palma – Relatore Acierno Fatto e diritto Il cittadino turco E.A. , condannato dalla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il 23 ottobre 2008 a sette anni di reclusione per la commissione del reato di associazione con finalità terroristica ex art. 270 bis cp, adiva il Tribunale di Bari per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, negato con decisione del 24 marzo 2010 dalla competente Commissione, o in subordine della protezione sussidiaria o altrimenti umanitaria. Spiegava il cittadino straniero che era stato costretto ad abbandonare il suo paese d'origine da circa venti anni per essere stato sottoposto a tortura fisica e psichica a seguito dell'attività politica ivi esercitata. Aggiungeva che in Turchia pendevano due procedimenti penali per i medesimi reati per i quali era stato giudicato in Italia, che era stato diramato l'ordine a tutte le stazioni di polizia di arrestarlo immediatamente e che lo Stato turco ne aveva chiesto l'estradizione, negata però dalla Corte d'Appello di Sassari con decisione definitiva. Rappresentava inoltre che, se fosse tornato in patria, sarebbe sicuramente stato ucciso sia perché simpatizzante del partito politico di ideologia marxista leninista DHKP-C, i cui componenti erano stati da tempo eliminati fisicamente o comunque ridotti al silenzio in prigione, sia per l'utilizzo nelle carceri di un regime restrittivo e per la diffusa pratica della tortura contro i detenuti arrestati per motivi politici, come attestato dai rapporti redatti dall'organizzazione Amnesty International. Il Tribunale di Bari accoglieva il ricorso, precisando che, seppure la commissione del reato di associazione con finalità di terrorismo impedisse il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, nel caso di specie sussistevano le condizioni per il rilascio della misura della protezione umanitaria. Tale decisione veniva tempestivamente reclamata davanti alla Corte d'Appello dal Ministero dell'Interno, il quale chiedeva l'esclusione di ogni protezione, sostenendo che la condanna penale riportata dal cittadino straniero fosse ostativa anche al riconoscimento del permesso per motivi umanitari. Si costituiva ritualmente E.A. , il quale in via incidentale insisteva per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria. La Corte d'Appello in via preliminare respingeva le doglianze prospettate dal cittadino straniero sulla regolarità della procedura svoltasi davanti alla Commissione territoriale, spiegando che, come evidenziato dal Tribunale, i vizi lamentati costituivano mere irregolarità e che E.A. aveva interesse all'esame delle proprie ragioni e a non far regredire la procedura di asilo alla fase pre-giurisdizionale. In accoglimento del reclamo proposto dal Ministero e in riforma della sentenza del Tribunale di Bari, la corte territoriale rigettava integralmente la domanda proposta da E.A. a causa della sua sopravvenuta irreperibilità, rilevata dalla Questura di Perugia il 18 ottobre 2011, attestata con ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Napoli del 23 novembre 2011 e non contestata nel ricorso per cassazione avverso quest'ultima ordinanza. Si osservava che era pacifico che E.A. in caso di ritorno in Turchia sarebbe stato nuovamente processato per gli stessi fatti per i quali era stato condannato in Italia non essendo applicabile il principio del ne bis in idem nei rapporti tra codesti due paesi e che sarebbe stato altamente improbabile lo svolgimento in patria di un processo rispettoso degli standard difensivi Europei. Tuttavia, sebbene tali considerazioni avrebbero potuto portare all'accoglimento della domanda di protezione sussidiaria o quantomeno alla conferma della protezione umanitaria, si riteneva che la sopravvenuta ed ingiustificata assenza del cittadino turco comportasse il rigetto della domanda di protezione avanzata, attesa l'impossibilità da parte dello Stato italiano di dare attuazione al meccanismo di tutela richiesto. Si precisava infatti che, ai fini del riconoscimento della protezione, era indispensabile che tra Stato e immigrato si instaurasse un vincolo fiduciario, che non poteva essere unidirezionale. Nel caso in esame, stante l'assenza del reclamato, non si poteva ottenere la sua fiducia e soprattutto non era possibile portare ad esecuzione la misura protettiva, poiché quest'ultima non poteva che riguardare una persona immediatamente reperibile. Né poteva essere riconosciuta alcuna forma di asilo per il solo fatto che E.A. , se espulso verso la Turchia, sarebbe stato esposto al rischio di violazioni dei diritti umani fondamentali, giacché la convenzione EDU non prevede il diritto di asilo, bensì una serie di limiti al potere di estradare, espellere o comunque allontanare verso paesi a rischio gli stranieri, sicché quest'ultimi potrebbero rivendicare un diritto a restare sul territorio dello Stato, ma non un diritto all'inclusione attraverso procedure di asilo. Il giudice di seconde cure concludeva, specificando che, qualora fosse stato raggiunto da un provvedimento di espulsione, il rigetto della domanda di protezione nel giudizio d'appello non avrebbe precluso al cittadino straniero di fare accertare dal giudice competente per l'impugnazione del suddetto provvedimento il suo diritto di restare in Italia, dopo avere indicato il domicilio in cui tale permanenza sarebbe potuta avvenire. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione E.A. , affidandosi ai seguenti motivi con il primo è stata denunciata la violazione degli artt. 112 e 737 cpc, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., nonché il vizio di motivazione, per essere stata fondata la decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale sulla sopravvenuta irreperibilità dell'immigrato, nonostante l'amministrazione reclamante non avesse eccepito tale circostanza come ostativa al riconoscimento della tutela richiesta con il secondo è stata lamentata la violazione dell'art. 35, comma 12, della l. 25 del 2008 e dell'art. 737 cpc, in relazione agli artt. 24 e 11 Cost., per essere stato il processo reiteratamente rinviato per oltre 19 mesi dalla data di presentazione del reclamo al fine di acquisire con urgenza il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Avellino concernente l'eventuale applicazione della misura di sicurezza della espulsione, ai sensi dell'art. 235 cpp, sebbene dello stesso fosse stata prodotta in giudizio copia nonché fosse stata depositata copia del ricorso per cassazione proposto contro di esso davanti alla sezioni penali della Corte di Cassazione. Secondo il ricorrente la trattazione della causa sarebbe stata continuamente rinviata per attendere la definizione del giudizio penale. Alla luce della costante giurisprudenza della Corte EDU, l'esistenza di una sentenza di condanna penale, anche per reati di natura terroristica, non poteva di per sé stessa precludere il riconoscimento della protezione internazionale, sussidiaria o umanitaria, dovendo quest'ultima essere concessa ogni qualvolta lo stato di appartenenza del cittadino straniero non sia in grado di assicurare i diritti e le garanzie previste dalla CEDU. Essendo stato dimostrato in giudizio che la Turchia doveva essere ricompresa tra i paesi che violano sistematicamente i diritti umani universalmente riconosciuti, come emergeva dai rapporti delle organizzazioni internazionali prodotte dal ricorrente e puntualmente richiamata nella sentenza impugnata e come riconosciuto dallo stesso giudice, la corte territoriale avrebbe dovuto ritenere configurabile la protezione richiesta dal cittadino turco con il terzo, quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, decimo e undicesimo è stata denunciata la violazione dell'art. 3 della l. 241 del 1990, dell'art. 3 del d.lgs. 251 del 2007, dell'art. 1 della l. 39 del 1990 e successive modificazioni, dell'art. 235 cp, dell'art. 32, comma 3, del d.lgs. 25 del 2008, dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. 286 del 1998, dell'art. 10 Cost. e dell'art. 13, comma 2, del d.lgs. 286 del 1998, in relazione agli artt. 3 e 15 della CEDU e 4 del 7 protocollo della CEDU, nonché il vizio della motivazione, dal momento che la corte d'Appello, pur avendo riconosciuto la sussistenza dei requisisti richiesti dalla legge per concedere la protezione sussidiaria o per confermare il permesso umanitario rilasciato dal Tribunale sottoposizione nel paese d'origine a un nuovo processo penale per i medesimi fatti su cui si è svolto il giudizio in Italia e alta improbabilità che lo stesso potesse rispettare le garanzie difensive dell'imputato e i di lui diritti umani , ha irragionevolmente rigettato la richiesta di protezione a causa dell'irreperibilità dell'immigrato. Ha spiegato il cittadino straniero che la sua irreperibilità, da non intendersi come volontà di rinunciare alla richiesta di tutela, sarebbe stata giustificata dal rischio di essere espulso in qualsiasi momento dal territorio nazionale, ai sensi dell'art. 13, comma 2, lett. b , a causa del mancato possesso del permesso di soggiorno e della sospensione ad opera della Corte d'Appello di Bari della sentenza del Tribunale che aveva ordinato al questore il rilascio a E.A. di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ha inoltre rappresentato che il giorno in cui era stata disposta la sua liberazione e il trattenimento nel CIE di Bari, in data 19 febbraio 2010, la sede romana dell'Agenzia di Stato turca OMISSIS aveva immediatamente divulgato la notizia, la quale era stata diffusa dai maggiori quotidiani turchi, prima ancora che ne fossero venuti a conoscenza i difensori dell'interessato. L'esigenza di salvaguardare la propria incolumità, tenuto conto della certezza del governo turco dell'imminente sua espulsione e del verificarsi in Italia di fenomeni di extraordinary rendition compiute da membri dei servizi segreti di altre nazioni caso A.O. , avrebbero indotto il ricorrente a non rendere noto il luogo in cui in Italia dimora. È stato infine sottolineato che la corte territoriale sarebbe caduta in un grave errore di diritto, utilizzando i termini assenza e irreperibilità come sinonimi, confondendo così due concetti giuridici profondamente diversi tra loro con il nono è stata dedotta la violazione dell'art. 3 della l. 241 del 1990, dell'art. 19 del d.lgs. 286 del 1998, dell'art. 6 della direttiva 2008/115/CE, in relazione agli artt. 3 e 8 della CEDU, nonché il vizio di motivazione, per non essere stata presa in considerazione la situazione familiare del reclamato, sposato dal 2002 con una cittadina italiana, circostanza ritenuta assorbita dal Tribunale e prospettata nell'appello incidentale con il dodicesimo e tredicesimo è stata censurata la violazione degli artt. 4, 28 e 32 del D.Lgs. n. 25 del 2008, dell'art. 18 del DPR 445 del 2000, dell'art. 97 Cost. e dell'art. 7 della l. 241 del 1990, nonché l'omessa motivazione per avere la corte territoriale rigettato in ordine alla ritualità del procedimento svoltosi presso la commissione territoriale sul duplice presupposto che i vizi dovessero essere considerati mere irregolarità e che il ricorrente non avesse alcun interesse a fare regredire il giudizio, trascurando così l'importanza che per l'immigrato assumeva il rispetto delle norme processuale che regolano il riconoscimento della richiesta di protezione internazionale. È stata denunciata la nullità del provvedimento adottato dalla Commissione territoriale, in quanto 1 lo stesso era stato redatto e firmato dal solo presidente, nonostante costui non ne fosse estensore 2 la Commissione si era riunita per deliberare il giorno 21 marzo 2010, senza fornire comunicazione all'interessato, mentre la decisione recava la data del 29 marzo 2010 3 non era stata apposta la certificazione del segretario della Commissione 4 non era stata attestata la conformità dell'atto notificato all'originale. In merito a quest'ultima doglianza il ricorrente ha precisato che come il provvedimento di espulsione è soggetto all'annullamento dal parte del giudice ordinario quando non sia stato notificato in copia conforme all'originale, così dovrebbe essere annullato il provvedimento della commissione di rigetto della richiesta di protezione internazionale non notificato in copia conforme. In subordine sul punto è stato chiesto che venga sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 27 e 32 della legge 25 del 2008, per violazione degli artt. 3, 24 e 111. Cost., nella parte in cui non si prevede che sia attribuito al giudice ordinario il potere di annullare la decisione della Commissione territoriale non notificata in copia conforme all'originale con il quattordicesimo è stata denunciata la violazione degli artt. 158, 161 e 174 cpc, in relazione all'art. 3 del D.Lgs. 251 del 2007 e dell'art. 1 della L. n. 39 del 1990, per essere stato il collegio giudicante sostituito senza che sussistesse alcun impedimento di natura assoluta che legittimasse tale modifica. La decisione sarebbe stata dunque emanata da un collegio in composizione diversa da quello a cui originariamente era stata affidata la causa, con conseguente nullità della stessa con il quindicesimo è stata chiesta la sospensione in via cautelare dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata. Ha sostenuto il ricorrente che l'art. 19 del d.lgs. 150 del 2011, richiamato dall'art. 34, comma 20, lett. b, di quest'ultima legge, nel prevedere che la proposizione del ricorso sospende l'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, senza le limitazioni precedentemente previste dall'abrogato art. 35, comma 12, della L. 25 del 2008, dovrebbe essere inteso nel senso che la sospensione è applicabile in qualsiasi stato e grado del giudizio, compreso quindi il giudizio d'appello e quello di cassazione. In subordine è stata chiesta che venga sollevata la questione di legittimità costituzionale. Il ricorrente ha depositato memoria, ai sensi dell'art. 380 bis. L'Amministrazione intimata ha resistito con controricorso, chiedendo il rigetto delle pretese avversarie. Il Collegio ritiene che il ricorso meriti accoglimento nei limiti di seguito indicati. In via preliminare deve essere esaminato il quattordicesimo motivo, in quanto l'eventuale suo accoglimento comporterebbe l'annullamento dell'intero processo d'appello. Secondo il costante orientamento di questa corte, nel rito ordinario del giudizio di appello, non sussiste un principio di immutabilità del collegio prima che abbia inizio la fase della discussione, anche nel caso in cui la trattazione della causa si svolga in diverse udienze, atteso che mutamenti nella composizione del collegio sono consentiti fino all'udienza di discussione, in quanto solo da questo momento opera il principio che vieta la deliberazione della sentenza da parte di un collegio diversamente composto rispetto a quello che ha assistito alla discussione ex multis Cass. n. 26820 del 20/12/2007 n. 11295 del 15/05/2009 . Il ricorrente non specifica se il collegio sia stato modificato durante la fase istruttoria o nel periodo intercorrente tra la discussione della causa e l'assunzione della decisione. Dalla lettura degli atti di causa, non preclusa a questa corte qualora venga denunciato un error in procedendo, è emerso che il collegio della corte d'appello, al momento della discussione della causa all'udienza del 19 giugno 2012, era composto dagli stessi magistrati che hanno poi assunto la decisione, tanto che la sentenza risulta firmata dagli stessi giudici che nell'intestazione del provvedimento figurano rispettivamente come presidente e relatore. La modifica della composizione del collegio denunciata dal ricorrente è avvenuta nella fase istruttoria, con conseguente manifesta infondatezza, per il principio di diritto sopra enunciato, della censura di violazione di legge denunciata. Passando all'analisi degli ulteriori motivi di ricorso in ordine numerico, deve rilevarsi che il primo è manifestamente infondato, in quanto la corte territoriale non ha violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, trattando domande nuove, ma, nel rispondere alla domanda avanzata dall'amministrazione, di riforma della pronuncia di primo grado, ha fornito una motivazione diversa da quella addotta dalla medesima, dando rilievo ad un profilo di fatto l'irreperibilità del cittadino turco non espressamente evidenziato dal reclamante a sostegno della tesi della esclusione della sussistenza delle condizioni per il rilascio del permesso umanitario. Il principio di cui all'art. 112 cpc, come quello del tantum devolutum quantum appellatum art. 434 e 437 c.p.c. , non esclude infatti che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base ad una qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all'applicazione di una norma giuridica, diverse da quelle invocate dall'istante Cass., 25 settembre 2009, n. 20652 12 maggio 2006, n. 11039 Cass., 7 dicembre 2005, n. 26999 . Il secondo motivo è manifestamente fondato. La Corte EDU ha più volte avuto modo di sottolineare che l'espulsione coatta dello straniero da parte di uno stato membro verso lo stato di appartenenza costituisce violazione dell'art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, ove sia verosimile che il soggetto espulso sia sottoposto in quel paese a trattamenti contrari all'art. 3 CEDU. Ai fini di tale valutazione, la Corte ha ribadito che è ininfluente il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il soggetto da espellere, poiché dal carattere assoluto del principio affermato dall'art. 3, deriva l'impossibilità di operare un bilanciamento tra il rischio di maltrattamenti e il motivo invocato per l'espulsione ex multis Corte EDU causa Saadi e. Italia, sent. 28 febbraio 2008, rie. n. 37021 del 2006 causa Abdelhedi c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 2638 del 2007 causa Ben Salah c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 38128 del 2006 causa Bouyahia c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 46792 del 2006 causa Darraji c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 11549 del 2005 causa Hamraoui c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 16201 del 2007 causa O.c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 37257 del 2006 causa Soltana c. Italia, sent. 24 marzo 2009, ric. n. 44006 del 2006 causa Sellem c. Italia, sent. 5 maggio 2009, ric. n. 12584 del 2008 causa Ben Khemais c. Italia, sent. 24 febbraio 2009, ric. n. 246 del 2007 causa Marinai c. Italia, sent. 27 marzo 2010, ric. n. 9961 del 2010 causa Adel Ben Slimen c. Italia, sent. 19 giugno 2012, rie. n. 38435 del 2010 . In tale contesto giurisprudenziale il fatto che il cittadino turco E.A. sia stato condannato dalla Corte d'Assise d'Appello di Perugia per la commissione del reato di cui all'art. 270 bis cp è del tutto ininfluente nella valutazione della domanda di protezione internazionale avanzata, dovendosi accertare ai fini del suo accoglimento solo l'esistenza della minaccia alla vita, e della sottoposizione a tortura ed a trattamenti inumani e degradanti, del richiedente se fosse costretto al rimpatrio. Nel caso di specie la Corte territoriale, a seguito dell'analisi della cospicua documentazione prodotta in giudizio, aveva rilevato che nel paese d'origine il richiedente non avrebbe potuto invocare il principio del ne bis in idem né godere delle garanzie processuali relative all'imputato. Era stato inoltre evidenziato che, benché la Turchia fosse un paese democratico, in più occasioni il diritto di difesa era stato compresso attraverso l'arresto dei difensori degli imputati e che il ricorso alla tortura e ai maltrattamenti di inermi non era affatto raro. La sussistenza di un contesto sociopolitico e normativo che avrebbe potuto portare al riconoscimento della protezione sussidiaria, o quantomeno alla conferma della protezione umanitaria, è stato riconosciuto dalla Corte d'Appello senza però trarre da tali corrette premesse le conseguenze derivante dall'applicazione dei parametri normativi derivanti dagli artt. 3 e 14 del d.lgs n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria e 4, comma sesto coordinato con l'art. 19, primo comma del d.lgs n. 286 del 1998 per il riconoscimento del permesso umanitario. Al contrario la Corte ha escluso il riconoscimento di alcuna misura di protezione internazionale, esulando dai predetti parametri normativi e ritenendo condizione irrimediabilmente ostativa l'irreperibilità, pur dando atto che E.A. , se espulso verso il suo paese d'origine, sarebbe stato esposto al rischio di violazione dei diritti umani. Il giudice di secondo grado ha erroneamente ancorato la concessione della misura all'ulteriore presupposto della reperibilità dell'immigrato, elemento che esula dai requisiti richiesti dalla legge per il riconoscimento della protezione internazionale. Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o del diritto di asilo o del permesso per motivi umanitari, il giudice è esclusivamente tenuto a valutare l'esistenza della circostanza che il cittadino di un determinato Paese, a causa delle persecuzioni o dei pericoli che lo minacciano, non possa restare nello stesso e debba indirizzarsi verso altro Paese che lo possa ospitare Cass. n. 10375 del 21/06/2012 . Nessuna rilevanza può avere il fatto che il cittadino straniero non voglia rivelare il luogo in cui dimora, in pendenza del procedimento, né tantomeno il riconoscimento della protezione internazionale può fondarsi sul rispetto di un presunto vincolo fiduciario tra Stato e cittadino straniero, facendosi discendere dalla sua inosservanza il diniego della protezione internazionale richiesta, non sussistendo alcun obbligo di collaborazione o reciprocità a carico del richiedente asilo. Peraltro, deve essere precisato che i procedimenti riguardanti il riconoscimento delle misure di protezione internazionale appartengono alla giurisdizione civile e si collocano all'interno dei modelli processuali propri dei giudizi civili. La partecipazione delle parti nel giudizio deve, conseguentemente essere disciplinata alla stregua delle regole di questa tipologia di processi. In particolare, una volta che la parte sia regolarmente costituita, come nella specie il ricorrente nel procedimento d'appello, la effettiva comparizione personale nel giudizio non ha un diretto rilievo neanche sul piano probatorio, salva l'ipotesi della mancata risposta all'interrogatorio formale od i limitati effetti della mancata comparizione all'interrogatorio libero art. 117 185 cod. proc. civ disposto officiosamente dal giudice. Peraltro la costituzione della parte esclude ogni accertamento relativo alla reperibilità effettiva nel corso del giudizio, trattandosi di un accertamento doveroso soltanto ai fini della verifica della validità ed efficacia della notificazione degli atti processuali in funzione della costituzione del contraddittorio. La nozione penalistica dell'irreperibilità è del tutto ininfluente anche nei giudizi relativi al riconoscimento di misure di protezione internazionale, non potendosi far derivare, dall'incontestato potenziamento di poteri istruttori del giudice, un'alterazione così rilevante del modello processuale applicabile. Il terzo, quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, nono, decimo e undicesimo motivo devono ritenersi assorbiti dalla trattazione di quello precedente, in quanto ad esso logicamente connessi. Il dodicesimo e il tredicesimo motivo devono essere dichiarati inammissibili. Il ricorrente infatti in violazione del principio di autosufficienza del ricorso non indica in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il provvedimento della commissione territoriale di cui lamenta i vizi. In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dall'art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame ex multis Cass. n. 8569 del 09/04/2013 n. 4220 del 16/03/2012 S.U. n. 22726 del 03/11/2011 n. 6937 del 23/03/2010 . Il quindicesimo motivo deve essere dichiarato manifestamente infondato, in quanto l'art. 19 del d.lgs. 150 del 2011 non risulta ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame, in quanto il procedimento di reclamo dinanzi al Tribunale è stato instaurato in data anteriore all'entrata in vigore della suddetta legge. L'art. 36 del d.lgs. 150 del 2011 dispone infatti che 1. Le norme del presente decreto si applicano ai procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso. 2. Le norme abrogate o modificate dal presente decreto continuano ad applicarsi alle controversie pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso . P.Q.M. La Corte dichiara inammissibili il dodicesimo e tredicesimo motivo. Rigetta il primo, il quattordicesimo e quindicesimo motivo. Accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti il terzo, quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, nono, decimo ed undicesimo. Cassa la sentenza impugnata, per quanto di ragione e rinvia alla Corte d'Appello di Bari in diversa composizione, anche per le spese del presente procedimento.