Confermata la colpa a carico della società per la fatale caduta dall’impalcatura di un operaio, morto sul colpo. Secondo l’azienda non vi era consapevolezza della epilessia che affliggeva l’uomo, e che potrebbe aver provocato l’incidente. Ma l’onere di garantire la sicurezza dei propri dipendenti è destinato a comprendere anche l’ipotesi di eventuali malori.
Dipendente affetto da epilessia. Possibile – ma non certo – che la caduta fatale dall’impalcatura sia stata provocata da un malore improvviso. A risponderne, però, è sempre l’azienda, anche se ha richiama documentazione ad hoc per dimostrare la mancata consapevolezza dei problemi fisici del lavoratore Cassazione, sentenza numero 6151/2013, Sezione Lavoro, depositata oggi . Missione incompiuta. Secondo i giudici – sia in Tribunale che in Corte d’Appello – è lapalissiana la colpa dell’azienda. Nessun dubbio sulla causa del decesso dell’operaio, ossia la tragica «caduta da un’impalcatura», e, soprattutto, chiarissime le omissioni del datore di lavoro, che «non aveva provato di avere fatto tutto il possibile per evitare l’infortunio», rivelatosi poi mortale. Per questo motivo, viene accolta la richiesta di risarcimento avanzata dagli eredi dell’operari nei confronti dell’azienda. Salute. Ad avviso dei legali che rappresentano l’azienda, però, vi sono alcuni errori di fondo nelle valutazioni compiute dai giudici di Appello. Soprattutto per una ragione in primo grado la «colpa del datore di lavoro» era stata giustificata col fatto che egli «pur a conoscenza della malattia del lavoratore, l’aveva ugualmente esposto al pericolo», mentre, in secondo grado, pur rimanendo la consapevolezza della malattia dell’operaio il nodo principale, ci si è soffermati su una «carenza generale delle misure antinfortunistiche». Su questo tasto battono ancora i legali dell’azienda, sostenendo la tesi della mancata consapevolezza «da parte del datore di lavoro, delle condizioni di salute del lavoratore», dimostrabile, a loro avviso, anche da documentazione ad hoc, ossia «libretto di lavoro, attesto di svolgimento di identiche mansioni presso altre imprese». Tali osservazioni, però, non vengono accolte dai giudici della Cassazione, i quali, richiamandosi a precisi riferimenti giurisprudenziali, ricordano che è onere del datore di lavoro «dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno». Ebbene, passando dalla teoria alla pratica, balza agli occhi, in questa vicenda, che «il datore di lavoro non aveva dimostrato di avere adottato tutte le misure necessarie per evitare infortuni, misure che», sottolineano i giudici, «dovevano essere predisposte e rivelarsi efficaci» pure «per evitare anche che eventuali malori, che avessero interessato lavoratori operanti nell’azienda, potessero causare lesioni alla loro integrità fisica». Ciò perché, concludono i giudici, «l’obbligo di prevenzione» deve riguardare «anche eventi estranei alla dinamica lavorativa».
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 gennaio – 12 marzo 2013, numero 6151 Presidente Vidiri – Relatore Arienzo Svolgimento del processo La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 23.3.2010, ha confermato la decisione di primo grado che aveva accolto la domanda, proposta nei confronti della s.r.l. Cuma, da C.F. e dagli altri eredi di F.A., deceduto per un infortunio sul lavoro, essendo caduto da un’impalcatura per ragioni non accertate, anche se, in sede di consulenza tecnica d’ufficio, era stata riconosciuta la possibilità che la causa fosse stata un malore improvviso del F., che soffriva di epilessia. Il giudice d’appello, nel pervenire a tale conclusione, riconosceva che era stata accertata - anche se in assenza, in primo grado, della società, rimasta contumace - la causa del decesso caduta da un’impalcatura e nesso di causalità tra caduta e morte , mentre, invece, il datore di lavoro non aveva provato di avere fatto tutto il possibile per evitare l’infortunio. Nel confermare la decisione di primo grado, il giudice del gravame - pur dando atto nello storico del ricorso, che l’appellante società aveva lamentato che i danni richiesti consequenziali al decesso non erano stati provati - nulla ha detto sul motivo dell’impugnazione. Avverso tale sentenza propone ricorso la società con tre motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’articolo 378 c.p.c Resistono gli eredi del F., con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo la società lamenta, ai sensi dell’articolo 360, numero 3, c.p.c., in relazione agli articolo 345, 12 ,e 329 c.p.c , una mutatio libelli, perché il Tribunale aveva motivato sulla colpa del datore di lavoro, il quale, sebbene a conoscenza della malattia del lavoratore, l’aveva ugualmente esposto al pericolo, laddove in grado d’appello, pur avendo essa ricorrente incentrato la sua difesa sulla confutazione della presunzione posta a base della sentenza di condanna, ossia sulla conoscenza delle condizioni di salute del F., la Corte territoriale aveva inammissibilmente modificato la causa petendi della richiesta di risarcimento, riconducendola alla carenza generale delle misure antinfortunistiche, andando oltre il suo potere di qualificazione giuridica della domanda. Con il secondo motivo, la ricorrente si duole, deducendo un vizio di motivazione ai sensi dell’articolo 360, numero 5, c.p.c., del fatto che nessuna indagine era stata effettuata in sede di gravame sulla consapevolezza, da parte del datore di lavoro, delle condizioni di salute del lavoratore e sostiene che ingiustificatamente non si era, da parte del giudice d’appello, tenuto corto degli accertamenti eseguiti in sede penale che avevano condotto il Pubblico Ministero a richiedere l’archiviazione del procedimento per il reato contestato al datore di lavoro , in tal modo ingiustamente, a fronte di fatti nuovi su cui si era basata la sentenza di primo grado conoscenza da parte, del datore dello stato di malattia del F. , non consentendosi ad essa società di acquisire agli atti di causa la documentazione che tale consapevolezza escludeva libretto di lavoro, attestato di svolgimento di identiche mansioni presso altre imprese , nonché verbali delle deposizioni testimoniali acquisite. Con il terzo motivo, la s.r.l Cuma denunzia ai sensi dell’articolo 360, numero 4, c.p.c., l’omissione di pronunzia su un motivo di gravame, in relazione all’articolo 112 c.p.c., con riferimento alla specifica impugnazione - sia pure in via subordinata - del capo della sentenza concernente la liquidazione del danno patrimoniale subito dagli attori, assumendo che nella pronunzia viene richiamata, nello svolgimento del processo, la censura rivolta all’avvenuta liquidazione, senza che alcuna domanda fosse stata avanzata al riguardo, del danno patrimoniale, censura formulata anche in relazione alla già avvenuta liquidazione dei danni patrimoniali da parte dell’INAIL. Precisa la ricorrente che nell’appello era stato testualmente richiamato il vizio di ultrapetizione e che gli appellati non avevano sostanzialmente contestato la circostanza limitandosi a sostenere di avere richiesto genericamente tutti i danni subiti. I primi due motivi - che, pur nella differente articolazione della deduzione di vizio di violazione di legge e di vizio di motivazione, vanno trattati congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni poste all’esame - sono infondati atteso che la sentenza impugnata si è attenuta ad orientamento giurisprudenziale consolidato e, nel caso di specie, ha fatto corretta applicazione dei principi più volte ribaditi dai giudici di legittimità cfr., ex plurimis, Cass. 17 febbraio 2009 numero 3786, Cass. 14 aprile 2008 numero 9817 , alla cui stregua “ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ex articolo 2087 cod. civ. - la quale non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva - al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le, suddette circostanze, l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e, tra queste, di aver vigilato circa l’effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente, non potendo il datore medesimo essere totalmente esonerato da responsabilità in forza dell’eventuale concorso di colpa del lavoratore, se non quando la condotta di quest’ultimo, in quanto del tutto imprevedibile rispetto al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, rappresenti essa stessa la causa esclusiva dell’evento” cfr., in tali termini, Cass. 3786/2009 cit. . Nel caso considerato è stato, invero, dal giudice del gravame evidenziato, in applicazione appunto dei richiamati dicta giurisprudenziali, che il datore di lavoro non aveva dimostrato di avere adottato tutte le misure necessarie per evitare infortuni, misure che, in ogni caso, - è agevole sottolinearlo - dovevano essere predisposte e rivelarsi efficaci anche per evitare che anche eventuali malori che avessero interessato lavoratori operanti nell’azienda potessero causare agli stessi lesioni alla loro integrità fisica, dovendo l’obbligo di prevenzione riguardare anche eventi estranei alla dinamica lavorativa purché prevedibili in relazione alla normalità di incidenza in ambito lavorativo anche di un tale tipo di fattori accidentali. Fondato, al contrario, si mostra il terzo motivo essendo agevole constatare che nessuna risposta è stata fornita in relazione allo specifico profilo della censura formulata in sede di gravame, rispetto al quale gli intimati si limitano ad osservare - con ciò riconoscendo implicitamente il vizio di omessa pronunzia che la sentenza impugnata, che nulla aveva detto sulla specifico motivo di gravame, aveva inteso in tal modo rigettare lo stesso. Peraltro, l’esame della specifica doglianza avrebbe dovuto indurre il giudice dell’appello a considerare anche che la liquidazione del danno patrimoniale, per essere confermata, non poteva prescindere dalla valutazione di ulteriori elementi connessi alla possibilità o meno di liquidare poste di danno che potessero già aver costituito oggetto dell’indennizzo da parte dell’INAIL e dalla questione ulteriore del risarcimento del danno differenziale. La sentenza va, in conclusione, cassata in relazione al terzo motivo del ricorso e rinviata alla Corte di appello designata in dispositivo, perchè proceda all’ esame del vizio di ultrapetizione denunziato in sede di gravame, in ordine al quale nessuna valutazione è stata compiuta, pure a fronte della specificità della relativa deduzione. Al giudice di rinvio va rimessa la quantificazione delle spese di lite anche del presente giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo, cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.