L’avvocato, ancorché strutturato, non è mai imprenditore

La nozione di imprenditore portata dall’articolo 2082 c.c. non comprende il libero professionista in ragione dell’assenza, nell’attività da lui svolta, della necessaria componente organizzativa di un apparato stabile e complesso, formato da beni strumentali e lavoratori.

A ribadirlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza numero 16092 del 26 giugno 2013. Il caso . La Corte di Appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosceva il diritto di un avvocato a godere – rispetto all’assunzione di una lavoratrice subordinata - delle agevolazioni contributive previste dall’articolo 8 della Legge numero 407/1990 recante «norme in materia di contratti di formazione e lavoro» , mentre negava il diritto di quest’ultima a fruire degli sgravi previsti dall’articolo 44 della Legge numero 448/2001 relativo a talune agevolazioni per le nuove assunzioni effettuate nelle Regioni della Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna limitati ai soli datori di lavoro imprenditori. Contro tale sentenza, la datrice di lavoro proponeva ricorso alla Corte di Cassazione articolando due distinti motivi. La norma rinviava espressamente alla figura dell’imprenditore . Con un primo motivo, la ricorrente lamentava la violazione della summenzionata Legge numero 448/2001, nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto lo sgravio contributivo ivi disciplinato limitato ai soli nuovi assunti da imprenditori e non anche da qualsiasi altro datore di lavoro. Doglianza che non viene condivisa dalla Cassazione la quale, interpretando la norma in chiave sistematica, ritiene «indubbio» che la disciplina in commento debba intendersi limitata ai soli datori di lavoro imprenditori ed enti pubblici economici. In Italia per essere imprenditori è necessario dipendere da beni strumentali. Con un secondo motivo, la ricorrente lamentava l’errata applicazione dell’articolo 2082 c.c. nella parte in cui la sentenza impugnata aveva escluso la qualifica di imprenditore all’avvocato che svolge la propria attività con organizzazione produttiva ed apporto di personale dipendente. Anche questo motivo non viene condiviso dalla Corte la quale, affermando il principio esposto in massima, rigetta il ricorso. La Cassazione si mostra consapevole di come uno studio legale possa presentare, in concreto, una organizzazione composta da beni strumentali e lavoratori, ma ritiene tuttavia che «il fatto stesso che essa possa mancare esclude che il concetto di imprenditore possa estendersi tout court al libero professionista». Esclusione che, ad avviso della Corte, rileva in ogni ambito ivi compreso quello delle norme poste a tutela della concorrenza cfr. Cass. numero 560/2005 . In Europa, invece, basta «lavorare» . La Cassazione dà poi atto che, nella giurisprudenza comunitaria, la nozione di imprenditore è più ampia ed include «qualsiasi soggetto che, indipendentemente dallo stato giuridico e dalle modalità di finanziamento, eserciti un’attività economica» cfr . CGCE 1° luglio 2008, causa C-49/07 , quest’ultima intesa come «qualunque attività consistente nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato, a prescindere dallo scopo lucrativo eventualmente perseguito» cfr . CGCE 29 novembre 2007, causa C-119/06 . Ciononostante, ritiene la Cassazione che tale nozione trovi applicazione solo rispetto all’applicazione di norme comunitarie e non nel caso di specie che, delle norme comunitarie, costituisce un’eccezione considerato che gli sgravi de quo costituivano una deroga al divieto di «aiuti di Stato» . L’avvocato è dunque imprenditore solo quando «paga le tasse» . Il principio ora esposto è, per vero, granitico nella giurisprudenza della Cassazione, tanto che non sono stati individuati precedenti che se ne discostino in maniera significativa. Un principio tuttavia che, tralasciando le incongruenze sistematiche per esempio l’obbligo, per il professionista che si avvalga di una anche minima struttura organizzativa, di versare una tassa ontologicamente riservata alle imprese quale è l’IRAP , pare cieco all’evolversi di un mercato in cui gli studi legali costituiscono, di fatto, imprese vere e proprie, con organi gestionali e di controllo, strategie di comunicazione e di «istituzionalizzazione», investimenti e strutture che, oltre ad essere necessari per il loro funzionamento, con la nozione di libero professionista avallata dalla Corte di Cassazione non c’entrano più assolutamente nulla.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 marzo - 26 giugno 2013, numero 16092 Presidente Vidiri – Relatore Manna Svolgimento del processo Con sentenza pubblicata il 9.1.07 la Corte d'appello di Salerno, in parziale riforma della pronuncia emessa in prime cure dal Tribunale della stessa sede, riconosceva all'avv. P T. solo il diritto ad usufruire, in relazione alla sua dipendente Angela Vezzo, dell'agevolazione contributiva di cui all'articolo 8 co. 9 legge numero 407/90 e non anche quello allo sgravio contributivo di cui all'articolo 44 legge numero 448/01, da ritenersi limitato ai soli datori di lavoro imprenditori operanti nelle regioni Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna . Per la cassazione di tale sentenza ricorre l'avv. T. affidandosi a due motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex articolo 378 c.p.c L'INPS resiste con controricorso. Motivi della decisione 1- Con il primo motivo si lamenta violazione ed errata applicazione dell'articolo 44 legge numero 448/01, degli articolo 12 e 14 disp. prel. al c.c., nonché vizio di motivazione, nella parte in cui l'impugnata sentenza ha ritenuto, malgrado il tenore letterale della norma, la sua collocazione e la stessa originaria interpretazione contenuta nella circolare INPS numero 24 del 23.1.02, che lo sgravio contributivo previsto dall'articolo 44 legge numero 448/01 per i nuovi assunti nelle regioni Campania, Basilicata, Puglia, Calabria Sicilia e Sardegna sia da ritenersi limitato ai soli nuovi assunti alle dipendenze di imprenditori e non anche di qualsiasi altro datore di lavoro come, appunto, un libero professionista . Con il secondo motivo si denuncia violazione ed errata applicazione degli articolo 2082, 2083 e 2238 c.c, nonché vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale escluso la qualifica di imprenditore all'avvocato che - come l'odierna ricorrente - svolga la propria attività professionale con organizzazione produttiva e apporto di personale dipendente. 2 - Il primo motivo è infondato alla stregua di un'interpretazione letterale, teleologica e conforme al diritto comunitario. L'articolo 44 co. 1 legge numero 448/01 costituisce una proroga del precedente articolo 3 co. 5 legge numero 448/98, atteso che contenutisticamente le due disposizioni sono sostanzialmente coincidenti, con un'unica differenza nella rubrica l'articolo 3 cit. parla di Incentivi alle imprese , mentre l'articolo 44 di Sgravi per i nuovi assunti . Per il resto, entrambe le norme concedono incentivi ai datori di lavoro sotto forma di sgravi contributivi. La continuità normativa fra le due disposizioni è resa evidente dall'ultimo periodo del cit. co. 1 dell'articolo 44 legge numero 448/01, ove si stabilisce che Ai fini della concessione delle predette agevolazioni, si applicano le condizioni stabilite all'articolo 3, comma 6, della legge 23 dicembre 1998, numero 448, aggiornando al 31 dicembre 2001 le date di cui alla lettera a del medesimo comma 6 dell'articolo 3 . E il co. 6 dell'articolo 3 è esplicito nel riferirsi alle imprese e a disposizioni normative soltanto ad esse applicabili. Dunque, atteso che la disposizione inizialmente formulata l'articolo 3 cit. è esplicitamente indirizzata alle imprese e che quella successiva l'articolo 44 cit. espressamente richiama proprio il co. 6 dell'articolo 3, riferito solo alle imprese e non ad altri tipi di datori di lavoro , è indubbio che da un punto di vista letterale anche l'articolo 44 debba applicarsi soltanto ad imprenditori e ad enti pubblici economici. Si noti che il rinvio alle imprese di cui si parla nel co. 6 del cit. articolo 3 è esplicitamente posto in chiave alle agevolazioni enunciate nella prima parte del comma 1 del cit. articolo 44. Inoltre, se è vero che taluni testi normativi, pur riferendosi ad imprese e ad aziende, nondimeno sono stati considerati suscettibili di estensione analogica anche ai datori di lavoro non imprenditori, è altrettanto indiscutibile che tale operazione ermenutica non è consentita riguardo alle disposizioni in esame. Non lo è ai sensi dell'articolo 12 cpv. disp. prel. c.c. pur invocato in ricorso , che ammette il ricorso all'estensione analogica solo in caso di mancanza di una disposizione ad hoc , mentre nel caso di specie le disposizioni sull'ordinario pagamento dei contributi esistono, sicché non vi sono lacune normative. Non lo è ai sensi dell'articolo 14 disp. prel. c.c., che esclude l'applicazione analogica di una norma eccezionale e tale è una norma che esonera solo talune imprese e a determinate condizioni dal generale obbligo contributivo gravante su tutte le altre . Non lo è nemmeno alla luce del diritto comunitario, nello specifico evocato tanto dall'articolo 3 cit. quanto dall'articolo 44 cit., che subordinano l'efficacia del riconoscimento degli sgravi all'autorizzazione e ai vincoli della Commissione Europea ai sensi degli articolo 87 e ss. del Trattato e successive modificazioni. E, si noti, la Commissione Europea, con provvedimento numero SG 99 D/6511 del 10.8.1999, ha sì ritenuto che l'aiuto di Stato di cui al summenzionato articolo 3, commi 5 e 6, sia conforme alla politica comunitaria in materia di occupazione, ma ciò ha affermato sull'espresso presupposto, comunicato dal Governo italiano, che tali aiuti riguardavano le imprese. In proposito va rammentato che il diritto comunitario vede con sfavore gli aiuti di Stato alle imprese nel cui novero rientrano anche le politiche di sgravi contributivi perché alterano la concorrenza, sicché essi possono impiegarsi in ambito nazionale solo come extrema ratio e nel rispetto delle predette regole comunitarie. Pertanto, sarebbe un'interpretazione contraria non solo al diritto nazionale, ma anche al diritto comunitario quella che estendesse gli sgravi in discorso anche ai datori di lavoro non imprenditori. La conclusione è confermata dall'approccio storico-teleologico, considerato che entrambe le norme i citati articolo 3 legge numero 448/98 e 44 legge numero 448/01 sono finalizzate a promuovere l'occupazione nel Mezzogiorno, vale a dire in una realtà territoriale carente nel settore dell'imprenditoria per numero e dimensioni delle imprese ivi operanti rispetto a quelle attive in altre regioni italiane, mentre non v'è ragione alcuna per supporre che la ratio dell'articolo 44 cit. fosse quella di incentivare - sempre e soltanto nel Mezzogiorno - assunzioni di lavoro domestico o presso studi professionali od organizzazioni di tendenza prive di scopo di lucro cioè assunzioni alle dipendenze di datori di lavoro non imprenditori . 2 - Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. Il concetto di imprenditore accolto nell'ordinamento italiano v. articolo 2082 c.c. tradizionalmente esclude il libero professionista nella specie, l'esercente la professione forense , in particolare per l'assenza, nell'attività da lui svolta, della necessaria componente organizzativa di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da beni strumentali macchinari, locali, materie prime, merci e lavoratori. È pur vero che uno studio di avvocato ben può presentare, in concreto, una siffatta organizzazione tuttavia, il fatto stesso che essa possa mancare esclude che il concetto di imprenditore possa estendersi tout court anche al libero professionista. Sebbene in dottrina si sia proposto di adottare, almeno ai fini dell'applicazione delle norme a difesa della concorrenza ambito diverso da quello in cui si muove il contenzioso in oggetto , una nozione di imprenditore più ampia di quella enunciata dall'articolo 2082 c.c, comprendendovi qualunque entità - persona fisica o giuridica -esercente un'attività economicamente rilevante, industriale o commerciale o di prestazione di servizi, compreso lo sfruttamento di un'opera dell'ingegno, la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è invece pronunciata nel senso di negare qualità imprenditoriale al libero professionista, anche ai fini dell'applicazione delle norme poste a tutela della concorrenza cfr., da ultimo, Cass. 13.1.05 numero 560 . In tale occasione la giurisprudenza ha altresì valorizzato l'intento legislativo, desumibile sia dal c.c. sia da altre disposizioni normative, di differenziare le due figure al punto che, proprio riguardo alla professione di avvocato, il regime delle incompatibilità di cui all'articolo 3 co. 1 r.d.l. numero 1578/1933 comprende, fra l'altro, il divieto dell'esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un'azienda commerciale . Né nel caso in esame è stata allegata l'ipotesi pur esaminata da questa Corte Suprema con giurisprudenza costante cfr., da ultimo, Cass. 22.12.2011 numero 28312 in cui il professionista intellettuale rivesta la qualità di imprenditore commerciale per il fatto di esercitare la professione nell'ambito di un'attività organizzata in forma d'impresa. A tal fine deve trattarsi di una distinta e assorbente attività che si differenzia da quella professionale per il diverso ruolo che riveste il sostrato organizzativo – il quale cessa di essere meramente strumentale - e per il differente apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d'opera intellettuale, ma involgente una prevalente azione di organizzazione, ossia di coordinamento e di controllo dei fattori produttivi, che si affianca all'attività tecnica ai fini della produzione del servizio. In tale evenienza l'attività professionale rappresenta una componente non predominante, per quanto indispensabile, del processo operativo, il che giustifica la qualificazione come imprenditore. Ma - come s'è detto - non è questo il caso. Dunque, la nozione di imprenditore propria del nostro ordinamento non può valere come supporto della domanda dell'odierna ricorrente. La giurisprudenza della C.G.U.E. è più ampia - rispetto a quella nazionale - in tema di individuazione del concetto di imprenditore che non si rinviene nel Trattato essa intende come imprenditore qualsiasi soggetto che, indipendentemente dallo stato giuridico e dalle modalità di finanziamento, eserciti un'attività economica cfr. C.G.U.E. T.7.08, causa C-49/07 e definisce attività economica qualunque attività consistente nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato cfr. C.G.U.E. 10.1.06, causa C-222/04 , a prescindere dallo scopo di lucro eventualmente perseguito cfr. C.G.U.E. 29.11.07, causa C-l 19/06 . Ma si tratta di nozione utile in tema di applicazione di norme comunitarie, mentre nel caso di specie si verte su una materia - quella degli sgravi contributivi - che, anzi, costituisce deroga al principio comunitario contrario agli aiuti di Stato come innanzi detto . 3 - Infine, quanto ai dedotti vizi di motivazione, essi si collocano all'esterno dell'area dell'articolo 360 co. 1 numero 5 c.p.c., in quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacché quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione v. articolo 384 ult. co. c.p.c. , senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire. Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorché malamente spiegata o non spiegata affatto se invece risulta erronea, nessuna motivazione per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione. 4 - In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. La problematicità della materia del contendere e l'originaria interpretazione contenuta nella circolare INPS numero 24 del 23.1.02 che, pur se irrilevante nel caso di specie non costituendo fonte del diritto, nondimeno può aver indotto in errore la ricorrente consigliano di compensare per intero fra le parti le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa fra le parti le spese del giudizio di legittimità.