Il concorso esterno nell’associazione mafiosa implica che l’agente, pur non inserito stabilmente nella struttura organizzativa, fornisca un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, che costituisca una condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia diretto a realizzare il suo programma criminoso.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 17784, depositata il 24 aprile 2014. Il caso. Il tribunale di Catania rigettava l’istanza di revoca o, in subordine, di modifica della misura della custodia cautelare in carcere di un uomo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. L’imputato ricorreva in Cassazione, contestando al tribunale di aver ritenuto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa fosse assimilabile, riguardo alla disciplina applicabile, al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, piuttosto che ai reati aggravati delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416-bis c.p. dall’articolo 7 d.l. numero 152/1991 Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata . Relativamente a questi ultimi reati, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 57/2013, ammetteva la possibilità per il giudice di applicare delle misure cautelari meno gravi della custodia in carcere. Intervento della Consulta. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che la Consulta, con la sentenza citata, aveva dichiarato l’illegittimità di una parte dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p. relativo alla custodia cautelare in carcere . Tale norma prevede che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per reati di cui all’articolo 416-bis c.p associazione di tipo mafioso ., oppure per agevolare l’attività delle associazioni criminali, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi da cui risulti che non sussistono esigenze cautelari. La Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’articolo nella parte in cui non faceva salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, da cui risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Posizioni non equiparabili. Secondo i giudici delle leggi, la posizione dell’autore di delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso, o per agevolare le attività di associazioni mafiose, di cui egli non faccia parte, non è equiparabile a quella dell’associato o del concorrente nella fattispecie associativa. Perciò, veniva sottolineata proprio la non equiparabilità della posizione di chi commette un reato comune, aggravato dall’articolo 7, d.l. numero 152/1991, e di chi concorre, anche dall’esterno, nell’associazione mafiosa. Finalità diverse. Da tali premesse, la Corte di Cassazione rilevava che la commissione di un singolo reato, anche aggravato dall’articolo 7 d.l. numero 152/1991, non è indice, di per sé, di un perdurante collegamento dell’agente con l’associazione mafiosa, né della volontà di contribuire alla realizzazione del suo programma criminoso. Al contrario, il concorso esterno nell’associazione mafiosa implica che l’agente, pur non inserito stabilmente nella struttura organizzativa, fornisca un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, che costituisca una condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia diretto a realizzare il suo programma criminoso. Di conseguenza, la posizione del concorrente esterno non ha nulla a che fare con quella di chi commette un singolo reato, anche se aggravato dall’articolo 7 d.l. numero 152/1991, in quanto è più logico equipararla a quella del partecipe dell’associazione. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 26 marzo – 24 aprile 2014, numero 17784 Presidente Gallo – Relatore Lombardo Ritenuto in fatto Con ordinanza del 17.4.2013, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania rigettò l'istanza di revoca o, in subordine, di modifica della misura della custodia cautelare in carcere in atto nei confronti di R.F. , indagato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. Avverso tale provvedimento il difensore dell'indagato propose appello ed il Tribunale di Catania, con ordinanza del 19.7.2013, rigettò l'impugnazione, confermando il provvedimento impugnato. Ricorrono per cassazione i difensori dell'indagato deducendo 1 la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione dell'ordinanza impugnata, per non avere il Tribunale inteso valorizzare, come dati sintomatici dell'ormai reciso legame con i componenti del clan mafioso, le dichiarazioni ammissive rese dal R. nel corso delle indagini grazie alle quali sarebbero stati eseguiti diversi sequestri di beni , il fatto che - a seguito di quelle dichiarazioni - sono stati contestati al R. reati non aggravati dall'articolo 7 D.L. numero 152/1991, il fatto che il R. ha avanzato richiesta di giudizio abbreviato, la circostanza che ormai l'imputato ha perduto la disponibilità delle aziende una volta da lui gestite e, infine, lo stato di incensuratezza del medesimo 2 la violazione dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale numero 57/2013, per avere il Tribunale ritenuto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa fosse assimilabile, quanto alla disciplina applicabile, al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, piuttosto che ai reati aggravati dall'articolo 7 D.L. numero 152/1991, relativamente ai quali la Corte costituzionale - con sentenza numero 57 del 2013 - ha ammesso la possibilità per il giudice di applicare misure cautelari meno gravi della custodia in carcere eccepisce la illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , in relazione agli articolo 3, 13, e 27 Cost. ove interpretato come il Tribunale di Catania, sul presupposto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe una fattispecie criminosa meno grave di diverse fattispecie criminose comuni aggravate dall'articolo 7 D.L. numero 152/1991. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. 1. In ordine al primo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la mancanza e la illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari, appare evidente come il ricorrente sottoponga alla Corte censure di merito, inammissibili in sede di legittimità. Il ricorrente, infatti, critica - sotto mentite spoglie - la valutazione delle prove da parte dei giudici di merito e le conclusioni cui sono pervenuti in ordine alla permanenza delle esigenze cautelari poste a base della misura della custodia in carcere, riproponendo tutte le critiche già rivolte, con l'atto di appello, al provvedimento del G.I.P. Va ricordato, tuttavia, che la valutazione delle prove è riservata, in via esclusiva, all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in cassazione a meno che ricorra una mancanza o una manifesta illogicità della motivazione, ciò che - nel caso di specie - deve però escludersi. E invero come hanno statuito più volte le Sezioni Unite di questa Corte “L'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento” Cass., sez. unumero , numero 24 del 24.11.1999 Rv 214794 Sez. unumero , numero 47289 del 24/09/2003 Rv. 226074 . Nel caso di specie, i giudici di merito hanno chiarito, con dovizia di argomenti, le ragioni della loro decisione, fornendo puntuale risposta ad ogni censura sollevata con l'appello proposto avverso il provvedimento del G.I.P., con ampia, specifica e dettagliata motivazione che ha richiamato tutte le emergenze probatorie successive al dicembre 2009, che - secondo i giudici di merito - attestano il perdurante pericolo di prosecuzione dell'attività criminosa non si ritiene, peraltro - per ovvi motivi - di riportare qui integralmente tutte le suddette argomentazioni, sembrando sufficiente al Collegio far rilevare che le stesse non sono manifestamente illogiche e che, anzi, l'estensore dell'ordinanza si è puntualmente attenuto ad un coerente, ordinato e conseguente modo di esporre i fatti, le argomentazioni e le nozioni necessari a giustificare la decisione adottata, che resiste perciò alle censure del ricorrente sul punto. 2. Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile, risultando manifestamente infondato. Il ricorrente lamenta la violazione dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale numero 57/2013, per avere il Tribunale ritenuto il reato di concorso esterno in associazione mafiosa assimilabile, quanto alla disciplina relativa al tipo di misura cautelare applicabile, al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, piuttosto che ai reati aggravati dall'articolo 7 D.L. numero 152/1991, relativamente ai quali la Corte costituzionale - con sentenza numero 57 del 2013 - ha ammesso la possibilità per il giudice di applicare misure cautelari meno gravi della custodia in carcere ed eccepisce la illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. penumero , in relazione agli articolo 3, 13, e 27 Cost. ove interpretato come il Tribunale di Catania, sul presupposto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe una fattispecie delittuosa meno grave di diverse fattispecie criminose comuni aggravate dall'articolo 7 D.L. numero 152/1991. Com'è noto, con la sentenza numero 57 del 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, numero 11 Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori , convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, numero 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. La pronuncia del giudice delle leggi muove dal presupposto, illustrato nella motivazione della sentenza, che “la posizione dell'autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto metodo mafioso o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell'associato o del concorrente nella fattispecie associativa” ed è proprio su tale presupposto che la Corte costituzionale ha limitato la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'articolo 275 cod. proc. penumero con esclusivo riferimento “ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”. La Corte costituzionale ha, dunque, risolto la questione giuridica proposta dal ricorrente e l'ha risolta sottolineando la non - equiparabilità della posizione di chi commette un reato comune aggravato dall'articolo 7 D.L. numero 152 del 1991 e di chi concorre - benché dall'esterno - nell'associazione mafiosa. La ratio di questa conclusione è evidente e condivisa dal Collegio. Invero, la commissione di un singolo reato, ancorché aggravato dall'articolo 7 D.L. numero 152 del 1991, non è indice di per sé di un perdurante collegamento dell'agente con l'associazione mafiosa e tantomeno della volontà di contribuire alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima mentre - al contrario - il concorso esterno nell'associazione mafiosa implica che l'agente, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione, fornisca tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che costituisca condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima Cass., Sez. Unumero , numero 33748 del 12/07/2005 Rv. 231671 . È evidente, dunque, come la posizione del concorrente esterno nulla abbia a che fare con quella di chi commette un singolo reato, seppur aggravato dall'articolo 7 D.L. numero 152 del 1991, apparendo non illogico equipararla, invece, a quella del partecipe all'associazione mafiosa. Anche sotto tale profilo, la decisione del Tribunale risulta corretta e risulta, invece, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. penumero , con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi - ai sensi dell'articolo 94, comma 1 ter, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale - che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell'istituto penitenziario in cui l'indagato trovasi ristretto perché provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis del citato articolo 94. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende. Si provveda a norma dell'articolo 94 disp. att. cod. proc. penumero .