Le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte, anche da sole, come prova della colpevolezza

Le dichiarazioni della persona offesa, vittima di reato, possono essere assunte anche da sole, come prova della responsabilità dell’imputato non necessitando le stesse di riscontri esterni.

A ribadirlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza numero 4343 del 30 gennaio 2014. Una giurisprudenza granitica. Sul punto, come è noto, la giurisprudenza di legittimità è piuttosto granitica, tanto è vero che si è ripetutamente affermato che «le regole dettate dall'articolo 192 comma 3 c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone» Cass. Penumero Sez. unite sentenza numero 41461/2012 . E’ peraltro noto come nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi e che, dunque, il giudice fondi il proprio convincimento anche su dati estrinseci, come peraltro è avvenuto nel caso di specie sottoposto al vaglio della Suprema corte, che ha per ciò stesso escluso ogni problema di sindacato in merito. La formulazione di tale ultimo principio, espresso nella decisione sopra citata delle Sezioni unite e richiamato nella decisione in commento, merita di essere brevemente ma attentamente considerato per evitare facili equivoci. Il giudizio di condanna non può prescindere dalla concreta realtà processuale e, dunque, dai dati acquisiti nell’ambito dell’istruttoria, specialmente in ragione delle risposte fornite dalle fonti personali alle domande poste dagli attori istituzionali. Sul punto non pare inutile ricordare che nel caso di una testimonianza della persona offesa, essendo data la possibilità di un controesame, la difesa avrà il compito di “demolire” la credibilità e l’attendibilità oggettiva e soggettiva del dichiarante, sicché grande importanza avranno sul punto le “contestazioni” in senso ampio avanzate dell’avvocato dell’accusato. Ciò detto, bisogna però riconoscere che è assai raro il caso in cui la parte civile, seduta al banco dei testimoni, si limiti a riferire, oltre alla proprie generalità, esclusivamente il fatto imputato in genere, infatti, si descrive il contesto di riferimento e vengono chieste e date spiegazioni particolari ed ulteriori descrizioni, onde verificare appunto perché questi si trovava nel luogo rilevante ed escludere la sussistenza di impedimenti fisici o di altra natura che possano in qualche modo alterare i sensi o inficiare la memoria del teste. Fatte queste precisazioni, si può considerare la portata della massima riferita. Come valutare le dichiarazioni della persona offesa? Ciò che la Suprema Corte richiede è che il giudice dia chiaramente atto delle ragioni per le quali abbia ritenuto credibile la persona offesa e ritenga attendibile il suo racconto, ma è oltremodo evidente che tale onere motivazionale non può non adattarsi alla situazione processuale e soprattutto alla natura del reato contestato. Diverso è, infatti, il caso in cui l’evento dannoso è dato dalla lesione dell’onore o della libertà personale, rispetto ai casi in cui è necessaria la verificazione di un fatto naturale di una certa durata o consistenza. Nello stesso modo, altro è il caso in cui si denunci un fatto “isolato”, altro che questo venga indicato come inserito in una serie. Se, dunque, l’accusa abbia a disposizione solo le dichiarazioni della persona offesa e questa si costituisca parte civile, la difesa dell’imputato non può aggrapparsi “astrattamente” alla massima pronunciata dalla suprema corte de qua per sostenere sic et simpliciter una pronuncia di assoluzione. Infatti, ciò potrà essere solamente nel caso in cui vi sia concreta e seria id est specifica contestazione delle dichiarazioni testimoniali e le stesse appaiano lacunose ed il teste scarsamente attendibile. Quanto sopra, dunque, aiuta a comprendere perché la Suprema Corte abbia affermato che talvolta si può giustificare una maggiore attenzione da parte del giudicante nel valutare il valore probatorio delle dichiarazioni della parte civile se vi è, infatti, un forte interesse economico, manifestato nelle domande avanzate in sede di conclusioni dibattimentali, tale dato può inficiare l’attendibilità del testimone d’accusa specie quando le istanze risarcitorie siano chiaramente sproporzionate rispetto all’evento denunciato, sicché può essere necessario che il giudice debba far riferimento a dati esterni per giustificare la gravità del danno rappresentato, che altro non è – nella maggior parte dei casi – se non un riflesso della gravità del reato. Tale massima, invece, appare non invocabile e comunque non pertinente nel caso in cui la difesa non contesti, se non genericamente ed in sede di arringa finale, quanto testimoniato dalla parte offesa costituita parte civile, specie quando quest’ultima manifesti l’interesse ad un risarcimento simbolico o comunque rimesso all’equo apprezzamento del giudice. Detto in altri termini, la verifica dell’esistenza di riscontri esterni si rende necessaria se il tutto serve, alla luce del concreto processo, per affermare che manchi una parzialità nella testimonianza de qua, parzialità che – si torna a ripetere – se non può darsi a priori per certamente esistente, deve essere in ogni caso considerata come possibile al fine del giudizio sulla credibilità ed attendibilità della persona offesa e, dunque, essere un tema di effettiva considerazione ai fini di una corretta motivazione in fatto. Concludendo. Nell’Evo contemporaneo la massima testis unus testis nullus è stata abbandonata non tanto per facilitare le condanne, ma per dare responsabilità al giudizio di condanna fondato sopra il libero convincimento del giudice. Non pare davvero che con la massima de qua siano venute meno tali ragioni, posto che con essa in fondo non si fa altro che ricordare ciò che l’esperienza giudiziaria impone da secoli e cioè che il giudice verifichi se effettivamente assumano concretezza i pericoli sempre presenti di un inquinamento nella credibilità ed attendibilità della testimonianza della persona offesa alla luce di quanto dalla stessa dichiarato all’autorità e di tutte le altre risultante processuali. In definitiva, se un tale pericolo sarà valutato come effettivamente sussistente, anche alla luce delle concrete obiezioni della difesa, allora sarà ovviamente necessario un qualche riscontro esterno delle dichiarazioni della parte civile se un tale pericolo non verrà considerato come concretamente pertinente, allora la condanna ben potrà essere fondata sulle sole dichiarazioni della persona offesa, sempre che la stessa risulti coerente ed attendibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 10 dicembre 2013 - 30 gennaio 2014, numero 4343 Presidente Squassoni – Relatore Gentili Ritenuto in fatto La Corte di appello di Torino, con sentenza del 18 marzo 2013, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Alba del 23 aprile 2009, condannava M.G. per i reati di cui all'articolo 572 cod. penumero e 81, cpv, e 609-bis, cod. penumero , unificati dal vincolo della continuazione, alla pena di anni 4 di reclusione, con l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque e la interdizione legale per la durata della pena nonché la sospensione per lo stesso periodo dall'esercizio della potestà genitoria e con l'interdizione in perpetuo dagli uffici di tutela e curatela nonché con la perdita del diritto agli alimenti e l'esclusione dalla successione della parte offesa. Va precisato che in primo grado al M. era stato contestata un'articolata imputazione, avente ad oggetto, quanto al capo A il reato di maltrattamenti in danno della moglie, V.L. , protrattosi sino al omissis epoca di materiale separazione fra i due coniugi e, quanto al capo B , il reato di violenza sessuale continuata, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, costretto la predetta moglie, attraverso percosse e minacce, a subire rapporti sessuali non graditi, anche in questo caso sino al omissis quanto al capo C , il reato di violenza privata per avere costretto, con ripetute minacce, la moglie a non fare rientro nella propria abitazione di omissis . Il tutto aggravato per effetto della contestata recidiva. Dichiarata la penale responsabilità in relazione a tutte e tre le imputazioni ascrittegli unificate sotto il vincolo della continuazione, il Tribunale di Alba aveva condannato il M. alla pena complessiva di anni sette e mesi sei di reclusione oltre alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, la interdizione legale per il periodo di espiazione della pena e la sospensione della potestà genitoria per il medesimo periodo nonché la interdizione perpetua dagli uffici di tutore o di curatore, la perdita del diritto agli alimenti e dei diritti successori nei confronti della persona offesa, oltre alla condanna al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, liquidato in Euro 50.000,00. Avverso detta sentenza l'imputato aveva interposto appello, lamentando a la erroneità di essa in quanto fondata su una ricostruzione dei fatti operata sulla sola base delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, non riscontrate da altre testimonianze, anzi smentite da taluni dei testi escussi b il mancato riconoscimento della prescrizione dei reati contestati, assai risalenti nel tempo c la incongruità sia della determinazione della pena irrogata che del risarcimento del danno morale, liquidato in assenza di prove in ordine alla sussistenza di danno patrimoniale. Come dianzi accennato con la sentenza ora impugnata, la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava prescritti, rispettivamente sino al settembre 2005 ed al settembre 2000, i reati di cui ai capi A e B della rubrica e assorbito nel reato di maltrattamenti quello di cui al capo C concedeva le attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla contestata aggravante confermata, quanto al resto la sentenza di primo grado, provvedeva alla rideterminazione della pena inflitta, riducendola così come sopra indicato e disponeva, conseguentemente, anche con riferimento alle pene accessorie ed al risarcimento del danno in favore della parte civile, anch'esso ridotto in funzione dell'avvenuto assorbimento dell'imputazione di cui al capo C della rubrica. La difesa dell'imputato ha interposto ricorso per cassazione, deducendo ben nove motivi. Secondo il ricorrente, in primo luogo, la Corte di appello avrebbe confermato la condanna relativamente ai reati di cui agli articolo 572 e 609 bis cod. penumero in assenza di un adeguato supporto probatorio idoneo a fondarne la sussistenza in particolare, secondo quanto prospettato dal ricorrente, al di là delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, nessuno dei testi escussi avrebbe confermato i continui e reiterati atti lesivi in danno della moglie dell'imputato, tali da integrare gli estremi della condotta del reato contestato, né avrebbe fornito riscontri in ordine alla sussistenza della violenza, minaccia o abuso di autorità che sono elementi costitutivi dell'altro reato contestato, risultando anzi, smentita la loro esistenza dalle testimonianze già sopra ricordate. Egualmente viziata sarebbe la sentenza in quanto con essa si sarebbe provveduto a dichiarare la penale responsabilità del M. , senza un'adeguata indagine in ordine alla ricorrenza a suo carico dell'elemento soggettivo dei reati contestati. La sentenza impugnata sarebbe altresì, viziata, stante la mancanza od illogicità della sua motivazione in ordine alla attendibilità della parte offesa V.L. , motivazione da valutarsi in maniera più rigorosa in considerazione sia del rilevante interesse di questa in ordine all'esito della controversia penale sia del fatto che le sue dichiarazioni non sarebbero state suffragate da altre testimonianze acquisite agli atti del processo. Per converso il ricorrente contesta la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui in essa si afferma, senza adeguata motivazione, la inattendibilità dei testi M.A. e V.K. , che hanno smentito la ricostruzione del fatto come desumibile in base alle dichiarazioni della parte offesa. Ancora il ricorrente lamenta che in sede di giudizio di gravame non si sia data adeguata risposta ai motivi di appello da lui formulati, dolendosi, altresì del fatto che, a fronte di una prova incerta in ordine alla sua penale responsabilità, la Corte abbia ritenuto di dovere condannare, laddove l'articolo 533 cod. proc. penumero prevede che ciò avvenga solo ove la responsabilità dell'imputato emerga al di là di ogni ragionevole dubbio . Ad avviso del ricorrente la sentenza sarebbe altresì viziata relativamente alla conferma della sospensione dall'esercizio della potestà genitoria in capo al M. , stante la mancanza di qualsivoglia motivazione in ordine a tale statuizione. Infine, si censura la quantificazione della pena inflitta, ritenuta ingiusta e comunque sproporzionata. Considerato in diritto Il ricorso, risultato solo parzialmente fondato, deve essere accolto per quanto di ragione. Osserva, infatti, questa Corte che parte delle doglianze formulate dal ricorrente appaiono generiche e, spesso, volte, a sollecitare l'odierno giudicante, più che ad uno scrutinio della legittimità della decisione assunta dalla Corte territoriale, ad un riesame delle risultanze istruttorie emerse nei due precedenti gradi di merito. Con riferimento al supporto probatorio posto a sostegno delle sentenze di condanna, osserva, in primo luogo, questa Corte che essa più volta ha avuto modo di precisare che, nei reati di violenza sessuale, le dichiarazioni della persona offesa, vittima del reato, possono essere assunte, anche da sole, come prova della responsabilità dell'imputato, non necessitando le stesse di riscontri esterni così, fra le molte, Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 gennaio 2011, numero 1818 . Ma, ad ulteriore conforto, della adeguatezza della motivazione adottata dalla Corte territoriale piemontese, vi è la circostanza che nel caso in esame le dichiarazioni accusatorie della persona offesa, V.L. , non sono state assunte dal giudicante come uniche fonti di prova della colpevolezza del prevenuto, essendo le dette dichiarazioni stante supportate da una pluralità di riscontri costituiti sia dalle confidenze rese dalla V. a coloro che per ragioni di lavoro la frequentavano - confidenze che già di per sé varrebbero ad integrare ulteriormente il dato probatorio a carico del M. - sia dai dati obbiettivi desumibili dalle dichiarazioni delle figlie della coppia, F. e Ka. , le quali concordemente riferiscono l'esistenza di atteggiamenti vessatori del padre in danno della madre, atteggiamenti concretizzati, fra l'altro, nell'imporre alla donna prestazioni sessuali contro la sua volontà, nonché nella verifica diretta, da parte sia della psicologa che ebbe in cura la V. sia del medico di base della famiglia, di segni di percosse sulla persona offesa. Né vale a minare la attendibilità di quanto riferito dalla persona offesa il fatto che questa si sia costituita parte civile nel giudizio penale, posto che tale circostanza, seppure può giustificare una maggiore attenzione da parte del giudicante nel valutare il valore probatorio delle sue dichiarazioni Corte di cassazione, SS UU penali, 24 ottobre 2012, numero 41461 , nel caso che ora interessa trova, come detto, un cospicuo corredo di riscontri. Relativamente, invece, alla scarsa attendibilità di quanto riferito dai testi M.A. e V.K. , è chiaro che la Corte territoriale la ha, legittimamente, desunta, quanto al primo, dalla incoerenza del suo complessivo comportamento, avendo egli dapprima fatto dichiarazioni accusatorie nei confronti del padre ed essendosi, anzi, egli adoperato in prima persona onde affrancare la madre dalla oppressiva convivenza coniugale, per poi, inspiegabilmente aver mutato atteggiamento, quanto alla seconda, come ben chiarito nella sentenza di primo grado, dal fatto che la medesima sia giunta sino a negare l'evidenza del fatto di avere sostituito, quale compagna di vita, la di lei sorella nella casa del M. . Riguardo alla sussistenza o meno degli elementi, oggettivi e soggettivi, concreti idonei ad integrare il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale, trattasi, all'evidenza, di questione di fatto sulla quale, avendo la Corte di merito adeguatamente e coerentemente motivato sul punto, non vi è più margine per un'interlocuzione giudiziaria. Fondata, deve, viceversa essere affermata la doglianza del M. in ordine alla mancanza di motivazione relativamente alla irrogazione a suo carico della sanzione accessoria della sospensione della potestà genitoria per la durata di espiazione della pena. Al riguardo, osserva questa Corte che la predetta sanzione accessoria consegue, ai sensi dell'articolo 32 cod. penumero , alla condanna alla pena della reclusione per un tempo non inferiore alla durata di anni 5 essa, pertanto, era stata legittimamente inflitta con la sentenza di primo grado dal Tribunale di Alba che aveva condannato il M. alla pena di anni sette e mesi sei di reclusione. La Corte di appello di Torino, nel riformare detta sentenza, pur riducendo la pena detentiva a carico del M. a soli quattro anni di detenzione, ha provveduto, quanto all'adeguamento delle sanzioni accessorie alla nuova pena detentiva, esclusivamente con riferimento alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, che è stata revocata e sostituita con quella temporanea per la durata di anni 5, in nulla provvedendo quanto alle residue pene accessorie, che, pertanto, debbono ritenersi essere state confermate attraverso la formula Conferma nel resto presente alla conclusione del dispositivo della sentenza della Corte territoriale. Ora, mentre le pene accessorie di cui all'articolo 609 nonies cod. penumero interdizione in perpetuo da qualsiasi ufficio attinente alla tutela e alla curate e la perdita del diritto agli alimenti e l'esclusione dalla successione della persona offesa , trovano tuttora la loro causa giuridica nella condanna, sic et simpliciter, inflitta al M. per il reato di cui all'articolo 609 bis cod. penumero , non lo stesso può dirsi per la sanzione accessoria della sospensione dalla potestà genitoria, la quale, operando solo in presenza della condanna ad una pena detentiva pari, almeno, a cinque anni di reclusione, non trova nel presente caso, in cui la condanna è alla pena di quattro anni di reclusione, una sua ragione giustificatrice. Sul punto, pertanto, la sentenza deve essere annullata, senza bisogno di rinvio, potendo questa stessa Corte di cassazione, ai sensi dell'articolo 620, lettera l , cod. proc. penumero , provvedere alla eliminazione della sanzione accessoria. È, a questo punto, necessario anche il riesame, rispetto a quanto già fatto dalla Corte territoriale, del tema dell'eventuale ampliamento degli effetti della prescrizione. Infatti, già la Corte di appello di Torino aveva dichiarato prescritti i reati di maltrattamenti in famiglia con riferimento alle condotte poste in essere sino al settembre 2005 e quello di violenza sessuale con riferimento alle condotte poste in essere sino al settembre 2000. Si impone, pertanto, la estensione dell'effetto prescrizionale, dato l'ulteriore lasso di tempo trascorso, quanto al reato di cui al capo b della originaria rubrica, sino OMISSIS . Non lo stesso vale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Invero, come già nel recente passato affermato da questa Corte, il delitto di maltrattamenti è, come ogni reato abituale, reato di durata , sicché esso mutua la disciplina della prescrizione da quella prevista per i reati permanenti per questo, per i reati abituali, il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giorno dell'ultima condotta tenuta, la quale chiude il periodo consumativo del reato, periodo iniziatosi con primigenia la condotta che, insieme alla susseguenti, forma la serie minima di rilevanza Corte di cassazione, Sezione VI penale, 28 ottobre 2011, numero 39228 . Ciò fa sì, in definitiva, che in disparte il destino di eventuali condotte costitutive del reato di maltrattamenti, che siano penalmente rilevanti anche ex se, ad esempio lesioni, le quali potranno pur perdere, per effetto del decorso del tempo, sotto questo secondo profilo la loro rilevanza penale il reato di maltrattamenti o si prescrive integralmente, laddove sia pienamente decorso il termine prescrizionale del reato dopo che, con la cessazione della condotta abituale, il reato consummatum est, ovvero non è suscettibile di parziale estinzione per prescrizione, a partire dalle condotte più risalenti nel tempo. La unitaria concezione del reato comporta che o esso è vitale nella sua pienezza o esso è completamente prescritto tertium non datur. Poiché la flagranza del reato per cui è processo è cessata solo in data OMISSIS ed il termine prescrizionale massimo ordinario del reato di cui all'articolo 572 cod. penumero è di anni sette e mesi sei, ai quali, per effetto della sospensione della prescrizione disposta durante il processo, vanno aggiunti altri mesi tre e giorni 25, in applicazione dell'esposto principio, il reato di maltrattamenti in famiglia non si è prescritto. Ai fini della rideterminazione della pena, stante la dichiarazione di parziale prescrizione del reato di violenza sessuale continuata, all'annullamento della sentenza impugnata consegue il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino affinché provveda al necessario. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per quanto concerne la pena accessoria della sospensione della potestà di genitore che elimina e limitatamente alle violenze sessuali commesse fino al omissis , perche, reati sono estinti per prescrizione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per la rideterminazione della pena rigetta nel resto il ricorso.