Il marito della dipendente licenziata minaccia il titolare: vi sono gli estremi dell’estorsione

È addebitabile all’agente la fattispecie di estorsione, e non quella di esercizio arbitrario della proprie ragioni, quando questi minacci altro soggetto in maniera tale che l’intimidazione vada al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio diritto, e la coartazione dell’altrui volontà assume in sé i caratteri dell’ingiustizia, così che, in tal caso, anche la minaccia tesa a far valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva.

È quanto emerge dalla sentenza n. 3264/2014 della Corte di Cassazione, depositata il 23 gennaio. Le fattispecie criminose. Nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto dall’art. 393 c.p. inserito all’interno del titolo relativo ai delitti contro l’amministrazione della giustizia l’agente è animato dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile di contro, nel delitto di estorsione, previsto dall’art. 629 c.p., inserito tra i delitti contro il patrimonio l’agente, mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto. Questa è, sostanzialmente, la posizione della giurisprudenza di legittimità in ordine alle 2 fattispecie delittuose richiamate nel caso concreto affrontato dalla sentenza in commento. Il caso. L’indagato si era recato, insieme ad altri 2 uomini, presso il vecchio luogo di lavoro della moglie licenziata, minacciando e percuotendo il titolare del bar, affinché lo stesso riassumesse la ex dipendente. Sulla scorta di tali fatti veniva applicata la misura degli arresti domiciliari dal GIP era stata proposta impugnazione ed avverso il rigetto era stato proposto ricorso. Tentata estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni? L’indagato deduceva che il reato di tentata estorsione contestato andava, invece, riqualificato in esercizio arbitrario delle proprie ragioni, avendo egli esercitato un proprio diritto, agendo nella convinzione che la moglie fosse stata ingiustamente licenziata a causa di un presunto furto della stessa, ripreso dalle telecamere presenti sul luogo di lavoro. A sostegno dei propri motivi, infatti, lamentava violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che vieta l’uso di mezzi audiovisivi per finalità di controllo dei dipendenti e, per tale ragione, l’inutilizzabilità di tali mezzi di prova. Infine, rilevava l’erroneo mancato inquadramento della condotta nella fattispecie di cui al 393 c.p., non rilevando, a tali fini, la fondatezza della pretesa civilistica. Sulla utilizzabilità delle videoriprese registrate sul luogo di lavoro. La Corte rigetta il ricorso, affermando la totale infondatezza dei motivi. Ritiene, infatti, la correttezza dell’apparato motivazione dei giudici del riesame, che hanno fondato la propria decisione sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa e degli altri dipendenti, nonché delle videoriprese effettuate all’interno del luogo di lavoro, affermandone la piena utilizzabilità, posto che, trattandosi di un esercizio commerciale aperto al pubblico un bar le riprese erano finalizzate non già al controllo a distanza del dipendente, ma a tutelare il patrimonio aziendale da eventuali condotte illecite. Differenze e configurabilità dei diversi delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione. Sulla configurabilità della fattispecie di cui al 393 c.p., la Corte, uniformandosi al proprio prevalente orientamento in materia, afferma che la scriminante tra i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, non è tanto l’elemento materiale che, di fatto, è identico, consistendo nella minaccia o violenza nei confronti di altro soggetto, ma, invero, altra circostanza, rappresentata dal ragionevole esercizio di un proprio diritto o presunto tale. Il reato di cui al 393 c.p. si configura perché il soggetto, in alternativa, potrebbe ricorrere legittimamente ad un giudice e, tuttavia, agisce privatamente. La condotta estorsiva si sostanzia, al contrario, quando manca già, in nuce , tale presupposto, essendo del tutto inesistente anche solo un presunto diritto del soggetto agente da far valere nei confronti di altro e, dunque, la condotta minacciosa assume ‘ ex se ’ necessariamente i caratteri della ingiustizia, con la conseguenza che la minaccia finalizzata a fare valere quel diritto inesistente è di natura estorsiva.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 28 novembre 213 – 23 gennaio 2014, n. 3264 Presidente Petti – Relatore Gentile Considerato in fatto 1.1 - Il GIP presso il Tribunale di Tarante, con ordinanza del 28.11.2012, applicava la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di B.M. perché indagato, unitamente a Z.G. per concorso nel reato di tentata estorsione, ex artt. 56-629 CP avendo tentato, con minaccia e violenza, di costringere C.F. a riassumere quale propria dipendente T.T. , moglie del B. , non riuscendo nell'intento per la reazione della persona offesa 1.2 -Il reclamo avverso tale misura veniva rigettato successivamente, con richiesta del 29.04.2013 il B. chiedeva al Gip la revoca della misura ed in subordine la sua sostituzione con gli arresti domiciliari 1.3 -Avverso il rigetto, veniva proposto appello, rigettato dal Tribunale per il riesame con ordinanza del 30.05.2013 2.0 -Ricorre per cassazione l'indagato a mezzo del difensore di fiducia, deducendo MOTIVI ex art. 606,1 co, lett. b e c.p.p 2.1 -Violazione di legge per avere inquadrato la fattispecie nell'ipotesi ex art. 56-629 CP mentre l'indagato si era limitato ad esercitare un proprio diritto, sicché il fatto andava qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ai sensi dell'art. 393 CP a -il ricorrente censura la decisione impugnata per avere trascurato di considerare che il B. aveva agito nella convinzione che la moglie T.T. fosse stata vittima di un licenziamento ingiusto in quanto ritenuta erroneamente autrice di un furto ai danni del datore di lavoro, e tale convinzione si fondava sull'assunto che il licenziamento era scaturito da una ripresa televisiva effettuata all'interno del luogo di lavoro in violazione dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che vieta l'uso di impianti audiovisivi per finalità di controllo dei dipendenti -a parere del ricorrente le immagini così illegittimamente registrate non potevano essere utilizzate a fini probatori sicché l'azione giudiziaria in sede civile era pienamente ammissibile - l'azione civile era esperibile anche per violazione del principio di proporzionalità in quanto si era adottata la misura disciplinare di massimo rigore del licenziamento a fronte del trattenimento di una somma assai modesta - l'ordinanza era da censurare per avere trascurato di considerare la configurabilità dell'esercizio arbitrario anche laddove il preteso diritto apparteneva a soggetto diverso dall'agente -il Tribunale aveva trascurato di considerare che, ai fini dell'art. 393 CP non rilevava la fondatezza della pretesa civilistica azionabile in sede giudiziaria, bastando che almeno vi fosse una contesa di fatto o potenziale, dovendosi prescindere dalla fondatezza del diritto preteso CHIEDE pertanto l'annullamento dell'ordinanza impugnata. Considerato in diritto 3.0 - I motivi di ricorso sono totalmente infondati. 3.1 - Le doglianze mosse dal ricorrente non tengono conto del fatto che il provvedimento impugnato contiene una serie di valutazioni ancorate a precisi dati fattuali ed appaiono immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Tribunale del riesame ha con esaustiva e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni, fattuali e giuridiche, che sostengono il provvedimento restrittivo impugnato, rilevando in via preliminare, che dagli atti emergeva in maniera chiara il grave quadro indiziario in ordine al contestato furto compiuto dalla moglie dell'indagato ai danni del datore di lavoro, stanti le dichiarazioni della persona offesa e le conferme fornite dagli altri dipendenti dello stesso esercizio, Ca. , G. , M. Il ricorrente deduce, al contrario, che tali testimonianze non sarebbero utilizzabili perché, a loro volta, fondate sull'osservazione del contenuto delle riprese televisive sistemate all'interno dell'esercizio commerciale-bar in cui si era svolta l'azione appropriativa della T. , riprese che, essendo state illegittimamente effettuate, non erano utilizzabili. Si tratta di una censura infondata atteso che il ricorrente trascura di considerare che il luogo di lavoro in esame è un esercizio commerciale aperto al pubblico, sicché in tale contesto le prove di reato acquisite nei confronti di un dipendente, mediante videoriprese effettuate con telecamere installate sul luogo di lavoro sono utilizzabili nel procedimento penale, non rientrandosi nella fattispecie del controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, vietato, in assenza di autorizzazione sindacale o amministrativa, dagli art. 4 e 38 st. lav., bensì in quella dei controlli c.d. difensivi, legittimi in quanto finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale da condotte illecite esulanti dallo svolgimento di attività lavorativa, circostanza che sembra ricorrere nella specie ove la telecamera è predisposta in luoghi aperti al pubblico - esercizio di bar -. Cassazione penale, sez. V, 18/03/2010, n. 20722. Né può ritenersi fondata la censura relativa alla proporzionalità della misura disciplinare atteso, per un verso, il corretto richiamo da parte del Tribunale al principio per il quale nel licenziamento disciplinare, la gravità del fatto va valutata, al fine di verificare il rispetto della proporzionalità, sulla base di una serie di elementi che non possono esaurirsi nelle dirette conseguenze meramente economiche prodotte al datore di lavoro dalla condotta contestata Cassazione civile, sez. lav., 11/02/2000. n. 1558 e, per altro verso, che si tratta di questione di merito che sfugge al sindacato di legittimità in presenza di una congrua motivazione. In ogni caso, dal contesto della motivazione impugnata, ed in specie, dalla descrizione della gravità delle minacce e della violenza esercitata dall'indagato, che ha affrontato la persona offesa spalleggiato da altri due soggetti, uno dei quali ha ripetutamente colpito la persona offesa C. , emerge l'applicazione di un altro principio costantemente affermato da questa Corte, per il quale ricorre il reato di estorsione - e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni - allorché la minaccia si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio preteso diritto, e la coartazione dell'altrui volontà assume ex se i caratteri dell'ingiustizia, con la conseguenza che, in tal caso, anche la minaccia tesa a far valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva. Cassazione penale, sez. V, 14/04/2010, n. 28539 vedi anche Sez. II, 1 ottobre 2004, n. 47972. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna alle spese processuali a norma dell'art. 616 c.p.p Si provveda a norma dell’art. 94/1ter disp. att. cpp. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali Si provveda a norma dell'art. 94 comma 1 ter disposiz. attuaz. c.p.p