«Hai brigato per ottenere l’incarico», accusa normale tra colleghi. Sproporzionata la reazione sessista: condannato

Frecciate e ironia in un acceso dialogo tra colleghi in una struttura ospedaliera una donna accusa il collega di avere brigato per ottenere un incarico che le sarebbe spettato di diritto per anzianità. Alla luce dei costumi italici, si tratta di considerazioni assolutamente normali, che bisogna saper incassare con calma e a cui bisogna reagire in maniera proporzionata. Assolutamente fuori luogo, invece, ricorrere al cliché maschilista dell’offesa a sfondo sessuale.

Obiettivo raggiunto, ossia vedersi affidato l’incarico più ambito. Ma è inevitabile anche una ‘coda’ polemica, fatta di invidie e di illazioni Bisogna sapere accettarle, mostrando grande self-control e incassando con signorilità. Assolutamente sbagliato reagire perdendo la testa gli insulti, per giunta a sfondo sessista, sono assolutamente sproporzionati rispetto al contesto Cassazione, sentenza numero 5070, Quinta sezione Penale, depositata oggi . Vinto e vincitore Scenario una struttura ospedaliera, pomo della discordia l’affidamento di un incarico, protagonisti due colleghi. Episodio fatidico la discussione, ad alta voce, sulla scelta compiuta dal direttore dell’istituto colui che ha ottenuto l’incarico, difatti, viene apostrofato con ironia da una collega, che rivendica la propria «maggiore anzianità» e afferma «esplicitamente» che il collega «aveva brigato per ottenere l’incarico». Non proprio uno scambio di complimenti, quindi, ma a rompere l’equilibrio, seppur precario, della discussione è l’uomo, definendo come una poco di buono la collega «Sei una zoccola» è la frase incriminata. E che costa carissimo all’uomo, condannato, prima dal Giudice di pace e poi in Tribunale, per il reato di ingiuria. Sproporzione. Secondo l’uomo, però, è sbagliata l’ottica adottata dai giudici questi ultimi, difatti, avrebbero dovuto meglio valutare il rapido scambio fra colleghi, per dare un ‘peso’ diverso alla frase sanzionata. Per essere più chiari, l’uomo sostiene la tesi della «reciprocità delle offese» e della «provocazione» le sue parole – sicuramente triviali – nei confronti della collega erano state semplicemente una reazione, seppur sopra le righe. Ma questa visione viene completamente respinta – con conferma della condanna pronunziata in Tribunale – dai giudici della Cassazione, i quali, avendo ben presenti gli italici costumi, sottolineano che determinate accuse sono «ricorrenti all’esito di concorsi», cioè «chi è escluso ritiene, quasi sempre, che ciò sia avvenuto ingiustamente e grazie alle manovre, più o meno lecite, del concorrente vincitore». E in questa osservazione vi è un fondo di verità, poiché «chi ambisce ad un incarico cerca di mettere in evidenza le proprie capacità e, in particolare, di rappresentarle a chi debba adottare la decisione», e quindi si può parlare di «manovre, più o meno corrette». Passando dalla teoria alla pratica, è evidente, per i giudici, che quella tra i due colleghi era una semplice «vivace discussione», caratterizzata da ironia e da «valutazioni sull’esito del concorso». All’interno di tale contesto, quindi, «insinuare che si siano adottati» determinati comportamenti «non costituisce grave provocazione che può legittimare la reazione offensiva, perché si tratta di considerazione e valutazioni ricorrenti in tutte le ipotesi di concorso, e che non sono contrarie al vivere civile». E per i giudici, che fanno ancora più chiarezza, «dire che si è brigato per ottenere un incarico non significa accusare di aver compiuto atti o assunto comportamenti illeciti, perché con tale espressione si vuole soltanto segnalare che l’interessato si è attivato, non necessariamente in modo scorretto, per raggiungere il risultato». Per questi motivi, è assolutamente sproporzionata la frase, tipicamente maschilista, pronunciata nei confronti della collega. E anche in questo caso i giudici hanno ben presenti le pessime abitudini degli italiani «ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento a presunti comportamenti sessuali. Qualunque sia la natura della discussione, l’uomo, di norma, non accusa la sua avversaria di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravvalutarsi – tutte accuse più pertinenti all’oggetto della discussione –, ma di essere una puttana o una zoccola», offese, queste ultime, «in conferenti rispetto alla contesa verbale» e di assoluta «gravità» e di evidente sproporzione alla luce delle «accuse» subite.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 novembre 2012 – 31 gennaio 2013, numero 5070 Presidente Ferrua – Relatore Marasca Fatto e diritto L.G. è stato condannato in entrambi i gradi di merito - sentenze del Giudice di pace di Messina del 3 ottobre 2007 e del tribunale della stessa città in data 8 luglio 2010 - alle pene ritenute di giustizia, oltre al risarcimento dei danni patiti dalla costituita parte civile, per il delitto di ingiuria avendo pronunciato all’indirizzo della collega D.B. l’espressione “sei una zoccola”. L’affermazione di responsabilità era fondata sulle dichiarazioni della parte lesa confortate da quelle del testimone B. Con il ricorso per cassazione G.L. deduceva 1. la omessa assunzione di una prova decisiva, ovvero la mancata acquisizione di copia della lettera inviata dal L. al direttore dell’unità ospedaliera complessa di allergologia ed immunologia clinica, con la quale raccontava l’accaduto di cui è processo 2 la violazione di legge in relazione alla mancata applicazione dell’articolo 599 cod. penumero perché già dalle parole del B. - non si sono scambiati complimenti - emergeva la reciprocità delle offese, avendo la B. accusato il L. di avere brigato e costretto il Direttore a farsi assegnare l’incarico e di averlo deriso quando il ricorrente per tre volte giurò sul proprio figlio di non avere costretto nessuno per ottenere l’incarico. 3 La contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione perché i giudici di merito non avevano considerato che quella del L. fu una reazione alle gratuite accuse della B. come dinanzi riportate. I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da G.L. sono infondati. E’ destituito di fondamento il primo motivo di impugnazione perché l’acquisizione della documentazione richiesta dal ricorrente non ha alcun carattere di decisività trattandosi di una missiva inviata al direttore dell’istituto, nella quale l’imputato L. forniva una ricostruzione dei fatti accaduti. Pur volendo prescinder dal fatto che è ben difficile parlare di prova trattandosi di una missiva inviata dall’imputato nella quale si indicavano alcuni testimoni, che ben avrebbero potuto essere indicati nella lista testi, va detto che ad una prova siffatta non si sarebbe - e non si può - riconoscere alcun carattere di decisività, posto che per prova decisiva deve intendersi quella che, ove fosse stata esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia vedi Sez. II, 28 aprile-12 maggio 2006. numero 16354, CED 234752 cosa che non si sarebbe potuta verificare nel caso di specie, tenuto conto delle dichiarazioni della parte lesa, ritenuta pienamente attendibile, e di quelle del teste B. Anche il fatto che la sentenza impugnata non faccia menzione della questione non comporta alcuna nullità, tenuto conto della assoluta irrilevanza della deduzione. Con gli altri motivi di impugnazione il ricorrente si è doluto che non fosse stata riconosciuta la reciprocità delle offese e/o la provocazione. I motivi sono infondati. La vicenda è stata ricostruita in modo puntuale dalle due sentenze di merito tra i colleghi B. e L. era insorta una accesa discussione in merito al conferimento di un incarico, che la B. riteneva che le dovesse essere conferito in virtù della maggiore anzianità, e che era stato, invece, attribuito, al L. Secondo quanto accertato in base alle testimonianze acquisite ed alla precisa deposizione della parte lesa B., i due contendenti non si scambiarono certo complimenti, avendo la B. esplicitamente sostenuto che il L. aveva brigato per ottenere l’incarico. Si tratta di accuse ricorrenti all’esito di concorsi chi è escluso ritiene, quasi sempre, che ciò sia avvenuto ingiustamente e grazie alle manovre, più o meno lecite, del concorrente vincitore. Niente di più, quindi, di una vivace discussione tra colleghi scaturita dalle rimostranze, condite da ironia, come riferito dal L., e dalle valutazioni sull’esito del concorso, non importa se fondate o meno, della B. Presumibilmente irritato per il tono irridente della B., ad un certo punto il L. pronunciò la tipica frase “sei una zoccola”. Ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l’uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravalutarsi - tutte accuse nella specie più pertinenti all’oggetto della discussione -, ma di essere una puttana o una zoccola - offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale -, con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità. E’ davvero singolare che un uomo, che si presume di cultura, non si renda conto della gravità di un tale comportamento e invochi la reciprocità delle offese. A parte il fatto che la esimente di cui al primo comma dell’articolo 599 cod. penumero è facoltativa, correttamente non è stata ritenuta nel caso di specie, tenuto conto della evidente sperequazione tra le accuse che la B. rivolgeva al collega e l’ingiuria subita. Anche i presupposti per ritenere la esimente della provocazione non sono nel caso di specie sussistenti. La B. in effetti si è doluta della sua esclusione ed ha imputato la nomina del L. alle sue manovre. Si tratta, come si diceva, di accuse ricorrenti in casi simili, d’altronde chi ambisce ad un incarico cerca di mettere in evidenza le proprie capacità ed, in particolare, di rappresentarle a chi debba adottare la decisione anche queste possono essere ritenute manovre più o pieno corrette. Insinuare che si siano adottati tali comportamenti, però, non costituisce una grave provocazione che può legittimare la reazione offensiva perché si tratta di considerazioni e valutazioni ricorrenti in tutte le ipotesi di concorso, come sì è già rilevato, e che non sono contrarie al vivere civile. Del resto dire che si è brigato per ottenere un incarico non significa accusare di avere compiuto atti o assunto comportamenti illeciti, perché con tale espressione si vuole soltanto segnalare che l’interessato si è attivato, non necessariamente in modo scorretto, per raggiungere il risultato. E’ appena il caso di osservare che sovente tra colleghi nascono discussioni, anche aspre e concitate, per motivi di lavoro e che per sostenere le proprie ragioni si faccia ricorso anche ad ironie e perfino ad accuse di scarsa attenzione, di impreparazione, di eccessiva vicinanza al capo dell’ufficio e simili, che non possono rientrare, però, nella categoria del fatto ingiusto che legittima l’uso di frasi pesantemente volgari ed offensive. Sul punto deve, pertanto, essere condivisa la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto non ricorressero gli estremi per ritenere che la B. avesse commesso un fatto ingiusto tale da giustificare la reazione del L. Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.