Illegittima la pretesa di esibire il certificato dei carichi penali ai fini dell’assunzione

Il datore di lavoro, in sede di assunzione, pur potendo richiedere l’esibizione del casellario giudiziale ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, non può rifiutare l’assunzione a causa dei carichi che risultino pendenti in capo a quest’ultimo.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza numero 19012/18, depositata il 17 luglio. La vicenda. Una dipendente di Poste Italiane, già inserita nella graduatoria nazionale dei lavoratori a tempo determinato della società, veniva convocata per la scelta della sede ma non veniva successivamente assunta in servizio essendo risultato dalla certificazione del casellario giudiziale un carico pendente. La lavoratrice chiedeva dunque al Tribunale di condannare la società ad immetterla in servizio. I Giudici, sia in primo che in secondo grado, accoglievano la domanda sottolineando che il CCNL prevedeva la presentazione del certificato penale di data non anteriore a tre mesi e non anche quello dei carichi pendenti. Poste Italiane ricorre dunque in Cassazione sostenendo, per quanto d’interesse, che l’espressione “certificato penale” debba essere intesa in senso ampio, comprensivo anche dei carichi pendenti. Assunzione condizionata. La doglianza risulta priva di fondamento in quanto propone un’interpretazione che non è in grado di scalfire il dato testuale che emerge dal CCNL secondo cui i documenti da presentare ai fini dell’assunzione comprendono il solo certificato penale di data non anteriore a tre mesi. L’espressione “certificato penale” evoca infatti il certificato di cui agli articolo 23 e 25 T.U. del casellario giudiziario di cui al d.P.R. numero 313/2002 e non è suscettibile di plurime interpretazioni. A maggior ragione, condizionando l’assunzione all’esibizione del certificato, sarebbe ammissibile un’interpretazione estensiva poiché si risolverebbe nell’introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno previsto. L’articolo 8 dello statuto dei lavoratori vieta inoltre al datore di lavoro, sia in fase di assunzione che nel corso del rapporto di lavoro, di effettuare indagini su fatti non rilevanti rispetto alla valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore. Tale valutazione si fonda sulla conoscenza delle informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato, non potendo in definitiva estendersi alla conoscenza dei procedimenti penali in corso, anche in virtù del principio costituzionale della presunzione d’innocenza. In conclusione la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 8 marzo – 17 luglio 2018, numero 19012 Presidente Nobile – Relatore Marotta Fatti di causa 1.1. Con ricorso al Tribunale di Roma, B.S. chiedeva la condanna di Poste Italiane ad immetterla in servizio con le mansioni di addetta al recapito junior e ad orario parziale verticale. La B. , già inserita nella graduatoria unica nazionale dei lavoratori precedentemente assunti con contratto a tempo determinato da Poste Italiane S.p.A., previa rinuncia della medesima ad ogni diritto, credito e pretesa derivante dai suoi pregressi rapporti di lavoro, ciò sulla base dell’adesione della lavoratrice all’accordo sottoscritto tra la società e le oo.ss. in data 13 gennaio 2006, quindi convocata per la scelta della sede, non era stata assunta in servizio per essere risultato dalla certificazione della competente Procura un carico pendente. 1.2. Il Tribunale accoglieva il ricorso ritenendo illegittimo il rifiuto di procedere all’assunzione. 1.3. La decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di Roma. I giudici del gravame ritenevano che la disposizione di cui all’articolo 19 del c.c.numero l. prevedesse tra i documenti da presentare per l’assunzione solo ‘il certificato penale di data non anteriore a tre mesi non anche quello dei carichi pendenti e che l’estensione della richiesta della società che aveva poi determinato il diniego di assunzione non potesse essere giustificata da alcun interesse dell’azienda a conoscere la storia personale della persona che si accingeva ad assumere stante, peraltro, la presunzione di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Cost 2. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, Poste Italiane propone ricorso per cassazione fondato su due motivi. 3. B.S. resiste con controricorso illustrato da memoria. Ragioni della decisione 1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli articolo 1362 e ss. cod. civ. e dell’articolo 19 del c.c.numero l. per il personale non dirigente di Poste Italiane dell’11/7/2007. Sostiene che l’espressione “certificato penale” di cui al co. 5 debba essere intesa in senso ampio, comprensiva anche del certificato dei carichi pendenti perché la ratio della norma è quella di garantire il datore di lavoro nella fase dell’assunzione e rileva che la certificazione negativa dei carichi pendenti è un documento dal quale la società, per l’importanza dell’attività che svolge, non può prescindere. 1.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 421 cod. proc. civ Sostiene che la Corte territoriale abb. erroneamente respinto la richiesta di detrazione dell’aliunde perceptum ritenendola meramente esplorativa e non abbia utilizzato, come avrebbe dovuto, i poteri d’ufficio. 2. Il primo motivo è infondato. Innanzitutto non è invocabile a sostegno delle ragioni della società il precedente di questa numero 12086 del 16 maggio 2017. Nel caso esaminato in tale decisione l’obbligo di produrre anche il certificato di carichi pendenti si è fatto derivare non dalla clausola contrattuale ma da un “format di dichiarazione individuale posizione lavorativa di interesse recapito full time”, sottoscritto dal lavoratore con il quale quest’ultimo si era impegnato a produrre anche tale certificazione. Dell’esistenza di un format quale quello sopra indicato non vi è traccia nel presente giudizio nel quale si discute solo della legittimità della richiesta aziendale di estendere i documenti previsti dall’articolo 19 del c.c.numero l. fino a ricomprendere tra questi anche il certificato dei carichi pendenti. Ciò precisato, i rilievi della ricorrente non sono tali da scalfire l’interpretazione dell’articolo 19 del c.c.numero l. come offerta dalla Corte territoriale. Ed infatti appare corretta la rilevanza attribuita innanzitutto al dato letterale secondo il quale tra i documenti da presentare ai fini dell’assunzione vi è il solo “certificato penale di data non anteriore a tre mesi”. La disposizione predetta è assolutamente chiara nella sua formulazione e già solo questa circostanza esclude la necessità del ricorso al meccanismo dell’interpretazione integrativa integrando già un limite logico ad una interpretazione estensiva. Né è possibile attribuire all’espressione “certificato penale” che evoca il certificato di cui agli articolo 23 e 25 del T.U. sul casellario giudiziale di cui al d.P.R. 14 novembre 2002, numero 313 un significato semantico suscettibile di plurime interpretazioni. In ogni caso si tratta di una disposizione che, condizionando sospensivamente l’assunzione alla presenza di determinati requisiti debitamente documentati, non può formare oggetto di interpretazione estensiva perché ciò si risolverebbe nell’introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno inteso prevedere. Ed infatti la richiesta del certificato penale integra un limite rispetto alla previsione di cui all’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi . su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore” che si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato. Tale limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso oggetto del certificato previsto dall’articolo 27 del T.U. sopra citato , ciò specie in considerazione del principio costituzionale della presunzione d’innocenza. Peraltro, nella specie, la Corte territoriale, non si è limitata al dato letterale, ma ha correttamente escluso la possibilità di ricomprendere tra i documenti da presentare ai fini dell’assunzione anche il certificato dei carichi pendenti evidenziando che il solo status di imputato e cioè di soggetto che si sia venuto a trovare ad avere un procedimento penale pendente a suo carico non è previsto nel medesimo c.c.numero l. quale motivo di giusta causa di licenziamento il che renderebbe incongrua una previsione che, invece, interpretata nel senso prospettato dalla società, attribuisca rilevanza a tale status al momento dell’assunzione. 2.2. Anche il secondo motivo è infondato. Come da questa Corte già affermato v. Cass. 31 gennaio 2017, numero 2499 , In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative. Inoltre, nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex articolo 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abb. investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori v. Cass. 12 marzo 2009, numero 6023 Cass. 23 ottobre 2014, numero 22534 in ogni caso, gli indicati poteri d’ufficio non possono essere dilatati fino a richiedere che il giudice supplisca in ogni caso alle carenze allegatorie e probatorie delle parti, in assenza di una pista probatoria rilevabile dal materiale processuale acquisito agli atti di causa v. ex multis Cass. 6 luglio 2000, numero 9034 Cass. 9 marzo 2001, numero 3516 Cass. 8 agosto 2002, numero 12002 Cass. 21 maggio 2009, numero 11847 3. Conclusivamente il ricorso va rigettato. 4. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza. 5. Va dato atto dell’applicabilità dell’articolo 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, numero 115, nel testo introdotto dall’articolo 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, numero 228. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avv. G. Pasquale Mosca, antistatario. Ai sensi dell’articolo 13, co. 1 quater, del d.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.