La consapevolezza di contribuire alla condotta colposa altrui nella tutela della privacy

I principi in tema di cooperazione nel delitto colposo, applicabili anche alle contravvenzioni, impongono che ciascuno dei compartecipi sia consapevole che la propria condotta attiva od omissiva, sfociante nell'evento non voluto, converga con quella altrui.

Così ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Terza Penale, con la sentenza numero 25610 depositata il 6 giugno 2018. La privacy nel processo penale. A finire sotto la lente degli Ermellini è l'ultima norma del codice penale, ossia la contravvenzione che punisce chiunque, nell'ambito di vicende penali a sfondo sessuale, divulghi le generalità ovvero il nominativo della persona offesa dal reato, operando senza il consenso di quest'ultima. Il fatto storico si colloca temporalmente quasi dieci anni fa un avvocato, nel corso di una trasmissione televisiva pronuncia il solo nome di battesimo della persona offesa dal reato di violenza sessuale, minorenne all'epoca dei fatti. Denunciato, viene condannato in primo grado, poi prosciolto in appello per intervenuta prescrizione. Al legale-imputato, ovviamente, la declaratoria di estinzione del reato non va giù. Il ricorso per cassazione, quindi, è incentrato sulla insussistenza del reato. L'interesse all'assoluzione nel caso in cui il reato sia prescritto. Prima di affrontare il cuore del problema – quello relativo alla sussistenza del reato – la Cassazione spende poche parole per motivare la decisione di ritenere ammissibile il ricorso esperito nei confronti di una sentenza con cui il reato è stato dichiarato prescritto. La ragione che sorregge la soluzione positiva risiede nel fatto che in quel processo vi era una parte civile costituita. L'esperimento dell'azione risarcitoria, pertanto, impone al Giudice dell'appello di vagliarne il fondamento a prescindere dall'accertamento dell'estinzione del reato, falcidiato dal decorso del tempo. La necessità di decidere su un'istanza risarcitoria impone, secondo gli Ermellini, di valutare con attenzione il compendio probatorio senza accedere automaticamente alla soluzione più in linea con il principio di economia processuale, ossia la declaratoria di prescrizione. La cooperazione colposa richiede pur sempre la consapevolezza dell'esistenza di una condotta altrui. Nel caso che ci occupa, la condotta contestata all'imputato consisteva nell'aver pronunciato il solo nome di battesimo della persona offesa nel corso di una trasmissione televisiva. Ciò avrebbe consentito agli ascoltatori di individuare con precisione la presunta vittima del reato perchè – come si legge nella motivazione della sentenza in commento – in altra sede il padre della stessa persona offesa si era presentato col proprio cognome. Saldando i due dati anagrafici, secondo la tesi d'accusa, sarebbe stato possibile ricavare le generalità complete della vittima. La Cassazione ritiene questo ragionamento del tutto illogico, e per spiegare le ragioni della propria decisione si appoggia ai principi in tema di cooperazione nel delitto colposo. La norma, com'è noto, fa da pendant all'istituto del concorso di persone nel reato ed è, per indirizzo giurisprudenziale di legittimità, applicabile anche alle ipotesi in cui il contributo commissivo ovvero omissivo sia offerto in una condotta contravvenzionale. Il nocciolo della questione si individua non tanto nell'elemento soggettivo dell'agente, quanto, come rilevano gli Ermellini, nella consapevolezza del fatto che la propria condotta stia convergendo con quella altrui, sia essa attiva od omissiva. La fusione dei vari contributi, sorretti evidentemente dalla colpa, deve avere per risultante l'evento non voluto. Ecco, allora, che il problema è spostato proprio sul tema della prova del fatto che, quando l'imputato pronunciò quel nome di battesimo nel corso dell'intervista, fosse consapevole della circostanza che il padre della vittima si era già qualificato come tale, divulgando il proprio cognome, in altra sede nella specie, durante una trasmissione radiofonica . Il vuoto probatorio sul punto fa crollare, secondo gli Ermellini, tutta l'impalcatura della sentenza sia di primo che di secondo grado, e la soluzione, a questo punto, non può che essere una annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 marzo – 6 giugno 2018, numero 25610 Presidente Rosi – Relatore Andreazza Ritenuto in fatto 1. C.V. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma in data 16/06/2016 di riforma, per intervenuta prescrizione, della pronuncia del Tribunale di Roma di condanna per il reato di cui all’articolo 734 bis cod. penumero per avere indebitamente divulgato, nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda il 20/11/2009, il nome ed i particolari inerenti a presunti abusi sessuali subiti ad opera di una propria assistita come difensore, nell’ambito di un processo penale in corso, da una minorenne all’interno di un istituto religioso. 2. Dopo avere ripercorso l’iter processuale, con un primo motivo di ricorso deduce violazione di legge in riferimento agli articolo 121 e 129 cod. proc. penumero per avere la Corte ignorato la memoria difensiva, presentata in udienza, in cui si ribadiva che l’imputato non aveva divulgato alcunché essendosi limitato a dire C. non ha subito lesioni agli organi genitali e si richiamava in proposito pronuncia di legittimità resa in caso analogo. Deduce altresì che nella sentenza gravata non si è fatta alcuna menzione della richiesta di applicazione dell’articolo 129 cod. proc. penumero nonostante l’ampia illustrazione oggetto della memoria difensiva. 3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta violazione di legge ex articolo 734 bis cod. penumero nonché falsa applicazione degli articolo 192 c.1 e 546 lett. e cod. proc. penumero in relazione alla interpretazione del termine di generalità della persona offesa e del verbo divulgare per avere unicamente indicato un nome comune di persona, disgiunto dal cognome, che ben poteva riferirsi ad un indeterminato numero di soggetti. Deduce altresì che l’imputato avrebbe divulgato un fatto che in realtà non si è mai verificato, atteso quanto deciso dalla Corte di Appello di Salerno che ha assolto l’imputata, difesa dal ricorrente, perché il fatto non sussiste e avrebbe in tal modo unicamente smentito una notizia risultata falsa alla luce della sentenza stessa, divulgata dalla madre della minore. Lamenta inoltre non avere la sentenza di primo grado considerato reputandole circostanze che solo indirettamente potevano portare ad identificare la minore che gli stessi genitori avevano parlato in pubblico sia sulla stampa che in trasmissioni televisive compresa quella in cui era poi comparso anche l’imputato dei fatti costituenti reato fornendo particolari sulla loro identità e sui fatti in modo talmente preciso mediante il riferimento al cognome, al luogo di residenza, al luogo e al nome dell’asilo che l’identificazione della figlia si era resa possibile ancor prima che l’imputato ne pronunciasse semplicemente il nome. Si censura dunque l’erroneo significato di generalità inteso dai giudici in esse dovendo ricomprendersi, oltre al cognome della persona, anche tutte quelle notizie come quelle nella specie rivelate intenzionalmente dai genitori che possono anche indirettamente condurre alla identificazione della stessa. Si deduce inoltre che l’imputato ha unicamente indicato il nome proprio della minore mentre la locuzione figlia dei signori D.G. è stato elemento aggiunto dal Tribunale di Roma nonché già indicato dai genitori nelle precedenti esternazioni tra cui l’intervento, a trasmissione di Radio radicale in data 22/07/2007, del padre Avv. D.G. qualificatosi come genitore della bambina implicata nel processo presso il Tribunale di Vallo della Lucania solo associando le dichiarazioni di questi con il nome pronunciato dall’imputato, si sarebbe allora potuta verificare l’identificazione della minore, dovendosi allora sostenere, semmai, un concorso tra gli stessi. Non a caso la sentenza impugnata ha escluso la parte civile P.R. , madre della minore dal riconoscimento in suo favore del diritto al risarcimento del danno alla luce del comportamento da lei stessa assunto. Da ultimo, si aggiunge che la stessa trasmissione televisiva non avrebbe dovuto essere trasmessa poiché effettuata in violazione del Protocollo di Treviso che non consente ai genitori di presentarsi in pubblico con il viso scoperto proprio al fine di evitare, seppur indirettamente, l’identificazione dei figli, essendo stata tra l’altro mandata in onda, durante la trasmissione, copia degli atti processuali in violazione del segreto istruttorio. 3. Con un terzo ed ultimo motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 578 c.p.p. per quanto riguardante le statuizioni civili. Infatti, la Corte di Appello, pur affermando essere stati gli stessi genitori a portare all’attenzione del pubblico quanto accaduto, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escludendo quindi la risarcibilità dei danni nei confronti della madre, ha poi contraddittoriamente confermato la sussistenza di un generico e immotivato danno morale nei confronti della minore. Considerato in diritto 1. Va premesso che il ricorso, con cui si lamenta la mancata assoluzione nel merito rispetto all’addebito di cui all’imputazione pur a fronte di maturata prescrizione del reato, è, sotto tale profilo, ammissibile. Va infatti ricordato che, se è vero che, per espresso dettato dell’articolo 129, comma 2, cod. proc. penumero , richiamato dall’articolo 531 cod. proc. penumero , ove ricorra una causa di estinzione del reato, la pronuncia di assoluzione nel merito può essere adottata solo nel caso in cui dagli atti risultino evidenti gli elementi deponenti, appunto, in senso pienamente assolutorio, è anche vero che, ove nel processo sia presente la parte civile costituita, il giudice dell’appello è comunque tenuto, nel prendere atto della causa estintiva del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, a pronunciarsi, ai sensi dell’articolo 578 cod. proc. penumero , sull’azione civile ciò significa che lo stesso deve quindi necessariamente compiere una valutazione approfondita dell’acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi. Di qui, dunque, la conseguenza per la quale, in sede di appello, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 578 c.p.p., la formula assolutoria nel merito deve prevalere rispetto alla causa di estinzione del reato e ciò, non solo nel caso di acclarata piena prova di innocenza, ma anche in presenza di prove ambivalenti, posto che, in tal caso, le esigenze di economia processuale che, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all’articolo 129, comma secondo, cod. proc. penumero , non possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l’applicazione della regola probatoria di cui al secondo comma dell’articolo 530 del codice di rito. In definitiva, in tali casi, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova Sez. U., numero 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273 . 2. Ciò posto, inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo di ricorso posto che la sentenza, al di là della non effettuata menzione espressa dell’articolo 129 cod. proc. penumero e della memoria presentata, ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere le argomentazioni difensive contenute nella memoria e volte a richiedere l’assoluzione nel merito, è invece fondato, nei termini di cui oltre, il secondo motivo con il quale si deduce essenzialmente, per il tramite dalla violazione di legge denunciata, l’insussistenza del reato si lamenta in particolare, contestando la fondatezza delle risposte date sul punto dalla sentenza impugnata, da un lato l’omessa considerazione che ciò che venne divulgato sarebbe stato, in realtà, null’altro che la notizia di un fatto - reato insussistente attesa la sentenza assolutoria e, dall’altro, l’impossibilità di configurare comunque, nella specie, la addebitata condotta di divulgazione posto che l’imputato ebbe ad indicare semplicemente un nome di battesimo e che comunque già prima della indicazione, da parte dell’imputato, del nome della persona offesa dal reato a suo tempo attribuito all’assistita dal medesimo, i genitori della vittima, in più occasioni pubbliche, avevano nella sostanza tenuto condotte e fatto affermazioni comunque idonee a consentire di risalire alla identità della minore -persona offesa. Quanto al primo punto, la prospettazione difensiva, con cui pare fondamentalmente sostenersi che l’epilogo assolutorio escluderebbe il reato, non è condivisibile anche a volere ritenere che la qualifica di persona offesa dei delitti di cui all’articolo 734 bis cod. penumero dipenda dall’esito del relativo processo, sì che ove, in ragione dell’assoluzione dell’imputato, si debba ritenere insussistente il reato, e, dunque, non individuabile alcuna persona offesa , risulta infatti dallo stesso contenuto del ricorso che la sentenza assolutoria intervenne molti anni dopo il momento in cui avvenne la enunciazione del nome della ragazza, certamente ancora qualificabile, in quella data, come persona offesa di un processo ancora in itinere. Quanto al secondo profilo, la sentenza impugnata ha ritenuto invece sussistente la condotta di divulgazione sul presupposto che, irrilevanti le precedenti condotte dei genitori ed in particolare quella del padre della vittima che, presentatosi con il proprio cognome, aveva indicato, in una trasmissione diffusa in scala nazionale su omissis , la figlia come coinvolta nei fatti di cui al processo di Valle delle Lucania , la sola enunciazione del nome di battesimo della ragazza da parte dell’imputato nella trasmissione televisiva omissis cui erano presenti, ancora un volta, i genitori avrebbe integrato la divulgazione delle generalità della vittima della persona offesa, rendendo in tal modo possibile per la generalità indifferenziata degli utenti, l’associazione immediata del nome con il cognome della minore e, quindi, per la prima volta, l’identificazione di essa . Sicché, pur avendo implicitamente la Corte distrettuale riconosciuto che il solo nome di battesimo l’unico pacificamente pronunciato dall’imputato senza aggiunte di sorta non avrebbe potuto integrare la nozione di generalità , il fatto sarebbe ugualmente stato commesso perché detto nome veniva ad associarsi al cognome già risultato indirettamente esternato in particolare dal padre della bambina allorquando, presentatosi all’incontro diffuso su omissis con il proprio cognome, egli aveva fatto chiaro riferimento ai fatti del processo di omissis . Ritiene tuttavia la Corte che tale conclusione sia il frutto di un ragionamento logico viziato se infatti, come pare ritenere la Corte, nessuna divulgazione, anche solo indiretta, delle generalità della persona offesa precedente alla data in cui l’imputato partecipò alla trasmissione televisiva vi fu pur in presenza della condotta tenuta dal padre al convegno diffuso via radio su scala nazionale, a maggior ragione non si comprende come la sola enunciazione del nome di battesimo del tutto chiaramente inidoneo di per sé a consentire specificamente l’individuazione di alcuna persona sia stata idonea a rendere pubbliche generalità che pubbliche non erano state rese neppure per effetto addirittura della indicazione del cognome della vittima e del suo collegamento con il processo di omissis . Né all’imputato, resosi responsabile della sola indicazione del nome di battesimo, può attribuirsi, come finisce per fare la sentenza per superare l’impasse, anche l’indicazione del cognome fatto in precedenza dal padre, non avendo tra l’altro i giudici di primo e di secondo grado mai precisato che C. fosse al corrente delle precedenti affermazioni fatte dal padre della ragazza durante il convegno trasmesso su omissis ed avendo inoltre la sentenza impugnata dato atto del fatto che C. , quel giorno, prese la parola a trasmissione già iniziata al contrario, la necessità di tale consapevolezza non poteva e non può laddove appunto all’imputato si faccia carico dello abbinamento del nome da lui pronunciato con il cognome pronunciato dal padre non imporsi ove si consideri che, con riguardo alla cooperazione nel delitto colposo, applicabile anche alle contravvenzioni colpose Sez. 3, numero 48016 del 05/11/2014, Galluzzi e altri, Rv. 261165 , ed essendo inconfigurabile l’ipotesi del concorso, applicabile ai soli reati dolosi, ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con quella altrui senza peraltro che tale consapevolezza investa, ovviamente, l’evento richiesto per l’esistenza del reato Sez. 4, numero 48318 del 12/11/2009, p.c. in proc. Gigli e altri, Rv. 245736 in altri termini, come costantemente chiarito da questa Corte, deve sussistere la reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto Sez. U., numero 5/99 del 25/11/1998, Loparco, Rv. 212576 . 3. In definitiva, apparendo emergente, dalla necessaria interpretazione secondo legge degli stessi dati fattuali contenuti nella sentenza, i presupposti della evidenza della mancanza di prova di sussistenza del reato ascritto, e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto ex articolo 620, comma 1, lett. I cod. proc. penumero , la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.