Denuncia il fidanzato, poi lo perdona e lo sposa: i reati restano

Pur non utilizzando il contenuto della querela, le dichiarazioni dibattimentali anche se riduttive in ordine a un litigio tra fidanzati, corredato da minaccia di tagliare la gola alla donna e impedimento di lasciare l’autovettura dell’uomo per interrompere la discussione, costituiscono ricostruzione sufficiente per affermare la responsabilità penale per i reati di minaccia aggravata e violenza privata.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 33804 del 5 agosto 2013. Il caso. Si parla tanto di femminicidio e di violenza nei confronti della donna e troppo poco delle dinamiche di coppia, degli aspetti psicologici, degli aspetti criminogenetici e criminodinamici, della necessità di ascolto e terapia in funzione preventiva. Questo sembra suggerire anche il caso di cui alla sentenza che si occupa di un condannato per i reati di violenza privata e minaccia aggravata commessi nei confronti della fidanzata. Secondo le ricostruzioni operate dal dibattimento l’imputato aveva invitato la fidanzata a salire in auto, l’aveva percossa e minacciata con un coltello, poi sequestrato dai Carabinieri quando lei cercò di scendere, lui volendo continuare il burrascoso litigio le impedì di allontanarsi, coartando la libertà della donna. Valore delle dichiarazioni della persona offesa. Il condannato era ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione per rilevare che vi era stata violazione di legge in quanto le dichiarazioni della persona offesa contenute nella querela erano state utilizzate dai giudici di merito per formulare il giudizio di responsabilità, contravvenendo alla disposizione che permette di utilizzare la querela ai soli fini del riscontro dell’esistenza della condizione di procedibilità. Durante il dibattimento la persona offesa aveva invece negato di essere stata costretta a restare nell’autovettura contro la propria volontà e questo dimostrerebbe, secondo il ricorrente, un travisamento della prova della commissione del reato di violenza privata e, conseguentemente, vizio di motivazione. Identiche censure venivano proposte in ordine al secondo reato contestato. Sempre secondo la tesi del ricorrente, in dibattimento, la vittima avrebbe negato di essere stata minacciata dal fidanzato. Una versione minimalista dell’accaduto. Successivamente alla denuncia, la persona offesa aveva sposato l’imputato e in dibattimento aveva reso una versione minimalista di quanto accaduto, ridimensionando i fatti. Affermava tuttavia che il fidanzato l’aveva afferrata per i capelli per costringerla a rimanere con lui in auto. Al di là del ritenuto utilizzo del contenuto descrittivo della querela, tale dichiarazione costituiva una ricostruzione sufficiente per affermare la responsabilità penale del prevenuto per il delitto di violenza privata, atteso che la condotta descritta aveva limitato significativamente la libertà fisica e morale della persona. Non solo. Anche la sorella della vittima aveva testimoniato e confermato il quadro di litigiosità in cui si inseriva la vicenda. La rappresentazione edulcorata e parziale della vicenda processuale contenuta nel ricorso non era dunque idonea a scardinare la chiara e puntuale ricostruzione operata dai giudici di merito in ordine all’integrazione degli elementi costitutivi dei reati di violenza privata e minaccia aggravata. Saldatura tra sentenza di primo grado e sentenza d’appello. Corretta anche la condanna per minaccia aggravata, in quanto la sentenza di primo grado aveva fondato il giudizio di responsabilità sulle dichiarazioni della persona offesa che riferiva in ordine alla minaccia di tagliarle la gola , proveniente dall’imputato, qualora lei lo avesse nuovamente denunciato. Il suggerimento di astenersi da attività di denuncia era stato accompagnato da un gesto eloquente con cui l’imputato mimava il proposito con un coltello che teneva in mano e che era stato rinvenuto dai Carabinieri nel veicolo dell’imputato e sequestrato. Vero è che la sentenza di appello, avverso cui è stato proposto ricorso in Cassazione, non riportava tale sequenza motivazionale contenuta nella sentenza resa dal Tribunale, tuttavia, la Suprema Corte ricorda il condiviso orientamento di legittimità, secondo cui, in tali casi, la struttura motivazionale della sentenza di secondo grado si salda con quella precedente in un unico corpo argomentativo, qualora i provvedimenti concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conclusioni e i motivi di gravame, come nel caso di specie, siano circoscritti nel prospettare circostanze esaminate e chiarite nella decisione di prime cure. Trattamento sanzionatorio. Variegati gli aspetti della censura del trattamento sanzionatorio praticato riferiti all’entità della pena, alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, della sospensione condizionale della pena, nonché mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria e mancata applicazione dell’indulto. Il motivo di ricorso è giudicato inammissibile dalla Cassazione che rileva come la pena sia stata applicata in misura prossima al minimo edittale e il diniego delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale si giustificavano con i precedenti penali, anche specifici, di cui l’imputato era gravato. Si tratta di criteri che identificano i canoni con cui si esercita il potere discrezionale del giudice nel definire il trattamento sanzionatorio e che si fondano sull’art. 133 c.p. Parimenti legittima era la mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, in quanto la richiesta formulata nell’atto di appello era generica e non motivata da elementi tali da motivare l’ulteriore mitigazione del trattamento. Non è possibile affrontare la questione della mancata concessione dell’indulto davanti al giudice di legittimità se non quando tale questione sia stata esaminata dal giudice di merito, così come nel caso di specie in cui il giudice di merito abbia omesso di pronunciarsi a riguardo, implicitamente assegnandone l’applicazione al giudice dell’esecuzione.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 8 marzo - 5 agosto 2013, n. 33804 Presidente Zecca Relatore Settembre Fatto 1. La Corte d'appello di Caltanissetta, con sentenza del 26-4-2012, in riforma di quella emessa dal Tribunale di Enna, in composizione monocratica, ha condannato B.M. a pena di giustizia per i reati di violenza privata e minaccia aggravata commessi in danno di M.O Contestualmente, ha disposto la correzione dell'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza di 1^ grado, che, condannando l'imputato per il reato di violenza privata, aveva fatto erroneo riferimento al capo e , invece che al capo c . Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dai giudici del merito, il B. in data omissis , dopo aver invitato la fidanzata a salire sulla sua autovettura, l'aveva percossa e minacciata con un coltello e le aveva impedito di scendere dalla vettura, volendo continuare con lei la burrascosa discussione avviata. A fondamento della decisione vi sono le dichiarazioni rese in istruttoria e a dibattimento dalla persona offesa e dalla di lei sorella M.E., nonchè il sequestro del coltello ad opera della polizia giudiziaria. 2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. Impellizzeri Antonio, avvalendosi di tre motivi. Col primo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, nonchè travisamento della prova in ordine al reato di violenza privata. Deduce che sono state utilizzate, per formulare il giudizio di responsabilità, le dichiarazioni della persona offesa contenute in querela, in violazione della norma che consente l'utilizzo della querela solo per verificare l'esistenza della condizione di procedibilità e della norma che consente l'utilizzo delle dichiarazioni rese in istruttoria solo per la verifica della credibilità del teste. Deduce che a dibattimento la donna ha negato di essere stata costretta a rimanere in auto contro la sua volontà. Col secondo lamenta, ancora una volta, violazione di legge e vizio di motivazione, nonchè travisamento della prova in ordine al reato di minaccia aggravata capo F . Deduce che la motivazione è del tutto assente e che anche in questo caso la donna ha negato di essere stata minacciata, nell'occasione, dall'imputato. Col terzo si duole, sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge, della mancata concessione delle attenuanti generiche e della concreta determinazione della pena, della mancata concessione della sospensione condizionale della pena e della mancata sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria corrispondente, nonchè della mancata applicazione dell'indulto. Diritto Il ricorso è infondato. 1. Il primo motivo di ricorso si fonda su una rappresentazione edulcorata e parziale della vicenda processuale, che non è idonea a scardinare la chiara e puntuale ricostruzione dei giudici di merito. Questi hanno chiarito - in maniera senz'altro corrispondente al contenuto e alla ratio dell'art. 610 c.p. - che la versione minimalista resa a dibattimento dalla M. - che nel frattempo si è sposata con l'imputato ed ha inteso ridimensionare il fatto - è comunque sufficiente a ritenere provata l'accusa, giacchè l'aver afferrato per i capelli la donna per costringerla a rimanere con lui nell'autovettura costituisce esercizio di violenza fisica che, limitando significativamente la libertà fisica e morale della persona, è idonea ad integrare il reato previsto dall'art. 610 c.p Non corrisponde al vero, quindi, che i giudici abbiano fondato il proprio convincimento sulle dichiarazioni contenute nell'atto di querela, avendo fatto esplicito ed esclusivo riferimento alle dichiarazioni dibattimentali della persona offesa, nonchè a quelle della sorella E., che ha confermato il quadro in cui la vicenda de quo si inseriva, caratterizzato da frequenti litigi tra i due. 2. Nemmeno corrisponde alla realtà processuale, quale emergente dal contenuto delle sentenze di merito, che i giudici abbiano condannato l'imputato senza prove per il reato di cui al capo F minaccia aggravata , emergendo chiaramente dalla sentenza di 1^ grado che anche la prova del reato suddetto è stata desunta dalle dichiarazioni della M., che ha parlato della minaccia, rivoltale dal B., di astenersi dall'ulteriormente denunciarlo, altrimenti le avrebbe tagliato la gola , mimando significativamente il gesto con un coltello che aveva in mano e che è stato sequestrato dai carabinieri nell'autovettura dell'imputato. E' vero che questa sequenza non viene riportata nella sentenza d'appello, ma sovviene, in questo caso, il principio di diritto affermato da questa Corte, in base al quale, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181 Sez 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, Rv.216906 Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145 . Ciò è stato affermato in casi in cui i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado, com'è dato riscontrare nella specie in cui l'appellante aveva riproposto la tesi, scartata motivatamente dal giudice di 1^ grado, che l'oggetto utilizzato dall'imputato per formulare la minaccia non fosse stato un coltello, ma un portachiavi . 3. L'ultimo motivo di ricorso è inammissibile, dolendosi il ricorrente della gravosità della pena, pure applicata in misura prossima al minimo edittale, e della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, motivatamente negate in considerazione dei precedenti penali, anche specifici. Vale a dire con riguardo a criteri che, avendo fondamento nell'art. 133 c.p., costituiscono legittimo riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio. E lo stesso dicasi per la mancata sostituzione della pena ex L. n. 689 del 1981, art. 53 e segg., motivata, oltre che nella maniera sopra detta, anche per l'assoluta genericità della richiesta formulata nell'atto dell'appello, che non aveva indicato gli elementi idonei a giustificare l'ulteriore mitigazione del trattamento. Quanto alla censura sulla mancata applicazione dell'indulto è sufficiente osservare che tale questione può essere sollevata nel giudizio di legittimità solo nel caso in cui il giudice di merito la abbia presa in esame e la abbia risolta negativamente e non, invece, quando abbia omesso di pronunciarsi, riservandone implicitamente l'applicazione al giudice dell'esecuzione, come verificatosi nella specie Cass. n. 536/07 n. 2333/95 . 4. Infine, non può essere dato corso alla richiesta del Pubblico Ministero d'udienza di declaratoria della prescrizione del reato contestato, originariamente, al capo G L. n. 110 del 1975, art. 4 , trattandosi di reato che è già stato dichiarato prescritto dal giudice d'appello. 5. In definitiva, il ricorso dell'imputato va rigettato, con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.