Non appare illogica la considerazione dei giudici di merito secondo cui tale condotta era di certo in sé idonea ad arrivare ad un più tragico finale, e dunque il tentativo era già compiuto, ove non fossero intervenute le persone presenti a bloccare l’energia scatenata del forsennato.
Con la sentenza numero 20201, depositata il 10 maggio 2013, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il quasi omicida. Il caso. Un uomo di 57 anni è esasperato. E’ del tutto scontento dell’andamento di una procedura esecutiva civile. Si reca allora nello studio dell’avvocato, una donna, cui si è affidato per seguire la causa. Facendo irruzione e proferendo minacce aggredisce l’avvocatessa, tentando di strangolarla e di buttarla giù dal balcone, fermato prontamente dai tre presenti collaboratori di studio. Voleva solo protestare! L’uomo, condannato nei primi due gradi di giudizio a 4 anni e 10 mesi di reclusione per tentato omicidio, ricorre per cassazione, sostenendo di essere stato lui violentemente allontanato dallo studio e, poiché il trascinamento verso la finestra, peraltro chiusa, sarebbe stato minimo e subito bloccato, la condotta da lui tenuta dovrebbe essere qualificata come semplice lesione personale, ex articolo 582 c.p La propria volontà sarebbe stata solo quella di protestare per l’andamento della vicenda giudiziaria in un momento di disperazione. La Suprema Corte, rileva l’inammissibilità del ricorso, che propone una mera lettura alternativa della vicenda. Continuava a gridare «ti ammazzo». I giudici di merito hanno ritenuto correttamente integrato il tentativo di omicidio da vari elementi. Durante tutta la vicenda, l’imputato ha ripetutamente pronunciato «ti ammazzo» se non fosse stato fermato dai presenti avrebbe quasi sicuramente portato a termine il proprio intento. Esasperazione esistenziale. Gli Ermellini rilevano come evidente che «il di lui stato di esasperazione esistenziale da un lato è chiave di comprensione soggettiva, dall’altro è sintomatico di una volontà decisamente risolutiva, definitiva, non meramente lesiva». La volontà interna animus necandi. Peraltro, anche a guardare l’effettiva intenzione dell’imputato, i giudici di merito hanno correttamente tenuto conto degli indici rilevatori della volontà interna, posta dall’agente a sostegno della finalità omicida, che devono essere letti secondo massime di comune esperienza e presi in considerazione in base alla regola indiziaria, «con obbligatoria considerazione unitaria che colleghi finalisticamente gravità, precisione e concordanza dei singoli elementi». Pertanto la condotta dell’imputato non può essere «parcellizzata per sminuire valore e significato dei singoli momenti aggressivi» è evidente il suo complessivo animus necandi. Per questi motivi, la Corte di Cassazione, rigetta il ricorso, confermando così la condanna.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 14 marzo – 10 maggio 2013, numero 20201 Presidente Giordano – Relatore Zampetti Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 10.05.2011 la Corte d'appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, riduceva la pena ad E.B.S.K. , a lui concesse attenuanti generiche, ad anni 4 e mesi 10 di reclusione per i reati, ritenuti in continuazione, di violazione di domicilio e tentato omicidio ai danni di P.A. , di professione avvocato, in essi assorbite le altre contestazioni, fatti commessi in omissis . Entrambi i giudici del merito ritenevano invero provato in fatto che l'E.B. , che era assistito dal predetto legale in una procedura esecutiva civile, avesse fatto irruzione nel suo studio e, proferendo gravi minacce, l'avesse aggredita tentando di soffocarla e di buttarla dal balcone, non riuscendo nell'intento per il pronto e congiunto intervento di alcuni collaboratori della P. . Tale condotta dell'imputato, che integrava i reati suddetti, era provata dalle concordi dichiarazioni della stessa parte offesa e dei testi L. , C. , R. e V. , a vario titolo presenti o intervenuti nella vicenda, mentre era ritenuta non credibile la versione dell'imputato che aveva dato una ricostruzione della complessa vertenza sottostante ed aveva sostenuto di essere stato violentemente allontanato dal personale dello studio mentre lui voleva solo avere chiarimenti dalla P. . 2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l'anzidetto imputato che motivava l'impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, argomentando - in sintesi - nei seguenti termini - la volontà di esso ricorrente era solo quella di porre in essere, in un momento di disperazione, una protesta per l'andamento della vicenda giudiziaria - la stessa parte offesa aveva escluso che l'intenzione dell'aggressore fosse quella di strangolarla, mentre il trascinamento verso la finestra, peraltro chiusa, era stato minimo, subito bloccato dagli intervenuti - doveva dunque essere esclusa la stessa idoneità degli atti compiuti rispetto al ritenuto fine omicidiario - in definitiva il fatto doveva essere qualificato ex articolo 582 Cod. Penumero per le modeste lesioni in concreto arrecate. Considerato in diritto 1. Il ricorso, manifestamente infondato in ogni sua deduzione, deve essere dichiarato inammissibile con tutte le dovute conseguenze di legge. Va dapprima rilevato, in linea generale, come l'impugnazione proposta dall'imputato in realtà si caratterizzi - al di là della sua formale impostazione - per essere sostanzialmente, quanto inammissibilmente, versato in fatto, posto che si radica in una lettura alternativa e soggettiva della vicenda piuttosto che in una effettiva denuncia di vizi di legittimità, siano essi violazione di legge o presunte incongruenze della motivazione. 2. Vagliando, invero, i vari argomenti proposti dall'imputato, risulta del tutto infondato il primo motivo di ricorso che, invocando e ribadendo i presunti limiti della propria intenzione, ricollegandoli ad una generica volontà di protesta contro l'operato della professionista, fino ad allora sua legale di fiducia, da un lato si risolve nella riproposizione della versione difensiva decisamente riduttiva quanto autoreferenziale, a fronte di risultanze inequivoche di ben più robusta consistenza, dall'altro si rende pressoché irrilevante rispetto alla realtà della condotta in concreto realizzata, quale accertata da entrambi i giudici del merito. Quanto al mero profilo della volontà esternata, dunque, varrà ricordare come ai comportamenti concludenti oggettivamente realizzati si sia aggiunta la ripetuta affermazione, da parte di esso E.B. , di volere la morte della P. , ben attendibilmente riferita dai testi presenti tutti hanno ricordato come l'imputato accompagnasse i suoi gesti con la frase, replicata in continuazione, ti ammazzo . Pari giudizio di totale e palese infondatezza deve darsi anche del secondo motivo di ricorso e delle considerazioni difensive connesse , posto che la valutazione di correttezza della qualifica giuridica di tentato omicidio è stata resa, in sede di merito, non già sulla base della mera condotta di aggressione al collo della P. effettuata usando l'avambraccio , ma nell'ottica complessiva dell'intera azione posta in essere, chiaramente idonea quanto univocamente diretta all'esito maggiore. È dunque del tutto infondato il ricorso laddove tenta di parcellizzare la condotta dell'imputato per sminuire valore e significato dei singoli momenti aggressivi. Pienamente corretta è stata, di contro, la considerazione unitaria che si impone perché il giudizio non tradisca gli elementi sintomatici rivelatori dell'animus necandi, quali da sempre insegnati dalla giurisprudenza di legittimità. In proposito va infatti ricordato come gli indici rivelatori della volontà interna, posta dall'agente a sostegno della finalità omicidiaria, da leggere secondo massime comuni d'esperienza la reiterazione della condotta aggressiva, gli strumenti usati, le zone vitali attinte, la manifestazione del proposito, l'adeguatezza del movente, ecc. , debbano essere presi in considerazione secondo la regola indiziaria, con obbligatoria considerazione unitaria che colleghi finalisticamente gravità, precisione e concordanza dei singoli elementi. Ciò posto, non ha evidentemente pregio il tentativo del ricorrente di sminuire la valenza dell'ultima fase dell'aggressione il tentativo di trascinare la donna sulla porta finestra del balcone per gettarla nel vuoto , proposto sul piano dell'idoneità dell'azione, sia per la non ammissibile divisione atomistica della complessiva condotta, sia perché non appare illogica la considerazione dei giudici del merito, ampiamente e congruamente motivata, secondo cui tale condotta era di certo in sé idonea e dunque il tentativo era già compiuto ove non fossero intervenute le persone presenti ben tre a bloccare l'energia scatenata del forsennato E.B. . È del tutto evidente, invero, che il di lui stato di esasperazione esistenziale da un lato è chiave di comprensione soggettiva, dall'altro è sintomatico di una volontà decisamente risolutiva, definitiva, non meramente lesiva. Tanto induce infine la completa infondatezza della censura conclusiva dell'imputato in ordine alla qualificazione giuridica, dovendosi invece ritenere ineccepibile - posto l'indiscutibile accertamento in fatto, ritenuta l'idoneità della complessiva condotta e valutata corretta la lettura dei sintomi della finalità perseguita - l'inquadramento ex articolo 56 e 575 Cod. Penumero 3. In definitiva il ricorso, manifestamente infondato, deve essere dichiarato inammissibile ex articolo 591 e 606, comma 3, Cod. proc. penumero . Alla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell'articolo 616 Cod. proc. penumero , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 mille in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato v. sentenza Corte Cost. numero 186/2000 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 mille in favore della Cassa delle Ammende.