Superior stabat lupus: XXXIII Congresso Forense

L’Avvocatura italiana si dà appuntamento il 6 – 7 – 8 ottobre a Rimini per confrontarsi su percorsi alternativi alla giurisdizione, per discutere sulla rappresentanza della categoria, per riflettere sulla professione. Vediamo come ci arriviamo e facciamo qualche pronostico su come ne usciremo.

Prendo il via dalla favola di Esopo il lupo e l’agnello. Un lupo vide un agnello presso il torrente che beveva e gli venne voglia di mangiarselo con qualche bel pretesto. Standosene là a monte, cominciò quindi ad accusarlo di insudiciare l’acqua, cosicché egli non poteva bere. L’agnello gli fece notare che, per bere, esso sfiorava appena l’acqua con il muso e che, d’altra parte, stando a valle, non gli era possibile intorbidare la corrente a monte. Venutogli meno quel pretesto, il lupo allora gli disse ma tu sei quello che l’anno scorso ha insultato mio padre. E l’agnello a spiegargli che a quella data egli non era ancora venuto al mondo. Bene, concluse il lupo, se tu sei così bravo a trovare delle scuse, io non posso mica rinunciare a mangiarti. La favola mostra che contro chi ha deciso di fare un torto non c’è giusta difesa che valga. Multa paucis. Come ha scritto recentemente il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Remo Danovi, per tentare una soluzione bisogna ripartire dai principi fissati dalla legge professionale 247/2012, che assegna in via esclusiva al CNF e, sul piano locale, ai singoli COA la rappresentanza istituzionale e anche una funzione sociale, negli ambiti della formazione, della giurisdizione e dell’educazione alla legalità. Poi c’è il Congresso, massima assise dell’Avvocatura italiana che rispetta identità e autonomia di ogni componente associativa ed elegge l’organismo chiamato a dare attuazione ai suoi deliberati. Dunque un organismo per definizione unitario, che non s’identifica con il CNF né si sostituisce alle associazioni, ciascuna delle quali conserva identità e autonomia. L’Organismo dà voce all’unità raggiunta in sede congressuale, cioè alla volontà politica dell’Avvocatura, espressa dai delegati al Congresso secondo le maggioranze stabilite, sui temi – indicati dalla stessa legge – della giustizia, dei diritti fondamentali dei cittadini, della professione forense. Discutiamo dunque giustamente di rappresentanza, ma il vero obiettivo resta l’unità dell’Avvocatura. Dovremmo tutti augurarci, conclude Remo Danovi, che il Congresso di Rimini, e soprattutto il dopo-congresso, non falliscano questo obiettivo. Al Congresso sulle varie mozioni, che saranno presentate con il sostegno di almeno 50 delegati congressuali e avvallate dalla Commissione di verifica, voteranno i delegati congressuali. Ma chi rappresentano costoro? I delegati congressuali sono stati eletti in altrettante assemblee straordinarie convocate sui territori dai COA di riferimento. Ma la partecipazione al voto è stata molto bassa. Dai dati in mio possesso solo Trani, Cagliari, Campobasso, Siracusa, Cosenza, Taranto, Cassino hanno superato la percentuale di affluenza del 30%. Ne consegue che i delegati congressuali non rappresentano più del 30% dell’Avvocatura italiana che si compone di 260.000 avvocati, mentre al voto sono andati soltanto 78.000 avvocati, cioè meno di un terzo dell’intero. E già questo è un primo problema. Poi va detto che la loro elezione, salvo qualche rara eccezione, come ad esempio a Napoli, non è avvenuta su programmi, magari alternativi tra loro. Eppure ai delegati del XXXIII Congresso Nazionale Forense è assegnato il compito di dare attuazione al dettato dell’articolo 39 della legge professionale. Ne consegue che ai Delegati è stata data una delega in bianco. Nelle more si è riunita l’agorà degli Ordini, un organismo che non esiste formalmente e che sulla rappresentatività ha dettato la linea cd “Paparo” che, per dirla in breve, cerca di riunire la rappresentanza istituzionale e quella politica nel Consiglio Nazionale Forense senza considerare che, come giustamente ha fatto rilevare da MGA e da altri, la rappresentanza politica, a differenza di quella istituzionale, non è suscettibile di riconoscimento né legislativo né pattizio, ma deve essere conquistata sul campo con la conseguenza che lo svolgimento da parte del Consiglio Nazionale Forense di funzioni politiche può e deve essere legittimato dalla sua elezione diretta da parte degli avvocati. Sulla ultima bozza che gira, cliccabile in allegato, il Collega Giovanni Savigni di Palermo ha scritto «Proviamo a fare il punto a meno di 10 giorni dal Congresso Forense. Il CNF vuole essere l’unico vero rappresentante dell’Avvocatura, ma allo stato ciò non gli è consentito né dalla legge professionale, che pur affidandogli enormi competenze, gli ha attribuito la sola rappresentanza istituzionale, né dalla sua stessa composizione, per non parlare della presenza di funzioni giurisdizionali. Per aggirare l’ostacolo, il CNF ha deciso di rimodellare l’organismo politico di rappresentanza, che l’articolo 39 L.P. vuole diretta emanazione del Congresso, dandolo in subappalto agli ordini, specie a quelli metropolitani, che ovviamente non aspettano altro. Si giustifica tale impostazione col fatto che le elezioni dei COA sono democratiche e partecipate, dimenticando che due terzi dei Consigli sono stati eletti con un regolamento illegittimo e l’altro terzo è in prorogatio da 3 anni ma questi sono dettagli. E così, prima viene depotenziato l’organismo attualmente vigente, con l’elezione di un’assemblea e di una dirigenza inadeguate, poi si crea una struttura parallela battezzata “l’Agorà degli ordini”, infine si cerca di costituire un nuovo organismo che abbia grosso modo le forme dell’Agorà e il gioco è fatto. Per raggiungere questo scopo, l’incarico di redigere lo statuto del costituendo organismo viene affidato al Presidente dell’Ordine di Firenze, non a caso di notoria provenienza associazionistica nasce così’ la “bozza Paparo”, poi soggetta a mediazioni e limature che io, con ardita crasi, ho ribattezzato “paparozza”. Tale documento prevede - una riduzione di circa 300 unità del numero dei delegati elettivi al congresso, che passano da 813 a 517, ferma restando la presenza dei 139 presidenti degli ordini quali delegati di diritto - la possibilità di esprimere un numero di preferenze pari, oggi, ai ¾ degli eligendi prima erano 2/3 - una ancor più sensibile riduzione dei componenti dell’assemblea del costituendo organismo, che passano da 88 a una cinquantina - l’eliminazione delle incompatibilità tra la carica di presidente o consigliere dell’ordine e quella di componente del costituendo organismo che viene invece mantenuta per il solo coordinatore . Tale sistema presta il fianco a numerose critiche perché - da un lato, mentre non tocca la posizione degli ordini più piccoli che hanno comunque diritto a una rappresentanza e lascia invariato il peso degli ordini più grossi, mette in seria difficoltà i ben 65 ordini “medi” tra 800 e 3000 iscritti, complessivamente circa centomila colleghi i quali – con riferimento ai soli delegati elettivi - passano dal 42 al 33% della platea congressuale ma soprattutto, a parte gli ordini distrettuali, vedono drasticamente ridursi gli spazi di rappresentanza nel nuovo organismo - in queste condizioni, diventa più difficile l’elezione di delegati al congresso di matrice associazionistica o comunque non ordinistica, sia per la riduzione dei numeri, sia per la modifica del voto limitato, con la conseguenza che le associazioni per partecipare al congresso dovranno per forza di cose stipulare accordi locali col COA, sacrificando la loro autonomia e comunque con scarse possibilità di entrare nell’assemblea del nuovo organismo tra l’altro sparisce la norma che consentiva ai presidenti delle associazioni o loro rappresentanti di intervenire ai lavori dell’assemblea, limitandosi ad una mera consultazione degli stessi “ove ritenuto” - cosa ancora più grave, il nuovo organismo non ha più un presidente ma un coordinatore, in un contesto in cui possono far parte dell’assemblea – e magari della giunta - presidenti di ordini metropolitani o di potenti unioni regionali, che di fatto detteranno la linea a quello che appare poco più di un mero portavoce - a ciò si aggiunga che i costi per il funzionamento del nuovo organismo sono a carico del CNF, sia pure con gestione separata, e che i componenti dell’assemblea hanno diritto unicamente al rimborso delle spese di viaggio e soggiorno principio condivisibile, ma sconfessato da altre recenti e controverse decisioni - e come se non bastasse, la “paparozza” prende tutte le precauzioni per blindare i congressi anche nel futuro, a partire dalla convocazione triennale e non più biennale sino ad arrivare alla presentazione preventiva delle mozioni e alla loro obbligatoria attinenza al tema congressuale, ovviamente scelto dai “padroni del vapore”. Insomma in queste condizioni il nuovo organismo sarà tutto fuorché una rappresentanza politica autonoma, forte ed autorevole, idonea a realizzare la sintesi delle molte voci di cui ormai si è dotata l’avvocatura. Non si può negare che l’attuale modello di rappresentanza abbia manifestato gravi limiti, visto che è da vent’anni che si cerca invano di riformarlo, e probabilmente gli ultimi due mandati hanno fatto emergere in maniera drammatica problemi latenti da parecchio tempo. Tuttavia la soluzione proposta appare un rimedio peggiore del male, facendo sbiadire anche le poche novità positive, come l’ultrattività dei delegati congressuali. Le altre proposte sul tavolo, pur mosse da nobili principi e dotate di alcuni spunti interessanti, sembrano voler dare una mera rinfrescata all’assetto attuale e comunque ammettono, contingentandola, la presenza diretta degli ordini nel nuovo organismo ciò a prescindere dal fatto che verosimilmente non dispongono dei numeri per l’approvazione in sede congressuale. Peraltro non è affatto detto che la “paparozza” riesca nell’intento perché dovrà fare i conti coi soliti assenti al momento del voto e probabilmente con una nutrita batteria di franchi tiratori, specie tra i delegati di provenienza associativa il che comporterebbe il mantenimento dell’attuale situazione di stallo. Le responsabilità di tutto ciò sono molteplici, perché alla bulimia degli ordini e del CNF si contrappone l’ignavia della base, poco coinvolta nelle elezioni locali, e la carenza di progettualità delle associazioni, incapaci di individuare un modello alternativo condiviso e che non partisse dalla certificazione dell’esistente. La crisi della rappresentanza è sotto gli occhi di tutti, ma ad essa si può porre rimedio solo con una maggior dose di democrazia e di coinvolgimento. In linea di principio, non avrei da obiettare ad una rappresentanza integralmente consegnata ad un CNF radicalmente ripensato nella composizione e nell’elettorato attivo e passivo, previo scorporo delle funzioni giurisdizionali da affidare ad autonoma e distinta sezione del Consiglio, mantenendo così la giurisdizione speciale. Ma in attesa che si realizzi tale obiettivo, bisogna costituire un organismo politico veramente forte e rappresentativo, che non sia sbilanciato verso una sola parte del mondo forense. E’ chiaro che il disegno della “paparozza” sarebbe frustrato anche solo dal mantenimento delle attuali incompatibilità, peraltro in coerenza col dettato normativo. Ma per fare veramente quel salto di qualità di cui l’Avvocatura ha bisogno ci vuole di più. E in questo contesto l’unica cosa a cui, coi miei limiti, riesco a pensare, è l’elezione diretta in sede congressuale del Presidente dell’organismo non coordinatore! , di quello che potrebbe essere, come ha detto in passato gente molto più autorevole di me, “il presidente degli avvocati italiani” e che avrebbe così la forza e la legittimazione per sedere ai tavoli della politica a fronte alta e a nome dell’intera categoria. Del resto, se il Congresso Forense è la massima assise dell’Avvocatura italiana, perché non dovrebbe esso stesso scegliere la persona chiamata a guidare l’attuazione dei suoi deliberati? Ovviamente aspetto osservazioni e critiche, ringraziando comunque chi avrà la pazienza di leggere questo lungo papiro o papirozzo . Lunga vita all’Avvocatura italiana!» Al Congresso Forense di Rimini parteciperanno molti avvocati pensionati. Mi domando che cosa facciano al Congresso Forense di Rimini salvo che vogliano proporre la riliquidazione delle pensioni retributive con il sistema di calcolo contributivo. Perché dico questo? Perché in un recentissimo intervento pubblico sulla newsletter di Cassa Forense, l’attuario interno, dott.ssa Giovanna Biancofiore, ha documentato in maniera ineccepibile come stanno cambiando i numeri dell’Avvocatura italiana. Sulla base di grafici con i quali ha documentato il suo articolo e che vi invito a valutare, le previsioni ci indicano che nel 2050, tempo relativamente breve quando si parla di equilibri finanziari, la popolazione forense avrà una struttura per età simile a quella riscontrata oggi nella popolazione italiana con un numero di giovani pari, se non inferiore, al numero di anziani. Tale situazione deve essere opportunamente affrontata per evitare condizioni sfavorevoli alla salvaguardia degli equilibri previdenziali della Cassa Forense, sistema in cui le pensioni vigenti sono pagate con i contributi versati da chi è in attività. È opportuno dunque, continua l’attuario interno di Cassa Forense, che le politiche di intervento a sostegno della garanzia della qualità professionale vengano affrontate nella consapevolezza delle descritte caratteristiche demografiche ed economiche della categoria e di quali potenziali cambiamenti essa sarà in futuro sottoposta. È evidente, e con questo concludo, che l’uso della leva reddituale per sfoltire il numero degli avvocati italiani si pone nettamente in contrasto con questi obiettivi. Come ne usciremo? È possibile con la dittatura di una minoranza salvo che con il telecomando si ritrovi la tanto attesa unità. Sulla necessarietà di una rimodulazione del Welfare. Questo quadro sembra confermativo della necessarietà di por mano per tempo ad una rimodulazione del Welfare, annunciata e non «mascherata», che consenta l'elaborazione del progetto di vita all'inizio, quando è ancora possibile apportarvi correttivi, e non imponga invece modifiche finali, quando la sola concretizzabile è la povertà. Che ciò sia difficilmente contestabile lo confermano gli interventi normativi dell'ultimo decennio, tutti orientati a misure restrittive della spesa e dei diritti, specie nei settori pensionistico e sanitario nonché insieme la constatazione che il nostro Welfare non è riuscito a dare risposte al fenomeno della transizione al post-industrialismo, che nel contesto dell'integrazione europea, ha determinato solo un decremento della protezione sociale. Emblematica in questa prospettiva è la vicenda kafkiana degli esodati, salvaguardati e non, con la rateizzazione delle tutele. In conclusione, l'emergenza che si fa sistema sembra, dunque, imporre una rimodulazione delle funzioni assolte dalla spesa previdenziale, a mio avviso possibile, volendo declinare solidarietà ed eguaglianza, attraverso una «riscrittura» e non una «rilettura» dell'articolo 38 Cost., a mezzo di un approdo ad un Welfare universalistico. Tornando sul Welfare, Roberto Pessi, settembre 2016 .

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