Docente denuncia le pressioni del dirigente su una mamma. Legittima la definizione ""velate minacce"": non c'è reato

Annullata la sentenza di condanna emessa in Appello. Nessun fondamento per l'accusa nei confronti dell'insegnante, che è salvo. Gli incontri denunciati in Procura si erano tenuti effettivamente.

Rapporti conflittuali a scuola? Dirigente didattico e docente ai ferri corti? Situazioni che possono proporsi, anche con una certa frequenza Fino ad arrivare in un'aula di Tribunale. Dove, però, l'accusa di calunnia - nei confronti del docente, in questo caso - per aver segnalato, con una denuncia alla Procura della Repubblica, presunti abusi del dirigente didattico non regge a un vaglio più attento neanche il riferimento a velate minacce nei confronti della mamma di un allievo - coma chiarisce la Cassazione, con sentenza numero 36719, sezione sesta penale, depositata ieri - è considerato elemento sufficiente.Uomini contro. Il contesto è quello di una scuola elementare. Lì, dirigente didattico e insegnante di sostegno si scontrano a più riprese. Tra gli altri episodi, anche un provvedimento disciplinare avviato dal dirigente, e appoggiato, peraltro, dal Provveditore.Il vero casus belli, però, è una doppia denuncia alla Procura della Repubblica, presentata dal docente e finalizzata a segnalare il comportamento del dirigente didattico nei confronti della mamma di un allievo, ovvero avere spinto la donna, con velate minacce , a ritrattare le accuse rivolte allo stesso dirigente e relative a presunti maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile .Proprio l'aver utilizzato quell'espressione, ovvero velate minacce , fornisce sostanza - secondo Tribunale e Corte d'Appello - all'accusa di calunnia. Per essere più chiari, alla luce delle denunce alla Procura, viene affermato che il docente ha accusato, pur sapendolo innocente , il dirigente didattico del reato di violenza privata ai danni della madre di un alunno della scuola, portatore di handicap, costringendola, attraverso minacce, a firmare una lettera con cui negava di avere redatto dodici precedenti missive, contenenti una serie di accuse rivolte proprio al dirigente scolastico, in cui riferiva di veri e propri maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile .La 'scoperta' della buonafede. Di fronte alla doppia condanna, in primo e in secondo grado, il docente gioca l'ultima carta, quella del ricorso in Cassazione, per 'alleggerire' la propria posizione, e per rivendicare la bontà del proprio operato.Elementi chiave, secondo il ricorrente, sono le dichiarazioni della donna e del dirigente scolastico, e il resoconto del loro 'faccia a faccia', che aveva poi spinto la donna a ritrattare le proprie accuse. Tutto ciò per ricostruire, ovviamente, la buonafede del docente.Il riferimento, in particolare, è alla valutazione dei giudici di Appello, che avevano attribuito veridicità alla versione dei fatti sostenuta dalla donna, ovvero l'affermazione che il docente sarebbe intervenuto nella determinazione dell'intero contenuto delle dodici missive finalizzate a denunciare i maltrattamenti subiti dall'allievo e poi smentite dalla stessa donna. In questa ottica, l'intervento del docente e la falsità delle dodici lettere erano elementi sufficienti per attestare la condotta calunniosa nei confronti del dirigente scolastico.Il nodo gordiano. Ma l'elemento di snodo della vicenda, per i giudici di piazza Cavour, è rappresentato la valutazione delle presunte minacce che il docente aveva attribuito al dirigente scolastico in un colloquio con la donna.A questo proposito, viene chiarito, il colloquio tra il dirigente e la mamma dell'allievo c'è stato effettivamente, e in quest'occasione il dirigente aveva annunciato l'intenzione di ricorrere all'autorità giudiziaria per tutelare la sua posizione, essendosi ritenuto diffamato dalle missive e aveva sollecitato la donna a redigere una lettera di smentita , come poi effettivamente verificatosi.Secondo i giudici della Cassazione, è evidente la pressione esercitata dal dirigente sulla donna, e, peraltro, proprio la Corte d'Appello era arrivata ad ammettere che potesse esserci stata una coartazione sulla donna. Di conseguenza, l'espressione velate minacce può essere riferita all'azione di pressione compiuta dal dirigente, e quindi non può essere considerata una falsa accusa , perché essa corrisponde alla realtà, a ciò che è accaduto negli incontri tra il dirigente e la donna.Alla luce di questa visione, per i giudici di piazza Cavour l'accusa di calunnia non può reggere. Ecco perché la sentenza di condanna emessa in Appello viene annullata, chiarendo che il fatto non sussiste .