Critica aspramente gli atti appena compiuti dal pubblico ufficiale: è semplice ingiuria

Pur dovendosi ritenere sufficiente che la violenza o la minaccia usata dall’agente sia potenzialmente idonea ad impedire o ad ostacolare il compimento di un atto di ufficio o di servizio, costituisce un dato altrettanto incontroverso che il dolo specifico del reato di cui all’art. 337 c.p. debba concretizzarsi nel fine di impedire od ostacolare l’attività propria di un pubblico ufficio o servizio in atto, di tal che il contegno che non risulti tenuto a tale scopo, sebbene eventualmente illecito ad altro titolo, non perfeziona il delitto in esame.

Con la sentenza n. 36367 del 5 settembre 2013, la Corte di Cassazione, sulla scia di un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ribadito che per la configurazione della fattispecie di cui all’art. 337 c.p. è necessario che la violenza e la minaccia siano realizzate per impedire il compimento di un atto specifico da parte del pubblico ufficiale. Il caso. Non pare inutile, viste le peculiarità del caso, considerare gli antefatti che hanno portato la Cassazione ad annullare senza rinvio la condanna della Corte di appello confermativa, in punto di responsabilità, di quella di primo grado. E’ accaduto che l’imputato, coniuge di una non più giovane signora che era stata sanzionata per delle violazioni del codice della strada, fosse andato in aiuto della propria moglie, lamentando, a multa effettuata, il comportamento tenuto dai pubblici ufficiali e così sostenendo che essi si fossero comportati in maniera arrogante e maleducata. Dalla ricostruzione dibattimentale è risultato pacifico che l’intervento cavalleresco ma poco galante dell’accusato fosse avvenuto dopo che era stato redatto il verbale e che quindi doveva escludersi una sua partecipazione nel corso della formazione di tale atto. Ciò nonostante tutte le Corti di merito adite avevano concordemente ritenuto colpevole l’imputato del reato di cui all’art. 337 c.p., sostenendo che si fosse certamente configurata la fattispecie criminale in questione. Di fronte a simili argomenti, la difesa ha correttamente proposto ricorso per cassazione, trovando finalmente compiuta attenzione delle proprie ragioni dopo oltre 7 anni dalla commissione del fatto. Non integrano il reato di resistenza le espressioni di semplice ingiuria rivolte al pubblico ufficiale. Come accennato l’Alta Corte ha condiviso nella sostanza le articolate lamentele della difesa, secondo cui non poteva essere inquadrato il caso de quo nell’ambito dell’art. 337 c.p. proprio perché l’atto del pubblico ufficiale era stato già compiuto, facendo leva sulla più recente e persuasiva linea interpretativa formatasi sul punto. Si è così ribadito che l’opposizione deve essere rivolta contro il compimento di un atto specifico del pubblico ufficiale e non genericamente al pubblico ufficiale nel mentre si trova in servizio, non potendosi ricollegare la ratio punitiva de qua alla salvaguardia della pubblica funzione astrattamente esercitata o intesa. Da ciò discendono due corollari e precisamente che - non ogni forma di contestazione personale, seppur minacciosa, al pubblico ufficiale, che non sia riferita all’atto che questi sta compiendo, comporta la commissione del reato di resistenza in questione - la fattispecie ex art. 337 c.p. non può essere ricostruita e sussunta in una prospettiva di pericolo presunto, occorrendo che la violenza e la minaccia siano reali e connotino in termini di effettività causale la loro idoneità a coartare o ad ostacolare l’agire del pubblico ufficiale. Così impostato il quadro logico e testuale di riferimento, è evidente come ha avuto modo di sottolineare la Suprema Corte che non sono idonee ad attuare il reato di resistenza le espressioni di semplice ingiuria o monito rivolte al pubblico ufficiale, allorquando le stesse non denotino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto di ufficio, ma si traducano piuttosto in una palese forma di critica e di obiezione alla anteriore attività da lui espletata . Da qui l’ovvia considerazione che nella specie le parole proferite dall’imputato contro i pubblici ufficiali non potevano essere usate per affermare una sua responsabilità ex art. 337 c.p. ma al più per considerarle come ingiurie ex art. 594 c.p., essendo stato ormai abrogato il reato di oltraggio a pubblico ufficiale ex art. 314 c.p. . Stando così le cose, mancando una querela, la Corte non ha potuto che annullare senza rinvio la sentenza impugnata. Concludendo . Le massime e l’argomentazione espresse dalla Corte di legittimità sono pienamente convincenti e perfettamente aderenti al dato normativo e soprattutto alla finalità della norma incriminatrice di cui si tratta, che certamente non può essere abusivamente usata per punire ogni atto di valutazione o di contestazione degli atti compiuti dal pubblico ufficiale, quand’anche la situazione risulti accesa e tesa. Vi è solo da chiedersi se in effetti fosse così necessario perseguire l’imputato per quel che egli aveva fatto ed attendere che venisse proclamata l’insostenibilità della tesi d’accusa ad anni di distanza dal tempus in cui fu compiuto l’atto contestato. Si tratta chiaramente di quesiti irrisolvibili nello stato attuale delle cose, poiché presupporrebbero, per essere adeguatamente affrontati, principi nuovi e nuovi indirizzi normativi. E’ bene, quindi, fermarsi qui, anche per evitare che ogni ulteriore critica possa essere male interpretata o capziosamente usata. Dopo tutto trattando di legge penale, un po’ di sana prudenza nel dire non è mai troppa.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 giugno - 5 settembre 2013, n. 36367 Presidente Di Virginio Relatore De Amicis Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 18 luglio 2012 la Corte d'appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto - in riforma della sentenza emessa il 30 novembre 2011 dal Tribunale di Taranto, ha sostituito la pena detentiva inflitta a L.A. per il reato di cui all'art. 337 c.p., accertato in data 10 dicembre 2005, con la corrispondente pena pecuniaria di Euro 4.560,00 di multa, eliminando la disposta sospensione condizionale della pena e confermando nel resto l'impugnata pronuncia. 2. Avverso la predetta sentenza della Corte d'appello di Lecce ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo otto motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente riassunto. 2.1. Con il primo motivo si chiede l'assoluzione ai sensi dell'art. 129 c.p.p. per insussistenza del fatto, ex artt. 606, lett. b , 620, lett. a , 531, comma 1 e 521 c.p.p., emergendo chiaramente dall'imputazione che il ricorrente mosse esclusivamente critiche e rimostranze agli operanti che avevano maltrattato la moglie nell'atto di redigere un verbale di contravvenzione per infrazioni al codice della strada dal thema decidendum, pertanto, già risultava esclusa ogni ipotesi di minaccia. 2.2. Inosservanza della legge penale riguardo al reato di cui all'art. 337 c.p., poiché il L. giunse sul posto quando la contestazione era già avvenuta ed il verbale di infrazione era già stato redatto, limitandosi egli, per tale motivo, a presentare le sue proteste per il trattamento irriguardoso tenuto nei confronti della moglie, tanto che fu redatto un diverso verbale per dare conto di tutte le censure avanzate dall'imputato egli, pertanto, non potè materialmente incidere sul compimento dell'atto dell'ufficio, poiché tale atto era già stato compiuto. 2.3. Difetto di motivazione ex art. 606, lett. e , c.p.p., riguardo all'ipotizzata sussistenza della minaccia ai pubblici ufficiali, essendo rilevabili nel caso di specie solo osservazioni critiche ad essi rivolte in ragione del loro comportamento, avvertito come scorretto dalla moglie, che chiese il soccorso del marito a mezzo del telefono l'imputato, dunque, non circolava a bordo dell'autovettura guidata dalla moglie, ma sopraggiunse in loco solo in un secondo momento, circostanza, questa, che avrebbe dovuto essere approfondita e comunque motivata, poiché sintomatica di una condotta sgarbata o, quanto meno, inusuale da parte degli operanti, sì da rendere legittimo l'intervento del ricorrente a seguito della richiesta di aiuto da parte della moglie. 2.4. Violazione degli artt. 516, 518, 520, 521 e 522 c.p.p., in rapporto all'art. 620, lett. f , c.p.p., evocandosi nella motivazione dell'impugnata pronuncia fatti non contestati di presunta minaccia, di cui non v'è cenno nell'originaria imputazione, né in contestazioni suppletive di cui il processo è assolutamente privo. 2.5. Violazione degli artt. 513 e 507 c.p.p., in rapporto all'art. 606, lett. c , c.p.p., per l'inosservanza di norma processuale relativa al mancato espletamento della prova testimoniale assolutamente necessaria della moglie del ricorrente, ed alla mancata considerazione del verbale da lui sottoscritto nell'occasione, in quanto esplicativo della sua reale volontà di protesta. 2.6. Violazione di legge, carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della scriminante del fatto ingiusto del pubblico ufficiale, considerato che la moglie dovette chiedere il soccorso del marito proprio a causa del comportamento tenuto dai verbalizzanti. 2.7. Violazione dell'art. 606, lett. c , c.p.p., in rapporto all'art. 530 c.p.p., riguardo alla carente e contraddittoria trattazione dell'elemento psicologico nella motivazione delle pronunce di merito, atteso che la condotta del ricorrente è stata orientata non verso l'impedimento delle attività dei poliziotti, ma verso la critica del loro operato. 2.8. Violazione dell'art. 606, lett. b e lett. e , c.p.p., nonché dell'art. 605 c.p.p., in relazione all'art. 341 c.p. ed all'art. 18 della L. 25 giugno 1999, n. 205, per carenza di motivazione riguardo alla corretta configurazione del reato in termini di oltraggio -fattispecie depenalizzata per effetto della su indicata novella legislativa - benché la Corte d'appello, così come il Giudice di primo grado, fossero stati sollecitati a pronunziarsi al riguardo. Considerato in diritto 3. Il ricorso è fondato e va conseguentemente accolto, sia pure nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati. 4. Occorre preliminarmente rilevare che, alla luce della consolidata linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, la condotta che realizza la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 337 c.p. consiste nell'opposizione al pubblico ufficiale mentre questi compie un atto del proprio ufficio, atto che deve avere una propria specificità e deve poter essere individuato come tale, non potendosi identificare genericamente nell'attività comunque riconducibile alla pubblica funzione esercitata. Correlativamente, non ogni forma di contestazione personale, seppur minacciosa, rivolta al pubblico ufficiale, che non sia riferita all'atto che questi sta compiendo, comporta la commissione del reato di resistenza secondo la sua configurazione normativa tipica Sez. 6, n. 8340 del 18/11/2010, dep. 02703/2011, Rv. 249582 Sez. 6, n. 22453 del 29/01/2009, dep. 28/05/2009, Rv. 244060 Rv. 244695 Sez. 6, n. 31544 del 18/06/2009, dep. 30/07/2009, Rv. Sez. 6, n. 335 del 02/12/2008, dep. 08/01/2009, Rv. 242131 . Quand'anche voglia qualificarsi il reato di resistenza come reato di pericolo indiretto, in ragione della anticipata tutela accordata dalla norma incriminatrice alla legittima azione del pubblico ufficiale, la fattispecie concreta non può essere ricostruita e sussunta in una prospettiva di pericolo presunto, occorrendo che la violenza e la minaccia elementi costitutivi della materialità del reato siano reali e connotino in termini di effettività causale la loro idoneità a coartare o ad ostacolare l'agire del pubblico ufficiale, in tal modo esprimendosi il finalismo lesivo dolo specifico del contegno di violenza o minaccia del soggetto agente Sez. 6, 18.6.2009 n. 31544, Rv. 244695 Sez. 6, 29.1.2009 n. 22453, Rv. 244060 Sez. 6, 18.11.2010 n. 8340/2011, Rv. 249582 . Situazioni, quelle ora indicate, della cui ravvisabilità nella condotta dell'imputato la sentenza impugnata non offre tracce riconoscibili, ove si consideri che, nel merito, la ricostruzione storico-fattuale della vicenda, sì come operata alla stregua delle acquisite emergenze processuali, non conduce affatto all'epilogo decisorio cui sono pervenuti entrambi i Giudici di primo e secondo grado. L'imputato, infatti, non circolava a bordo dell'autovettura guidata dalla moglie e sottoposta ad un controllo di Polizia stradale, ma pronunziò le espressioni oggetto del tema d'accusa - ora chiamo il 112 e faccio arrivare una loro pattuglia e vediamo questa sera dove arriviamo ditemi subito come vi chiamate, voglio i vostri nomi! Così la smetterete di fare gli arroganti e i maleducati in mezzo alla strada! - solo in un secondo momento, ossia quando sopraggiunse in loco perché avvisato dalla moglie, nei cui confronti era stato elevato un verbale di contravvenzione per infrazioni al codice della strada. Dalla stessa motivazione dell'impugnata pronuncia, inoltre, emerge che l'imputato - il quale, peraltro, non ha negato di avere proferito le su indicate parole, ma solo l'intento minatorio - tentò di convincere gli agenti di P.S. a soprassedere alla contestazione della contravvenzione nei confronti della moglie, invitandoli a rivolgere la loro azione repressiva nei confronti dei delinquenti e contestando il loro operato in un foglio allegato al verbale. Orbene, risulta con evidenza, dal tenore della discussione intercorsa tra l'imputato e gli agenti, che le espressioni ingiuriose in quel frangente rivolte dall'imputato all'indirizzo dei pubblici ufficiali hanno costituito solo una reazione, sia pure disdicevole, alle attività di ufficio che questi ultimi avevano appena compiuto, e non erano pertanto orientate a costringere il personale operante a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell'ufficio, ma costituivano soltanto la manifestazione di un comportamento offensivo volto a contestarne l'operato senza alcuna finalizzazione ad incidere sull'attività dell'ufficio peraltro già espletata , di guisa che la condotta oggetto della regiudicanda non può dirsi idonea ad integrare il delitto di cui all'art. 337 c.p., ma, una volta abrogato all'epoca della commissione del fatto il delitto di oltraggio di cui all'art. 341 c.p., il più generale reato di ingiuria, aggravato dalla qualità della persona offesa, per la cui procedibilità è necessaria la querela, nella specie non proposta. Conclusione, questa, che si pone, come già accennato poc'anzi, sulla scia di una consolidata e pacifica linea interpretativa tracciata dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui, pur dovendosi ritenere sufficiente che la violenza o minaccia usata dall'agente sia potenzialmente idonea ad impedire o ad ostacolare il compimento di un atto di ufficio o di servizio, costituisce un dato altrettanto incontroverso che il dolo specifico del reato di cui all'art. 337 c.p. debba concretizzarsi nel fine di impedire od ostacolare l'attività propria di un pubblico ufficio o servizio in atto, di tal che il contegno che non risulti tenuto a tale scopo, sebbene eventualmente illecito ad altro titolo, non perfeziona il delitto in esame. È perfino superfluo, allora, ribadire che non sono idonee ad attuare il reato di resistenza le espressioni di semplice ingiuria o monito rivolte al pubblico ufficiale, allorquando le stesse non denotino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell'atto di ufficio, ma si traducano piuttosto in una palese forma di critica e di obiezione alla anteriore attività da lui espletata da ultimo, in motivazione, Sez. 6, n. 45868 del 15/05/2012, dep. 23/11/2012, Rv. 253983 . 5. Conclusivamente, qualificato il fatto come ingiuria ai sensi dell'art. 594 c.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per mancanza di querela. P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata, qualificato il fatto come reato previsto dall'art. 594 c.p., perché l'azione penale non poteva essere promossa per difetto di querela.