Rifiuti in fiamme: plastica o rovi? Particolare secondario. Ciò che conta è la mancanza dell’autorizzazione

Confermata la condanna per il legale rappresentane di un’azienda, i cui operai avevano provveduto a dar fuoco ad alcuni rifiuti. Inutile il distinguo rispetto al tipo di materiale. Nodo della vicenda è la mancanza dell’autorizzazione, invece prescritta anche per i rifiuti speciali non pericolosi.

Anche plastica, secondo il Corpo forestale. Solo rovi e canneti, secondo la tesi difensiva. Ma questo distinguo è inutile. Ciò che conta è l’aver operato in maniera illegittima, e anche irrazionale – visto il ricorso alle fiamme –, la gestione di un grosso quantitativo di rifiuti. Con l’aggravante, per giunta, di aver provocato non pochi fastidi, a causa della colonna di fumo levatasi verso il cielo. Legittima, quindi, la condanna nei confronti del legale rappresentante della società, anche se longa manus operativa dell’imprenditore sono stati alcuni suoi dipendenti. Cassazione, sentenza n. 31705, Terza sezione Penale, depositata oggi Falò . A richiamare l’attenzione è la colonna di fumo, per nulla gradevole – non solo alla vista ma anche all’olfatto –, avvistata, e subito segnalata, da alcuni cittadini. Conseguenziale è l’intervento sul ‘luogo del delitto’, ossia la sede di un’azienda che si occupa di demolizione, costruzione e scavo . Lì, in un terreno di proprietà della società, alcuni dipendenti hanno dato fuoco a un ammasso di rifiuti. Operazione, però, viene scoperto facilmente, assolutamente non autorizzata, nonostante si trattasse di rifiuti speciali non pericolosi . Così, nessun dubbio è possibile sulla responsabilità del legale rappresentante dell’azienda, che, rispondendo anche dell’accusa di aver provocato emissioni di fumo ed odori atti assolutamente fastidiosi per le persone, viene condannato alla pena di 9mila euro di ammenda . Abuso . Completamente diversa, ovviamente, l’ottica proposta dalla difesa del legale rappresentante della società, ottica centrata su una diversa ricostruzione dell’episodio. Più precisamente, il legale sostiene che i rifiuti bruciati erano rovi e canneti, tagliati per liberare il fondo, di recente acquisito , e aggiunge che non sono stati bruciati plastica o altri rifiuti inquinanti, ma solo materiale vegetale, la cui combustione non comporta emissione di fumi maleodoranti o inquinanti, o comunque tali da arrecare molestia alle persone . Ma questo elemento di valutazione risulta inutile. Perché, chiariscono i giudici, ciò che conta è la mancanza dell’autorizzazione per lo smaltimento dei rifiuti, anche non pericolosi, da parte del produttore . Ciò, viene aggiunto, a prescindere dalla natura del rifiuto . Per sintetizzare, per la gestione dei rifiuti speciali non pericolosi è indubbiamente necessaria apposita autorizzazione , assolutamente mancante in questo caso confermata, quindi, la condanna per il legale rappresentante dell’azienda.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 20 dicembre 2012 - 23 luglio 2013, n. 31705 Presidente Gentile – Relatore Savino Ritenuto in fatto e diritto Con sentenza emessa in data 28 dicembre 2012 il Tribunale di Tivoli dichiarava P.S. responsabile del reato di cui agli artt. 110 c.p., 256 D.L.vo 152/2006 per aver effettuato, quale legale rappresentante della PI.M.U.S. E. srl, in concorso con i propri dipendenti, attività di gestione non autorizzata di rifiuti speciali non pericolosi smaltendoli tramite combustione. Dichiarava, inoltre, lo stesso responsabile del reato di cui agli artt. 110 e 674 c.p. per aver provocato, sempre in concorso con i propri dipendenti, emissioni di fumo ed odori atti ad offendere, imbrattare e comunque molestare le persone. Di conseguenza, il Tribunale di Tivoli, ravvisata la continuazione tra i due reati ed operata la diminuzione per la scelta del rito abbreviato, condannava il P. alla pena di euro 9,000,00 di ammenda oltre al pagamento delle spese processuali. Avverso tale sentenza ha proposto appello il difensore dell’imputato. Trattandosi di sentenza di condanna alla sola ammenda, l’appello è stato convertito in ricorso per cassazione. Con l’atto di impugnazione la difesa lamenta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p., sostenendo l’insussistenza del reato di cui all’art. 110 c.p. e 256 D.L.VO n. 152/2006 per carenza di riscontri obiettivi. La censura è inammissibile in quanto attiene questioni di fatto che, in quanto tali, sono sottratte al sindacato di questa Corte. Per completezza, però, merita effettuare alcune precisazioni. Orbene dagli atti risulta che in data 28.12.2007 gli agenti di PG sono intervenuti presso la sede della PI.M.U.S. E. srl perché alcune persone stavano bruciando dei rifiuti in parte costituiti da materiale plastico. Dai rifiuti in fiamme, infatti, si ergevano colonne di fumo così come risulta da fotografie in atti. Queste attività sono state imputate al P. in quanto legale rappresentante della PI.M.U.S. E. srl che risultava la società proprietaria del terreno ove erano localizzati i rifiuti in questione. Dunque il Tribunale ha ritenuto integrato l’elemento oggettivo e soggettivo dei reati sopra menzionati. Quanto all’elemento oggettivo l’imputato dapprima effettuava una raccolta non autorizzata di rifiuti e, poi, li faceva bruciare ad opera dei propri dipendenti determinando l’emissione di fumi maleodoranti. Sotto il profilo soggettivo il Tribunale ha ravvisato, l’elemento soggettivo della colpa in quanto l’imputato in violazione delle generiche regole di prudenza e delle specifiche norme di legge, nella sua qualità di legale rappresentante della società PI.M.U.S. E. srl effettuava l’attività di raccolta e gestione di rifiuti in difetto delle prescritte autorizzazioni ed emetteva fumi maleodoranti nell’atmosfera’’. Diversa è la ricostruzione proposta dalla difesa la quale precisa che i rifiuti bruciati altro non erano che rovi e canneti infestanti che erano stati tagliati per liberare il fondo di recente acquisito. Tale materiale era stato, poi, bruciato a più riprese a causa del susseguirsi di alcuni giorni di pioggia. Per altro le radici impregnate di acqua emettevano un fumo di colore bianco e non nero. Vennero bruciate anche alcune cassette di legno al solo fine di alimentare la combustione. Dunque, conclude la difesa, non sono stati bruciati plastica o altri rifiuti inquinanti ma solo materiale vegetale la cui combustione non comporta, emissione di fumi maleodoranti/inquinanti o comunque tali da arrecare molestia alle persone e la cui cenere è utile per concimare lo stesso terreno. Dunque la difesa si limita a proporre una diversa ricostruzione dei fatti che peraltro non incide sulla configurabilità del reato. Difatti il d.l.vo 152/2006 richiede in generale una previa autorizzazione per lo smaltimento dei rifiuti anche non pericolosi da parte del produttore laddove per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi” art. 183 . Questo a prescindere dalla natura del rifiuto. Il regime previsto dalla parte quarta del suddetto decreto non si applica soltanto ad un ristretto numero di materiali tra i quali ad es. il terreno o i materiali fecali. Tra questi materiali, però, non rientrano quelli bruciati dall’odierno imputato anche se si volesse aderire alla ricostruzione proposta dalla difesa in base alla quale si tratterebbe soltanto di rovi e canneti recisi. Peraltro il Tribunale ha ritenuto che, il materiale bruciato rientrasse nel concetto di rifiuto speciale non pericoloso. La categoria è individuata dall’art. 184 co. 3. In particolare sono rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione o scavo attività svolte dalla società in questione . Ed il giudice di primo grado ha ritenuto che ricorresse tale ipotesi perché - come emerge dal verbale del Corpo forestale e dalle foto prodotte - il materiale bruciato comprendeva anche plastica. Orbene per la gestione di tali rifiuti è indubbiamente necessaria apposita autorizzazione anche se si tratta di rifiuti non pericolosi ai sensi dello stesso decreto 152/2006. Dunque la conclusione del Tribunale in ordine alla ritenuta integrazione del fatto materiale tipico del reato in questione è del tutto logica, corretta e fondata su indizi gravi, precisi e concordanti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.