Dati personali trattati senza alcuna sensibilità: sì alla “pacca sulla spalla”, nì alla “pecunia”

In materia di trattamento dei dati sensibili di una persona, se questo avviene in maniera illegittima, senza l’autorizzazione del Garante, è comunque onere della persona offesa provare di aver subito un danno. In caso contrario, è escluso il risarcimento a suo favore.

Questo è quanto deciso dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 15240, depositata il 3 luglio 2014. Il caso. Un’assistente di Polizia penitenziaria chiedeva al tribunale di Bologna l’accertamento dell’illegittimità del trattamento di alcuni suoi dati sanitari compiuto dal Ministero della Giustizia. I giudici accoglievano la domanda, ritenendo sussistente la violazione degli articolo 4 e 20 d.lgs. numero 196/2003 codice in materia di protezione dei dati personali , poiché questi dati, di natura sensibile, avrebbero dovuto essere trattati solo in presenza di autorizzazione da parte del Garante per la protezione dei dati personali, che, tuttavia, non aveva ricevuto alcuna richiesta da parte dell’Amministrazione. Veniva, però, allo stesso tempo respinta la domanda di risarcimento danni, in quanto la ricorrente non li aveva provati. La donna ricorreva in Cassazione, deducendo che per l’illegittimo trattamento dei dati personali il danno dovrebbe ritenersi in re ipsa. Stessa situazione del diritto alla riservatezza. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricorda un suo precedente, la sentenza numero 4366/2003, riguardante il simile argomento, applicabile anche al caso di specie, della lesione del diritto alla riservatezza già in quell’occasione era stato affermato che un danno del genere determina sì un illecito ai sensi dell’articolo 2043 c.c., ma da questo non consegue un’automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio morale o patrimoniale essere sempre provato secondo le regole ordinarie a prescindere dall’entità del danno e dalla difficoltà della prova . Si tratta, infatti, di un danno-conseguenza, non di un danno-evento. Se fosse un diritto costituzionale? Per i giudici di legittimità, neanche un’argomentazione che identificasse questa tipologia di lesione in termini di danno non patrimoniale derivante da un pregiudizio di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti potrebbe portare ad una conclusione diversa. Ciò si deve ad un altro precedente della stessa Corte a Sezioni Unite, la sentenza numero 26972/2008, la quale, ammettendo la risarcibilità di diritti di questo genere, aveva allo stesso tempo riconosciuto che l’esistenza del relativo danno deve essere comunque provata dal danneggiato. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 14 maggio – 3 luglio 2014, numero 15240 Presidente Spirito – Relatore Cirillo Svolgimento del processo 1. Con ricorso al Tribunale di Bologna ai sensi dell'articolo 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, numero 196, N.P., assistente di Polizia penitenziaria, ha chiesto che fosse accertata l'illegittimità del trattamento di alcuni suoi dati sanitari compiuto dal Ministero della giustizia. Il Tribunale, con sentenza del 22 gennaio 2009, ha accertato che il trattamento dei dati sanitari compiuti dall'Amministrazione convenuta non era conforme alle previsioni degli articolo 4 e 20 del d.lgs. numero 196 del 2003, in quanto, trattandosi di dati sensibili, gli stessi potevano essere trattati solo in presenza di autorizzazione da parte del Garante per la protezione dei dati personali, nella specie non richiesta. Il Tribunale, però, ha respinto la domanda di risarcimento dei danni, sul rilievo che la ricorrente non aveva fornito alcuna prova sul punto, compensando le spese di lite. 2. Avverso la sentenza del Tribunale di Bologna propone ricorso la P., con unico atto affidato a due motivi. Resiste con controricorso il Ministero della giustizia. La P. ha presentato memoria. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell'articolo 360, primo comma, numero 5 , cod. proc. civ., insufficiente e contraddittoria motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Rileva la ricorrente che, in conformità a quanto stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione ad altri tipi di danno - come quello alla reputazione personale ovvero quello da illegittima levata del protesto - anche per l'illegittimo trattamento dei dati personali sensibili il danno dovrebbe ritenersi in re ipsa. 1.1. Il motivo non è fondato. Esso, benché formulato in termini di vizio di motivazione, pone in realtà una censura di violazione di legge, perché lamenta che la sentenza, avendo accertato l'illegittimità del trattamento dei dati sensibili, non ne abbia poi tratto la conclusione della sussistenza di un danno in re ipsa, procedendo al relativo risarcimento. Questa Corte, con la sentenza 25 marzo 2003, numero 4366, pronunciata nella materia diversa, ma tuttavia simile, della lesione del diritto alla riservatezza, ha stabilito che tale lesione determina un illecito ai sensi dell'articolo 2043 cod. civ. al quale, tuttavia, non consegue un'automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio morale o patrimoniale essere comunque provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l'entità ed a prescindere anche dalla difficoltà della relativa prova. Il che, tra l'altro, è del tutto logico, trattandosi di un danno -conseguenza e non di un danno-evento. Non potrebbe giungersi a diversa conclusione, del resto, neppure se si identificasse il danno in questione in termini di danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti, poiché la fondamentale sentenza 11 novembre 2008, numero 26972, delle Sezioni Unite di questa Corte, nell'ammettere la risarcibilità della lesione di siffatti diritti e nel tracciarne rigorosamente i confini, ha contestualmente riconosciuto che l'esistenza del relativo danno deve comunque essere provata dal danneggiato. Del tutto inconferente, infine, si palesa il richiamo alla giurisprudenza in tema di illegittima levata del protesto materia nella quale, a parte l'evidente diversità, non sussiste uniformità nella giurisprudenza circa la sussistenza di un danno in re ipsa. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione degli articolo 92 e 360, primo comma, numero 4 , cod. proc. civ. in riferimento alla compensazione delle spese disposta dal Tribunale di Bologna. Rileva la ricorrente che il Giudice non avrebbe motivato sulle ragioni di tale compensazione, e che essa sarebbe comunque ingiusta alla luce della giurisprudenza di questa Corte. 2.1. Il motivo è inammissibile. Da un lato, infatti, esso censura come error in procedendo una presunto vizio di motivazione. Oltre a ciò, il motivo non contiene la formulazione di alcun quesito di diritto, necessario poiché il ricorso è soggetto, ratione temporis, al regime dell'articolo 366-bis del codice di procedura civile. È appena il caso di rilevare, comunque, che non si vede per quale motivo il Tribunale avrebbe dovuto condannare l'Amministrazione alle spese di giudizio, tenendo conto del fatto che all'accertamento dell'illegittimità del trattamento non ha fatto seguito alcuna prova sulla concretezza del danno subito. 3. Il ricorso, pertanto, è rigettato. A tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 10 marzo 2014, numero 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 3.200, di cui euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.