Napolitano di nuovo presidente, e a Ciancimino il no della Cassazione: intercettazioni inascoltabili. E ora distrutte...

Si chiude definitivamente la pagina della registrazione casuale delle conversazioni tra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il senatore Nicola Mancino. I files audio vengono distrutti a Palermo, e in Cassazione vengono chiariti i motivi del no alla richiesta di Ciancimino. E a Roma, nel pomeriggio, Giorgio Napolitano giura e dà il via al suo secondo settennato.

Triangolazione storica, sicuramente casuale, ma comunque storica a Roma Giorgio Napolitano giura come presidente della Repubblica, per il suo secondo settennato a Palermo, nel carcere dell’Ucciardone, vengono distrutti i files audio delle intercettazioni Napolitano-Mancino, spuntate fuori nel corso dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ancora a Roma, infine, arrivano le ragioni del niet della Cassazione alla richiesta avanzata da Massimo Ciancimino di potere ascoltare quelle famigerate conversazioni. Tutto ciò nella intensa giornata di oggi, che, nel volgere di poche ore, ha visto posta una pietra tombale su un angolo – oramai inesplorabile – della storia italiana, e, allo stesso tempo, ha visto aprirsi un percorso – nuovo? Solo il tempo potrà dirlo – politico-istituzionale dello Stato italiano. Cala il sipario Ultimo a dover accettare l’idea della distruzione definitiva delle famigerate «registrazioni delle conversazioni intercettate tra il senatore Nicola Mancino e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano» è Massimo Ciancimino. Quest’ultimo ribadisce, in sostanza, la richiesta di «autorizzazione all’ascolto», negatagli dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, aggiungendo anche l’impugnazione del «decreto» – «adottato in esecuzione della decisione della Corte Costituzionale con la quale è stato risolto il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, sollevato dal presidente della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo» – con cui «è stata disposta la distruzione delle intercettazioni». Ma le contestazioni di Massimo Ciancimino – figlio di Vito Ciancimino, e personaggio controverso nell’ambito dell’inchiesta sui presunti rapporti Stato-mafia –, fondate sul richiamo al «diritto di difesa», ossia sulla necessità di ascoltare le registrazioni per potervi scoprire «elementi difensivi», non sono state assolutamente ritenute legittime dai giudici del Palazzaccio. Per questi ultimi, difatti, unico punto di riferimento è la pronunzia della Corte Costituzionale, con specifico riferimento all’«obbligo di distruggere le registrazioni, casualmente effettuate, di conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica, che, nel caso di specie, risultano essere quattro, peraltro intrattenute mediante linee telefoniche». Ciò significa che «la distruzione della documentazione delle intercettazioni, di cui è vietata l’utilizzazione» deve essere realizzata «senza imporre la procedura camerale e il contraddittorio tra le parti». Decisivo è il richiamo agli «interessi» e ai «diritti fondamentali coinvolti», tutti «di rilievo costituzionale». E anche in questo caso citazione ovvia è quella della Corte Costituzionale, laddove si ritiene che «costituisca fondamento imprescindibile per la risoluzione del conflitto il rango degli interessi coinvolti nel caso di intercettazione di colloqui presidenziali e il rilievo che i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale». Conseguenziale, e definitivo, è il rigetto della domanda avanzata da Ciancimino nessun diritto all’ascolto. Che da ora è, comunque, materialmente impossibile.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 18 – 22 aprile 2013, numero 18373 Presidente De Roberto – Relatore Carcano Ritenuto in fatto 1. M.C. impugna l’ordinanza in epigrafe indicata con la quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo ha rigettato l’istanza dei suoi difensori di «autorizzazione all’ascolto» delle registrazioni delle conversazioni intercettate tra il Senatore N.M. e il Presidente della Repubbica G.N. Il ricorrente impugna inoltre il precedente decreto con il quale è stata disposta la distruzione delle predette intercettazioni. A fronte delle richiesta avanzata dalla difesa di M.C. volta a far valere, in applicazione dell articolo 268, comma 6, c.p.p., il preteso diritto all’ascolto delle registrazioni delle conversazioni intercettate, il giudice per le indagini preliminari ha rigettato l’istanza, in tal modo confermando la distruzione delle registrazioni stesse, disposta su richiesta della Procura Repubblica con decreto 8 febbraio 2013. Il decreto è stato adottato in esecuzione della decisione della Corte Costituzionale con la quale è stato risolto il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, sollevato dal Presidente della Repubblica G.N. nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo che rivendicava il potere-dovere di attivare la procedura di selezione prevista dall’articolo 268 c.p.p., all’esito della quale avrebbe potuto essere disposta - su istanza degli interessati e nella specie, dello stesso Presidente della Repubblica, attraverso una ulteriore udienza camerale - la distruzione del materiale in questione “a tutela della riservatezza”. Il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di distruzione, ha verificato e poi escluso gli ostacoli giuridico-costituzionali alla distruzione, come stabilito dalla sentenza § 16 del considerato in diritto nella parte in cui dispone che «ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica articolo 90 Cost. ». 2. Il difensore di M.C., descritta la vicenda procedimentale, deduce l’abnormità dei provvedimenti impugnati, perché adottati in palese violazione degli articolo 127 e 271 c.p.p. sul presupposto che la Corte costituzionale ha esclusivamente risolto un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e non anche interpretato l’articolo 271 c.p.p In subordine sollecita questa Corte e con i provvedimenti impugnati per violazione degli articolo 24, comma secondo e 111, commi secondo e quarto, della Costituzione, sollecitazione che la difesa ribadisce con motivi muovi, evocando l’ulteriore parametro dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione in relazione all’articolo 6 delta Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Considerato in diritto 1. Il ricorso, volto a censurare le decisioni adottate in esecuzione della sentenza Corte costituzionale, inevitabilmente si traduce in una non consentita contestazione delle statuizioni sulle quali - senza che alcuno spazio residui rispetto sia al decisum sia alla ratio decidendi - si fonda la risoluzione del conflitto di attribuzione. La sentenza numero 1 del 2013 ha dichiarato nel dispositivo non soltanto «che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale numero 11609/08», ma anche «che non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’articolo 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le partì e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate». Tale ultima statuizione vincola non solo il procuratore della Repubblica, ma anche il giudice che, in ogni stato e grado dei procedimento nel cui ambito è sorto il conflitto, sia chiamato a dare attuazione alle statuizioni della Corte costituzionale o, comunque, a decidere su impugnazioni ed eventuali incidenti di esecuzione. Un principio che trova conferma in quanto espressamente affermato nel § 15 della sentenza ora ricordata, secondo cui «la soluzione del presente conflitto non può che fondarsi in base a quanto detto sinora sull’affermazione dell’obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, che nel caso di specie risultano essere quattro, peraltro intrattenute mediante linee telefoniche del Palazzo del Quirinale». La puntuale osservanza della decisione adottata in sede di conflitto di attribuzione diviene allo stato dirimente al fine di verificare l’assoluta impossibilità di qualsiasi scrutinio di impugnabilità delle statuizioni qui censurate. 2. Il Collegio ritiene, inoltre, che la questione di legittimità degli articolo 271 e 127, comma 3, c.p.p , in subordine eccepita dalla difesa è manifestamente infondata per le ragioni stesse ragioni poste a fondamento della soluzione del conflitto. Ed infatti, la Corte costituzionale ha precisato che «lo strumento processuale per giungere al risultato, costituzionalmente imposto .» - la distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni del Presidente della Repubblica - « . non può essere quello previsto dagli articolo 268 e 269 cod. proc. penumero », che si sviluppa attraverso la procedura camerale in contraddittorio tra le parti, bensì la disposizione dall’articolo 271, comma 3, c.p.p Tale ultima disposizione prevede la distruzione della documentazione delle intercettazioni di cui “è vietata l’utilizzazione” senza però imporre, per il mancato richiamo all’articolo 127 c.p.p., la procedura camerale e il contraddittorio tra le parti, in tal modo rendendo tale ultima procedura attuabile o meno in considerazione degli interessi e dei diritti fondamentali coinvolti. Ne discende che la procedura camerale, nel contraddittorio tra le parti, è applicabile per le ipotesi di violazioni di norme processuali, mentre è preclusa nel caso in cui vi siano state violazioni di ordine sostanziale riconducibili a diritti e interessi di rilievo costituzionale poiché l’accesso alle parti potrebbe neutralizzare la ratio della tutela riconosciuta, secondo un modello non dissimile da quello che impone la distruzione di registrazioni riguardanti le conversazioni tra l’imputato e il suo difensore e in altre ipotesi analoghe che implicano esigenze di tutela di versificate, ma sempre riferibili a un vulnus costituzionalmente rilevante. Pertanto, la Corte costituzionale ritiene che costituisca fondamento imprescindibile per la risoluzione del conflitto «il rango degli interessi coinvolti» nel caso di «intercettazione di colloqui presidenziali » e il rilievo che «i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’articolo 271, comma 3, cod. proc. pen». La chiarezza di tali argomenti rende dunque manifestamente infondata la questione di costituzionalità eccepita dal ricorrente. 3. In conclusione, il ricorso è inammissibile e, a norma dell’articolo 616 c.p.p., il ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese processuali, a versare una somma, che si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, numero 186. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a quello della somma di euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.