Si ha desistenza se l’agente, dopo le minacce, non si presenta per la consegna del denaro

Si ha un’ipotesi di desistenza, ai sensi dell’articolo 56, comma 3, c.p., nelle fattispecie in cui è sollecitata la consegna di un bene da parte della vittima, con condotte artificiose o minacciose, e tale consegna non avvenga per un atteggiamento di “rinuncia” del soggetto attivo che non completa la condotta necessaria al fine della traditio della cosa. Il recesso attivo è invece ravvisabile laddove la cosa verrebbe consegnata, nell’inerzia dello stesso agente, e ciò non avvenga a causa di una condotta impeditiva dello stesso.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza numero 11294/15 depositata il 17 marzo. Il caso. La Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di prime cure, dichiarava colpevole l’imputata per i delitti tentati di truffa e millantato credito, in quanto aveva indotto la persona offesa a farsi consegnare una somma di denaro, dichiarando di poter condizionare la valutazione medica concernente una sua domanda di indennità d’accompagnamento. L’imputata non si era però presentata all’appuntamento per la consegna del denaro fissato con una telefonata di cui erano stati avvertiti i Carabinieri. La sentenza d’appello viene impugnata innanzi alla Corte di Cassazione lamentando sostanzialmente l’erronea, nonché mancante, motivazione in ordine alla ritenuta volontaria interruzione della sequenza criminosa che era stata qualificata, dai giudici di merito, come recesso attivo, ex articolo 56, comma 4, c.p A detta della ricorrente invece una corretta qualificazione dell’azione non poteva che condurre all’individuazione dell’ipotesi prevista dal comma 3 del medesimo articolo, con esclusione della sua responsabilità penale. La definizione della desistenza e del recesso attivo. La Corte di Cassazione ravvisa lacune motivazionali evidenti nella sentenza impugnata, che risulta non essersi espressa con chiarezza nell’applicazione dell’istituto del recesso attivo. I Supremi Giudici colgono l’occasione per ribadire la definizione «scolastica» dell’istituto della desistenza, individuabile nei casi in cui l’agente abbia posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto ma abbia poi volontariamente interrotto la propria condotta criminosa. Quando invece il comportamento idoneo alla lesione del bene giuridico sia stato integralmente esaurito, residua la sola possibilità di individuare il recesso attivo laddove il processo causale venga interrotto o deviato per iniziativa e cura dello stesso agente. L’imputato non si era presentato per la consegna del denaro. Nella fattispecie in oggetto, assume rilevanza la sollecitazione della consegna di un bene da parte della vittima, con condotte artificiose o minacciose, nella quale si può individuare un’ipotesi di desistenza ove tale consegna non avvenga per un atteggiamento di “rinuncia” del soggetto attivo che non ha completato la condotta necessaria al fine della traditio della cosa. Il recesso attivo è invece ravvisabile laddove la cosa verrebbe consegnata, nell’inerzia dello stesso agente, e ciò non avvenga a causa di una condotta impeditiva dell’interessato. In conseguenza si ha un’ipotesi di desistenza nel caso in cui l’autore delle pressioni estorsive non si presenti all’appuntamento fissato per la consegna per una scelta volontaria, in quanto l’omessa percezione del denaro dipende dal mancato compimento, da parte dell’agente, di una porzione necessaria della condotta tipica. Alla luce dei principi ricordati, la Cassazione qualifica la situazione di fatto come un’ipotesi di desistenza volontaria, con conseguente inapplicabilità della pena. Per questi motivi, la Suprema Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 23 settembre 2014 – 17 marzo 2015, numero 11294 Presidente Agrò – Relatore Leo Ritenuto in fatto 1. È impugnata la sentenza del 5/11/2013 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del locale Tribunale in data 11/03/2010, con la quale A.G. era stata dichiarata colpevole dei delitti tentati di truffa e millantato credito nei confronti di A.F Secondo la ricostruzione del fatto ad opera dei Giudici territoriali, l'imputata ed un'altra persona poi deceduta avevano tentato di indurre la persona offesa a consegnare loro una somma di denaro, assumendo di poter condizionare l'esito della valutazione medica concernente una domanda per indennità d'accompagnamento. Nel corso di una conversazione telefonica con il figlio della F. era stato concordato che le due donne si recassero nuovamente a casa dell'interessata per ritirare il denaro, sebbene, in realtà, della loro richiesta fosse stata avvertita la polizia giudiziaria. Gli appostamenti opportunamente attuati per un intervento in flagranza di reato erano però rimasti senza esito, perché l'imputata e la sua compagna non si erano presentate all'appuntamento, e non si erano più fatte vive con la persona offesa. La Corte territoriale, in relazione a tale ultimo frangente, ha in parte ribaltato il deliberato di condanna del Giudice di prime cure, sulla base del seguente assunto «non sussistendo alcun elemento oggettivo che supporti l'ipotesi di un timore delle autrici della condotta di esporsi ad un intervento dei Carabinieri, per il principio del favor rei deve ritenersi che la decisione di interrompere l'azione non sia stata necessitata [ .] e sia stata, quindi, volontaria. A ciò consegue il seguente calcolo della pena pena base per il più grave reato di cui al capo A anno 1 e mesi 6 di reclusione, ridotta ai sensi dell'articolo 56 comma 2 fino ad anno 1 ed ancora ai sensi del comma 4 fino a mesi 8 pena aumentata fino per continuazione capo B fino ad anno 1 mesi 4». 2. Propone ricorso il Difensore della G., deducendo diversi motivi di impugnazione. 2.1. In primo luogo, a mente dell'articolo 606, comma 1, lettere b ed e cod. procomma penumero , si denuncia violazione dell'articolo 62 , comma 3 recte 56, comma 3 cod. penumero e dell'articolo 530, comma 1, cod. procomma penumero La stessa Corte territoriale ha definito «volontaria» la interruzione della sequenza criminosa da parte della G., con il che, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuta fare applicazione del comma 3 dell'articolo 56 cod. penumero , e mandare l'imputata esente da ogni pena. Sarebbe ingiustificata, quindi, la diversa opzione in favore della regola fissata al comma 4 della norma citata, che regola il caso del recesso attivo, strutturalmente differente da quello, ricorrente nella specie, di una condotta esecutiva non completamente esaurita. 2.2. In ogni caso avrebbe errato la Corte territoriale articolo 606, comma 1, lettere b , c ed e , in relazione all'articolo 192, comma 1, cod. procomma penumero nel ritenere provata la responsabilità della ricorrente in base ad una mera identificazione fotografica, operata innanzi alla polizia giudiziaria e senza che fossero sottoposte alla persona offesa persona oltretutto anziana e suggestionabile immagini di persone con caratteristiche somatiche assimilabili. Illegittimo sarebbe il ricorso all'argomento per il quale, avendo preferito essere giudicata in contumacia, l'imputata avrebbe giustificato il sospetto d'aver voluto sottrarsi ad una ricognizione formale la scelta difensiva sarebbe incoercibile, e dunque non suscettibile di essere ritorta in danno dell'interessata. 2.3. Con un terzo motivo di ricorso articolo 606, comma 1, lettere b ed e , cod. procomma penumero , in relazione alla disciplina del concorso apparente di norme il Difensore censura l'affermazione del concorso formale tra i delitti di millantato credito e truffa, propugnando la tesi dell'assorbimento del secondo nel primo. Si ricorda come la giurisprudenza di legittimità, anche quella delle Sezioni unite, e la stessa giurisprudenza costituzionale, abbiano privilegiato un criterio strutturale per la soluzione dei casi di concorso apparente, evidenziando nel contempo la necessità che sia evitato un bis in idem sostanziale. Dovrebbe dunque concludersi nel senso che l'articolo 346 cod. penumero sarebbe norma speciale rispetto all'articolo 640 cod. penumero , tesi che avrebbe trovato specifica conferma anche in deliberati di questa Corte è citata Sez. 6, Sentenza numero 30150 del 07/06/2006, rv. 235429 . 2.4. Da ultimo, il ricorrente denuncia violazione di legge e vizi di motivazione in rapporto agli articolo 62-bis e 133 cod. penumero , avendo la Corte territoriale risposto ai rilievi difensivi sulla pena, sensibilmente superiore al minimo edittale, con un mero riferimento alla presunta sua equità . Quanto al rigetto della richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche, sarebbe stata fondata solo sui precedenti penali dell'interessata, che invece non sono per sé ostativi all'applicazione della diminuente, omettendo ogni valutazione sul complesso dei criteri pertinenti alla decisione, che risulterebbe dunque, in parte qua, sostanzialmente immotivata. Motivi della decisione 1. II ricorso è fondato, e deve essere accolto, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. 2. La Corte territoriale non si è certo espressa con chiarezza sulle tesi difensive, già proposte nel giudizio d'appello, con riguardo all'abbandono dell'impresa criminosa da parte delle due donne che avevano preso contatto con la persona offesa. È vero, in particolare, che la porzione pertinente della sentenza si apre con un riferimento alla «desistenza», più avanti definita «volontaria». Ed è vero mancano una descrizione in fatto, ed una qualificazione in diritto, che siano direttamente e chiaramente riferibili all'istituto del recesso attivo semmai, si allude nel testo ad una «interruzione dell'azione», che vale nuovamente ad evocare l'istituto della desistenza, e si cita in tono adesivo una pronuncia che riguardava proprio, ed ancora una volta, la desistenza Sez. 2, Sentenza numero 13385 del 05/04/2013, rv. 255919 . Deve ritenersi nondimeno che i Giudici territoriali, sia pure incorrendo nei vizi di motivazione appena indicati, abbiano inteso fare applicazione della disciplina del recesso attivo. In tal senso depone la stessa decisione di irrogare una pena, visto che la legge così dispone per il recesso comma 4 dell'articolo 56 cod. penumero , mentre per i casi di desistenza la rilevanza penale della condotta resta esclusa a meno che gli atti compiuti non costituiscano un diverso ed autonomo reato comma 2 della norma citata . Soprattutto, nelle scarne righe finali sui criteri seguiti per la quantificazione della pena, si è indicata una diminuzione specificamente riferita al comma 4 dell'articolo 56 cod. penumero 3. Ritiene il Collegio, tuttavia, che dagli atti emerga inequivocabilmente una fattispecie di desistenza, e che dunque la sentenza impugnata debba essere annullata senza rinvio, con assorbimento di tutte le ulteriori questioni poste con il ricorso. Secondo la scolastica definizione, accreditata dalla giurisprudenza corrente, l'istituto della desistenza attiene ai casi nei quali, posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto ché altrimenti non vi sarebbe azione tipica penalmente rilevante , l'agente interrompe volontariamente anche se in modo non spontaneo la propria condotta criminale. Occorre dunque che l'azione tipica sia incompleta, nel senso che la stessa venga arrestata prima che possa causare, senza ulteriore necessità di interventi dell'agente, l'evento giuridico ed eventualmente naturalistico che determina la consumazione del reato. Ed infatti, quando il comportamento idoneo alla lesione del bene giuridico sia stato invece esaurito, residua solo lo spazio per il cd. recesso attivo, che richiede la deviazione o l'interruzione del processo causale per iniziativa e cura dello stesso agente. Tali principi vanno applicati anche quando si tratta di valutare fattispecie nelle quali è sollecitata con condotte artificiose o minacciose la consegna di un bene da parte della vittima, consegna poi non attuata per effetto di un atteggiamento di rinuncia ad opera del soggetto attivo. Ritiene il Collegio che debba parlarsi di desistenza nei casi in cui sarebbe necessaria una ulteriore attivazione dell'agente affinché possa determinarsi la traditio della cosa, e che debba invece guardarsi al recesso attivo quando la cosa verrebbe consegnata, nell'inerzia dello stesso agente, e ciò non avvenga proprio e solo in virtù d'una condotta impeditiva dell'interessato. Così questa Corte ha identificato una fattispecie di desistenza nel caso in cui l'autore di pressioni estorsive non si presenti, per scelta volontaria, all'appuntamento fissato con la vittima per la consegna del denaro Sez. 2, Sentenza numero 8031 del 24/06/1992, rv. 191291 . Di contro, è stata ritenuta l'ipotesi del recesso attivo a fronte d'un tentativo di truffa attuato mediante la falsa attestazione dell'orario del servizio prestato, che avrebbe condotto alla liquidazione di compensi indebiti se l'agente non si fosse volontariamente attivato, con la segnalazione delle opportune correzioni, al fine di prevenire l'accredito della retribuzione non dovuta Sez. 2, Sentenza numero 2772 del 22/12/2009, rv. 246267 . 4. Nel caso di specie, come risulta dalle stesse sentenze dei Giudici territoriali, le persone che avevano tentato di truffare la F., e che avevano preso con lei un appuntamento per ricevere il denaro asseritamente destinato a procurarle l'indennità di accompagnamento, non si erano poi presentate. D'altra parte la Corte territoriale ha stabilito, quale Giudice del fatto, che tale decisione era stata volontaria, sebbene in ipotesi non spontanea le donne avevano parlato con un congiunto della vittima, appartenente all'Arma dei Carabinieri, e può darsi avessero tratto motivi di allarme dal colloquio . L'omessa percezione del denaro è dipesa, insomma, dal mancato compimento, da parte delle agenti, di un'azione necessaria allo scopo, e dunque di una porzione della condotta tipica. Alla luce dei principi sopra indicati, la situazione di fatto accertata dalla Corte territoriale deve essere classificata come ipotesi di desistenza, con conseguente inapplicabilità della pena nei confronti della ricorrente. 5. La conclusione elimina radicalmente l'affermazione di responsabilità penale dell'interessata, ed assume dunque rilievo assorbente in ordine alle ulteriori doglianze prospettate nel ricorso. È chiaro, in particolare, che la desistenza aveva segnato dal punto di vista naturalistico l'intera condotta, e che dunque comporterebbe un'impunità estesa anche al tentativo di millantare credito, quand'anche si ritenesse la questione è controversa che il delitto di cui all'articolo 346 cod. penumero possa concorrere formalmente con quello di truffa. L'immediata evidenza di una causa di esclusione della rilevanza penale del fatto esime infine questa Corte dal sindacare la motivazione della sentenza impugnata quanto all'identità della persona che aveva accompagnato la Bologna in occasione dell'incontro con la F., motivazione che pure si presterebbe a rilievi critici specie in punto di valorizzazione di un sospetto , tratto oltretutto da un comportamento processualmente lecito dell'imputata . Un ipotetico annullamento con rinvio non avrebbe alcun senso, ove intervenisse riguardo ad un fatto che appare fin d'ora, ed appunto, non costituire i reati in contestazione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.