Procedimento concluso positivamente per l’impugnativa di un licenziamento, ma l’esito non viene comunicato ai clienti. Il legale viene condannato anche a pagare il risarcimento dei danni. Ma la richiesta di prendere in esame l’applicabilità della prescrizione riapre la questione vanno attentamente valutate le azioni compiute e il nocumento arrecato ai clienti.
Difensore in malafede o incappato, più semplicemente, in un errore? Questione non di lana caprina, nonostante il periodo sotto esame sia lungo quasi due anni fondamentale la valutazione delle ripercussioni e dei tempi delle azioni dell’avvocato Cassazione, sentenza numero 25700, Sesta sezione Penale, depositata oggi . Anche per valutare con attenzione il decorso della prescrizione. Da bradipo. Sono i tempi lenti di reazione di un avvocato a farlo finire sotto accusa per «patrocinio infedele» e a farlo condannare a otto mesi di reclusione, a pagare 400 euro di multa e a risarcire i danni alla parte civile, ossia i due clienti assistiti – male, secondo l’accusa – in un procedimento civile riguardante un’impugnativa di licenziamento. Per i giudici di primo e di secondo grado, l’avvocato ha ‘bucato’ i propri doveri professionali, non comunicando, ai due clienti, «l’esito favorevole del giudizio», ossia l’obbligo dell’azienda, chiamata in giudizio, a provvedere alla «riassunzione». Tutto ciò, per giunta, nonostante pressanti richieste, avanzate sia dai clienti che dal relativo sindacato. Tempi ed effetti. Secondo il legale, che rappresenta l’avvocato finito sul banco degli imputati, però, esiste una questione rilevante che i giudici non hanno affrontato con attenzione la richiesta di applicazione della prescrizione, avanzata in secondo grado. Più in dettaglio, il legale richiama il ‘calendario’ della vicenda, ossia deposito della pronuncia del Giudice del lavoro, tempi di esecuzione, ricorso per la dichiarazione di fallimento dell’azienda chiamata in giudizio e sentenza dichiarativa del fallimento, ultimo giorno utile per l’attivazione delle procedure di recupero delle somme riconosciute dal Giudice del lavoro, sostenendo, in sostanza, l’applicabilità della prescrizione. Secondo i giudici della Cassazione, però, ciò che è evidente è il mancato esame, in Appello, della «richiesta difensiva di emettere una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato già a far tempo della sentenza di primo grado». E tale lacuna è rilevante, sempre secondo i giudici, perché, pur considerando la condotta ‘incriminata’ protratta per quasi due anni, non viene chiarita «la ragione per cui l’ipotizzato nocumento sarebbe stato reiterato» né si precisa «quali siano i passaggi cronologici ritenuti rilevanti ai fini della collocazione temporale della condotta, e dunque necessari per individuare l’esatta data di consumazione del reato ed apprezzare, conseguentemente, la fondatezza o meno dell’eccezione difensiva» sulla prescrizione. Di conseguenza, la pronuncia di secondo grado va azzerata, e la questione dovrà essere approfondita nuovamente in Appello, tenendo presenti, chiariscono i giudici, i principi fissati dalla giurisprudenza sull’«infedeltà ai doveri professionali» e sul «nocumento agli interessi della parte» «la condotta infedele è quella che impedisce alla parte di ottenere i risultati attesi» «l’esame specifico dei singoli atti e comportamenti professionali, necessario per verificare la sussistenza della volontaria infedeltà del difensore, deve essere compiuto tenendo costantemente presente il quadro della linea difensiva» per «verificare l’esistenza di una volontaria infrazione del difensore ai suoi obblighi di fedeltà ed evitare il rischio di trasformare ogni singola attività, in sé discutibile o addirittura erronea, in una ipotesi di infedele patrocinio» «il nocumento recato agli interessi della parte, quale conseguenza della violazione dei doveri professionali, rappresenta l’evento del reato».
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 18 aprile - 3 luglio 2012, numero 25700 Presidente Lanza – Relatore De Amicis Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 27 aprile 2011 la Corte d’appello di Lecce ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Lecce il 24 giugno 2010, che condannava U.D. alla pena di mesi otto di reclusione ed euro 400,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, per il reato di cui agli articolo 81 e 380 cod. penumero , accertato in Lecce dal 24 maggio 2002 sino all’11 febbraio 2004. 2. Secondo la ricostruzione operata dalla Corte territoriale, che richiama al riguardo l’esito decisorio cui è pervenuto il Giudice di primo grado, l’imputato è stato riconosciuto colpevole per essersi reso infedele ai suoi doveri professionali, quale difensore di M.M. e del di lui figlio M.C., in un procedimento civile riguardante un’impugnativa di licenziamento e differenze paga dinanzi al Giudice del lavoro, arrecando nocumento alle parti da lui assistite, alle quali non comunicava l’esito favorevole del giudizio conclusosi in data 24 maggio 2002 con sentenza che ordinava la riassunzione dei due M. alla ditta “Makfer” s.a.s., condannandola al pagamento di alcune somme di denaro in loro favore esito processuale, quello appena indicato, che non sarebbe stato comunicato neanche su richiesta verbale degli interessati, poi del loro sindacato in data 24 aprile 2003, ed infine degli stessi interessati in data 12 dicembre 2003, nonostante avesse ritirato copia della predetta sentenza in data 18 settembre 2003 fatto accertato in Lecce dal 24 maggio 2002 sino all’11 febbraio 2004 . 3. Con ricorso per cassazione proposto avverso la su indicata sentenza d’appello, il difensore di U.D. ne ha chiesto l’annullamento con rinvio per un nuovo giudizio, ovvero senza rinvio per l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione in data antecedente alla pronuncia di primo grado, ovvero, ancora, a quella di secondo grado, dichiarando la decadenza di tutte le statuizioni civili riconosciute in primo e secondo grado, o, rispettivamente, nel secondo grado di giudizio. 3.1. Deduce, al riguardo, due motivi di impugnazione a violazione dell’articolo 606, comma primo, lett. e , cod. proc. penumero , per mancanza di motivazione in ordine alla richiesta avanzata dalla difesa di emettere una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato a far tempo dalla sentenza di primo grado, ex articolo 531 cod. proc. penumero h violazione dell’articolo 606, comma primo, lett. b , e lett. c , cod. proc. penumero , con riferimento all’articolo 157 cod. penumero , per erronea applicazione della legge penale ed inosservanza delle norme processuali, avendo la Corte d’appello disatteso la richiesta difensiva, proposta in via subordinata, di emissione di una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, con la conseguente dichiarazione di decadenza delle statuizioni civili ex articolo 578 cod. proc. penumero , atteso che sin dall’udienza del 24 giugno 2010, innanzi al Tribunale di Lecce, il reato risultava già estinto per decorso del tempo. 3.2. Espone, in particolare, il ricorrente che la sentenza del Giudice del lavoro era stata depositata in data 26 giugno 2002 e che la stessa poteva essere messa in esecuzione sino al 19 luglio 2002, data in cui è stato depositato il ricorso per la dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che, collocando la data di consumazione del reato al 19 luglio del 2002, lo stesso doveva considerarsi estinto sin dalla data della pronuncia di primo grado, essendo il termine massimo di prescrizione maturato alla data del 20 gennaio 2010 di contro, anche assumendo la data del 5 marzo 2003 data di emissione della sentenza dichiarativa del fallimento della società , quale ultimo giorno utile indicato dalla Corte d’appello per l’attivazione delle procedure di recupero delle somme riconosciute dal Giudice del lavoro, la prescrizione massima risulterebbe comunque maturata in data 6 settembre 2010, ossia in epoca comunque antecedente alla pronuncia della sentenza di secondo grado, avvenuta nell’aprile del 2011. Considerato in diritto 4. Il ricorso è fondato, e va conseguentemente accolto, nei termini di seguito esposti. 5. In ordine al primo motivo di doglianza, in particolare, deve osservarsi che con l’impugnata decisione la Corte territoriale si è pronunciata sul merito della regiudicanda, confermando le statuizioni già espresse dal Giudice di prime cure, senza tuttavia esaminare la richiesta difensiva di emettere una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato già a far tempo dalla sentenza di primo grado. Pur risultando dal capo d’imputazione che la condotta addebitata all’imputato si sarebbe in vario modo protratta a decorrere dal 24 maggio 2002, sino alla data dell’11 febbraio 2004, l’iter motivazionale dell’impugnata pronuncia non chiarisce tuttavia la ragione per cui l’ipotizzato nocumento sarebbe stato reiterato sino alla data or ora indicata, né precisa quali siano i passaggi cronologici ritenuti rilevanti ai fini della collocazione temporale della condotta, e dunque necessari per individuare l’esatta data di consumazione del reato ed apprezzare, conseguentemente, la fondatezza o meno dell’eccezione difensiva. Al riguardo, invero, occorre considerare che la giurisprudenza di questa S.C. ha da tempo affermato che il vizio di mancanza di motivazione ai sensi dell’articolo 606, comma primo, lett. e , cod. proc. penumero , sussiste non solo quando vi sia un difetto grafico della stessa, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate del requisito della decisività Sez. 6, numero 35918 del 17/06/2009, dep. 16/09/2009, Rv. 244763 Sez. 5, numero 6945 del 09/05/2000, dep. 12/06/2000, Rv. 216765 . In ordine allo specifico profilo sopra evidenziato si rende necessario, pertanto, un nuovo esame da parte della Corte territoriale, tenendo conto del consolidato quadro di principi giurisprudenziali elaborati dalla S.C., secondo cui la materialità del reato ipotizzato si concretizza in una condotta che, mediante l’infedeltà ai doveri professionali, arrechi nocumento agli interessi della parte Sez. 6, numero 3785 del 02/03/1992, dep. 02/04/1992, Rv. 189794 . In ordine alla nozione di nocumento, invero, si è già affermato, in questa Sede a che nonostante la difficoltà di individuare una sicura linea di demarcazione tra l’illecito disciplinare e la condotta integratrice del reato, data l’unicità del parametro di riferimento, costituito dalle norme deontologiche professionali, la condotta infedele è quella che impedisce alla parte di ottenere i risultati attesi con l’esplicazione di un’attività professionale che risponda ai requisiti della correttezza e della lealtà e che sia affidabile, sì da garantire, più in generale, la tutela dell’interesse pubblico al buon funzionamento della giustizia Sez. 6, numero 31678 del 28/03/2008, dep. 29/07/2008, Rv. 240645 b che l’esarne specifico dei singoli atti e comportamenti professionali - necessario per verificare la sussistenza della volontaria infedeltà del difensore - deve essere compiuto tenendo costantemente presente il quadro complessivo della linea difensiva adottata nella sua obiettiva complessità solo seguendo tale impostazione si può verificare l’esistenza di una volontaria infrazione del difensore ai suoi obblighi di fedeltà ed evitare il rischio di trasformare ogni singola attività, in sè discutibile o addirittura erronea, in una ipotesi di infedele patrocinio Sez. 6, numero 39924 del 22/09/2005, dep. 03/11/2005, Rv. 233477 . Il nocumento recato agli interessi della parte, quale conseguenza della violazione dei doveri professionali, rappresenta dunque l’evento del reato, che non deve essere inteso soltanto come un vero e proprio danno patrimoniale, ma deve essere posto in relazione anche al mancato conseguimento di benefici di natura morale che la parte avrebbe tratto qualora il patrocinatore si fosse comportato lealmente Sez. 6, numero 29653 del 26/05/2011, dep. 25/07/2011, Rv. 250551 . Sulla base delle su esposte considerazioni, peraltro, il secondo motivo di ricorso deve ritenersi logicamente assorbito nel primo. 6. Ne discende, conclusivamente, l’annullamento con rinvio della gravata pronuncia, ai fini di una nuova deliberazione da parte della Corte territoriale, che dovrà adeguarsi ai su esposti principi di diritto, dandone adeguatamente conto in motivazione. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce per nuovo giudizio, disponendo la trasmissione degli atti.