La banca finanzia il genero del mafioso: garanzie ipotecarie a rischio

La garanzia ipotecaria vantata dell’istituto di credito non può essere opposta al sequestro disposto sull’immobile allorché difetti la buona fede della mutuante, circostanza in specie desumibile dalla violazione delle più elementari regole di prudenza bancaria nell’erogazione del mutuo e dall’accertata consapevolezza dei legami intercorrenti tra gli apparenti mutuatari e la criminalità organizzata.

Lo ha stabilito la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6136, depositata il 10 febbraio 2014. Credito al genero del capo clan. Nel caso di specie un Ente creditizio ha visto rigettare la sua istanza di dissequestro di un immobile ipotecato in suo favore a fronte dell’elargizione di un mutuo. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, infatti, l’immobile sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale del sequestro finalizzato alla confisca in ottemperanza alle disposizioni del codice antimafia - seppur formalmente in proprietà di una giovane coppia titolari nondimeno di un contratto di mutuo - doveva, in realtà, ricondursi al patrimonio di un boss mafioso sottoposto a procedimento penale. Il Tribunale, all’esito del giudizio di opposizione instaurato dalla mutuante, ha confermato la legittimità del provvedimento cautelare negando, per l’effetto, rilevanza alla paventata buona fede della banca. Ed invero, secondo la ricostruzione del giudice di merito, l’istituto di credito sarebbe stato perfettamente a conoscenza del vero ‘garante’ del mutuo stipulato, detta convinzione dovendosi trarre dall’appartenenza di uno dei mutuatari al clan mafioso nonché dai risicati redditi che i due giovani potevano vantare a garanzia dell’estinzione dell’ingente debito loro assunto quasi 350 milioni del vecchio conio . Richieste pretestuose. Sicché - nell’ottica del Tribunale - le richieste della banca, tese a rivendicare l’anteriorità della sua iscrizione ipotecaria rispetto al disposto sequestro dell’immobile, risultavano immeritevoli di accoglimento poiché chiaro appariva il rapporto di garanzia sottostante tra mutuante e vero mutuatario-capo clan. D’altra parte, ha concluso il giudice di prime cure, il retroscena dell’operazione economica sarebbe apparso all’evidenza in virtù delle più elementari leggi bancarie, del tutto ostative alla concessione di una garanzia bancaria nei confronti di chi - nel caso di specie, la giovane coppia squattrinata - in nulla poteva vantare una situazione reddituale in grado di onorare la posizione debitoria assunta, né la semplice garanzia ipotecaria sull’immobile poteva soprassedere a una tale insolvenza. La banca poteva non sapere? La questione è stata sottoposta all’attenzione dei giudici di legittimità, cui è stato chiesto di annullare la decisione reiettiva di primo grado insistendo con le argomentazioni già in precedenza reiterate ed in particolare quelle volte a sottolineare l’affidamento incolpevole dell’istituto di credito sulla solvibilità dei mutuatari – giusta la documentazione reddituale che questi ebbero a presentarle al momento dell’apertura del mutuo – unita all’irrilevanza e, comunque, mancata conoscenza, dei rapporti che sussistevano tra uno dei mutuatari e il boss mafioso, e tanto ad onta della risonanza mediatica delle azioni criminose che i due commisero in tempi contemporanei alla vicenda negoziale. Le regole di prudenza bancaria quale indice sintomatico. Ebbene, gli Ermellini, nel rigettare il ricorso, per l’effetto confermando la legittimità del provvedimento censurato, hanno preliminarmente rimarcato la prevalenza delle ragioni pubblicistiche sottese alla legislazione antimafia su quelle, privatistiche, volte a tutelare le ragioni del ceto creditorio. Quanto al merito della vicenda, invece, i giudici romani hanno vieppiù confermato la ricostruzione svolta dal Tribunale sottolineando l’inavvedutezza o forse la mala fede dell’istituto di credito nell’elargire la somma mutuata in favore di personaggi che non potevano garantire idonea solvibilità ma, soprattutto, che apparivano - di tutta evidenza - legati a filo doppio con la consorteria camorristica. In altri termini, l’assenza di redditività sufficiente ad operare l’acquisto dell’immobile avrebbe dovuto indurre la banca a dubitare, oltre che della solvibilità dei clienti, della provenienza lecita del capitale versato in acconto per l’acquisto dell’immobile di converso, la palese violazione da parte dell’istituto di credito delle più elementari regole di prudenza bancaria lasciava presumere – quasi forzatamente – la consapevolezza del mutuante in ordine alla presenza di ulteriori garanzie che i mutuatari potevano vantare, e cioè quelle provenienti dai capitali gestiti dal clan territoriale.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 11 dicembre 2013 – 10 febbraio 2014, n. 6136 Presidente Siotto – Relatore Caprioglio Ritenuto in fatto 1. Con provvedimento del 21.11.2012, il Tribunale di Napoli, all'esito del giudizio di opposizione intentato dalla Banca Nazionale del Lavoro, avverso l'ordinanza con cui era stata rigettata istanza tesa a fare dichiarare la buona fede dell'istituto titolare di ipoteca volontaria, iscritta precedentemente alla trascrizione del decreto di sequestro, prodromico alla confisca, disposta con decreto del 14.4.2004 nei confronti di V.A. , rigettava l'opposizione. 2. Il Tribunale premetteva che era stato stipulato un contratto di mutuo in data 12.2.2002, per la somma di Euro 103.291, in relazione al quale era stata concessa ipoteca volontaria su immobile sito in omissis , ritenuto nella disponibilità di V.A. , ipoteca ritualmente iscritta prima del sequestro dell'immobile, che era stato trascritto il giorno 1.10.2003, a cui era seguita la confisca. La difesa di BNL aveva chiesto di accertare la buona fede dell'istituto nel momento in cui aveva concesso il mutuo a favore di C.R. genero di V.A. , Vo.An. figlia di quest'ultimo e C.A. aveva rappresentato che a seguito della morte della V. , erano state iniziate le procedure per accertare la destinazione dell'immobile, ma si era appreso che gli eredi non avevano accettato l'eredità, che era stato nominato un curatore dell'eredità giacente dalla cui relazione la BNL aveva appreso che l'eredità della V. era stata confiscata ed acquisita dallo Stato. Veniva poi riaffermato, richiamando un arresto di questa Corte di legittimità, che ai fini dell'opponibilità del diritto di garanzia non basta che l'ipoteca sia stata costituita mediante iscrizione nei pubblici registri immobiliari, prima della trascrizione del sequestro ex art. 2 ter legge 575/1965, ma è richiesta l'inderogabile condizione che il creditore ipotecario si sia trovato in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole, dovendosi individuare in quest'ultimo requisito la base giustificativa della tutela del terzo, di fronte al provvedimento autoritativo di confisca adottato dal giudice della prevenzione, a norma della legislazione antimafia. Veniva aggiunto che sui terzi incombe l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fatta valere sul bene confiscato, che nell'ipotesi di confisca di prevenzione significa che i terzi devono fornire la prova sia della titolarità dello ius in re aliena, sia della mancanza di qualsiasi collegamento del proprio diritto con l'attività illecita del proposto, derivante da condotte di agevolazione, quando non di fiancheggiamento. Detto ciò, il Tribunale ribadiva che non poteva essere riconosciuta la buona fede dell'istituto perché a le somme percepite dai coniugi C. nel periodo di riferimento erano a stento sufficienti per mantenere il nucleo familiare, composto anche da due figli minori, con il che la situazione reddituale non offriva sufficienti garanzie per l'estinzione del debito b era notorio che la famiglia C. era appartenente alla consorteria criminale del V. in particolare veniva ricordato che il V. era stato arrestato il omissis , quando fu colto ad essere scortato da due giovani armati a bordo di motocicletta, tra cui il C. , il che dimostrava la levatura criminale del V. e la posizione di stretta vicinanza del C. al malavitoso V. . Ancora veniva ricordato che in prossimità della data di concessione del mutuo, e per la precisione il omissis , ignoti avevano collocato un ordigno in , ove si trovava la sede sociale dell'esercizio commerciale del C. , la cui esplosione ebbe a danneggiare, sia l'auto che il negozio sede dell'esercizio denominato OMISSIS del medesimo, fatto questo che era stata interpretata come ritorsione contro il V. , significativo del coinvolgimento in circuiti delinquenziali del prevenuto. Veniva concluso nel senso che la banca avrebbe dovuto essere mossa da maggiore cautela nell'accordare il prestito, essendo notorie le vicende criminali del capo clan Vollaro, con posizione apicale in seno alla consorteria, che condizionava le attività economiche presenti sul territorio, nonché gli strettissimi vincoli di affinità tra V. e C. . Non rispondeva quindi ai principi di buona fede quanto era stato affermato dalla banca sulla impossibilità di conoscere i precedenti del C. e la sua vicinanza alla criminalità organizzata. Senza contare poi che la banca era a conoscenza delle dichiarazioni dei redditi del C. e della sua famiglia, per gli anni 1994/1996, da cui risultavano redditi dichiarati tra i tre milioni ed i 23.700.000 di lire annui, somme che non consentivano di accreditare una situazione reddituale tranquillante per la banca erogante il prestito, anche a voler contare sui modesti redditi da lavoro di Vo.An. , ovvero sulla redditività della snc ICONA, che tra il 1993 ed il 2001 ebbe a dichiarare un volume d'affari alquanto contenuto. Veniva aggiunto che C.A. , anch'egli mutuatario, aveva redditi appena sufficienti per farlo sopravvivere. L'istruttoria sul credito aperto dalla banca fu assolutamente carente, essendosi limitata la banca ad acquisire le dichiarazioni del C. , relative agli anni 2000/2001, laddove proprio la costituzione della società ICONA suindicata, risalente a quando C. aveva appena venti anni e la moglie ne aveva diciannove, sembravano suggerire una provenienza illecita dei capitali per l'avvio della stessa, da collegarsi anche all'attentato subito presso la sede di altra attività commerciale la omissis di cui si è detto. Veniva aggiunto che il valore dell'immobile per il cui acquisto era stato stipulato il mutuo era di oltre 345 milioni di lire, cifra che non si confaceva alle capacità reddituali degli acquirenti, ragion per cui veniva ritenuta fondata l'ipotesi che detto immobile fosse da ricondurre al V. , stante l'insufficienza dei redditi dichiarati dai C. , che non risultavano in grado di pagare una rata mensile di ben 771.000 lire. Veniva concluso nel senso che le ordinarie norme di prudenza bancaria avrebbero richiesto maggiore cautela, non essendo sufficiente una garanzia ipotecaria, ma imponendosi una previsione di capacità reddituale che se mai fosse stata compiuta, il mutuo non sarebbe mai stato accordato. 3. Avverso tale decisione, interponeva ricorso per cassazione la BNL, pel tramite del suo difensore, per dedurre inosservanza e/o erronea applicazione dell'art. 2 ter L. 31.5.1965, n. 575, nonché violazione di legge e vizio di motivazione,in merito alla ritenuta insussistenza della buona fede e dell'affidamento incolpevole in capo all'istituto di credito istante secondo la difesa, la corte avrebbe instaurato una sorta di presunzione di conoscenza in capo all'istituto di un fatto reputato come notorio, in quanto diffuso con il mezzo della stampa arresto del C. come guardaspalle del V. ed avrebbe velatamente istituito una sorta di collegamento tra il diritto preteso dall'Istituto e l'attività illecita del V. . La banca invero avrebbe operato secondo le regole di ordinaria diligenza, sulla congruità tra somma mutuata e redditi dichiarati e verificati dai richiedenti l'erogazione allorquando venne stipulato il contratto di mutuo, in data 12.2.2002, non erano ancora emersi eventi pregiudizievoli di alcun tipo, risultando all'epoca invece attività commerciali e redditi adeguati alla richiesta avanzata. La BNL concesse quindi il mutuo prima del decreto di sequestro, che venne conosciuto tra l'altro con molto ritardo ed era proprio l'allegazione documentale fornita dalla banca, ricevuta dai soggetti richiedenti il mutuo ad aver definito i contorni del devolutum al tribunale, che avrebbe dovuto accertare se da quanto in possesso della banca investita dell'istruttoria, fossero risultati eventi pregiudizievoli o redditi inidonei, tali da non consentire di ritenere che il mutuo non fosse stato concesso in buona fede. Pertanto la motivazione viene ritenuta illogica. Ancora vien fatto di rilevare sull'onda degli arresti delle Sezioni Unite, che in presenza di situazione di oggettiva apparenza, così come rinvenibile nel fascicolo istruttorio della BNL, che rende scusabile l'ignoranza da parte degli operatori della banca della vicinanza dei mutuatari ad ambiente camorristici, risulta ingiustamente lesiva del riconosciuto ius in re aliena e violativa della ratio della norma contenuta nell'art. 2 ter l. 575/1965. La congruità tra redditi dichiarati ed importo del mutuo richiesto, che fonda la previsione di solvibilità dei mutuatari, è stata valutata sulla base di documenti prodotti dai richiedenti il mutuo, con domanda introdotta nel settembre 2001 e non avvalendosi delle indagini reddituali evincibili dal successivo decreto di confisca. 4. Il Procuratore Generale, con parere motivato, ha chiesto di dichiarare l'inammissibilità del ricorso. 5. Con memoria depositata il 25.11.2013, l'Agenzia Nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e l'Agenzia delle dogane hanno chiesto di dichiarare l'inammissibilità del ricorso di BNL in particolare è stato rilevato che il tribunale aveva congruamente motivato quanto al fatto che i redditi ufficiali dei soggetti richiedenti il mutuo erano assolutamente insufficienti per poter affrontare l'acquisto dell'immobile e quindi garantire il pagamento delle rate del mutuo. Inoltre, in ragione delle notizie di stampa sulle imprese criminali del V. ed i rapporti di parentela di questi con i richiedenti il mutuo, non doveva essere consentito alla Banca di opporre la non conoscenza dei collegamenti dei due con il V. e quindi i rischi collegati all'operazione. Considerato in diritto Il ricorso va dichiarato inammissibile, perché si incentra su profili di valutazione che vanno al di là del perimetro delineato dall'art. 4 comma 11 l. 1423/1956. Il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione, in coerenza con la natura e la funzione del relativo procedimento, è limitato alla violazione di legge e non si estende al controllo del discorso giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante, nel qual caso si profilerebbe il vizio di violazione di legge. Sul punto è appena il caso di ricordare che la limitazione del ricorso alla sola violazione di legge è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale non irragionevole sent. n. 321/2004 , data la peculiarità del procedimento di prevenzione, sia sul piano processuale, che su quello sostanziale. Detto ciò va aggiunto che la ricorrente, seppure abbia denunciato formalmente anche il vizio di violazione ed erronea applicazione di legge, in sostanza contesta la motivazione del provvedimento impugnato, nella chiara prospettiva di accreditare una diversa interpretazione delle circostanze di fatto emerse e di depotenziare gli elementi posti a base del giudizio, che avevano indotto ad ipotizzare una mala fede in capo agli operatori della banca che elargirono un credito eccessivamente elevato e soprattutto non sufficientemente garantito a soggetti in grado di destare sospetti in ragione dei legami parentali con persone contigue ad ambienti mafiosi. Il provvedimento impugnato è sorretto da un apparato argomentativo adeguato e correlato alle risultanze in atti, le quali sono state apprezzate e valutate nel pieno rispetto dei parametri normativi di riferimento, ragion per cui non può parlarsi di motivazione mancante o apparente e quindi di violazione di legge. Infatti, il tribunale nel suo provvedimento non si è sottratto alla valutazione degli argomenti spesi dalla BNL in sede di opposizione, ancorché i dati di fatto posti a fondamento della decisione non siano neppure stati messi in discussione dalla BNL, che si è limitata ad avanzare riserve sulla conoscibilità sia della contiguità dei mutuatari con personaggi di spicco della consorteria camorrista, sia dell'adeguatezza dell'istruttoria compiuta a suo tempo sulla capacità reddituale dei mutuatari, in vista della capacità di fare fronte al pagamento del debito contratto. È bene premettere che è recente l'arresto delle Sezioni Unite civili 7.5.2013, n. 10532, Rv 626570 , richiamato dall'Agenzia Nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità, con cui è stato definito che nel conflitto di interesse del creditore a soddisfarsi sull'immobile ipotecato e quello dello Stato a confiscare i beni che siano frutto o provento di attività mafiosa, deve prevalere il secondo, cosicché è inopponibile allo Stato l'ipoteca iscritta su di un bene immobile confiscato, ai sensi della legge 31.5.1965, n. 575, prima che ne sia stata pronunciata l'aggiudicazione nel procedimento di espropriazione forzata. Il Tribunale ha offerto una serie di argomenti con attitudine dimostrativa della mancanza di buona fede o di affidamento incolpevole da parte della banca mutuante ed in particolare la inconsistenza dei redditi dei richiedenti il mutuo, per potere affrontare l'acquisto dell'immobile del costo di 345 milioni di lire, con valore dichiarato di soli Euro 61.143, coperto per 103.000 Euro da mutuo fondiario , ma soprattutto per garantire il pagamento delle rate di mutuo dato a valenza obiettiva , nonché l'opacità dei soggetti richiedenti il mutuo, collegati con il clan V.A. , essendo stato il padre della C. il guardiaspalle del menzionato V. , da cui si ipotizzava provenissero le disponibilità economiche per l'acquisto. Tali circostanze erano di tale spessore da non potere indurre alla massima cautela l'istituto di credito, onde evitare il rischio di collisione del privato interesse della banca con il prevalente interesse pubblico alla prevenzione criminale e mafiosa. In buona sostanza, la mancanza di redditività sufficiente ad operare l'acquisto, così come risultava dalla documentazione disponibile presso la banca, non avrebbe mai potuto indurre all'erogazione del mutuo, se solo fossero state seguite le regole della prudenza bancaria che presiedono l'apertura di linee di finanziamenti quanto meno la banca avrebbe dovuto fare accertamenti sulla provenienza del capitale iniziale, non corrispondente alle dichiarazioni dei redditi il fatto che siano state superate le comuni regole di cautela, anche in vista del pagamento dei ratei, veniva fondatamente ricondotto alla consapevolezza in capo alla banca della esistenza di un patrimonio del clan camorristico, imperante sul territorio, che era in grado di compensare in termini di garanzia, il rischio di insolvenza in capo ai mutuatari. La inadeguatezza della documentazione relativa all'istruttoria esperita a cui ha fatto riferimento la ricorrente a sua difesa, depone al contrario per una consapevolezza in capo agli organi della banca che l'immobile fu acquistato dai coniugi C. non con i proventi della loro attività che non erano matematicamente adeguati , bensì con proventi illeciti, frutto dell'attività svolta in contiguità con personaggi camorristici che avevano il controllo del territorio. Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità del ricorso a tale declaratoria, riconducibile a colpa della ricorrente, consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro mille a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell'art. 616 cpp, così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.