In materia di responsabilità professionale dell'avvocato conseguente alla tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, alla quale faccia seguito l'impossibilita per il cliente di ottenere in sede di appello una condanna a pena minore, il danno da risarcire in favore del condannato, di natura non patrimoniale, va a ristorare la sofferenza conseguente al protrarsi di una detenzione che non può tuttavia considerarsi ingiusta
In materia di responsabilità professionale dell'avvocato conseguente alla tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, alla quale faccia seguito l'impossibilita per il cliente di ottenere in sede di appello una condanna a pena minore, il danno da risarcire in favore del condannato, di natura non patrimoniale, va a ristorare la sofferenza conseguente al protrarsi di una detenzione che non può tuttavia considerarsi ingiusta il che comporta che i criteri assunti dalla giurisprudenza penale per la liquidazione del danno da ingiusta detenzione euro 235,83 al giorno non possono essere acquisiti in modo automatico in sede civile, ma necessitano di un adattamento alla particolarità della situazione, che il giudice di merito è chiamato a compiere, trattandosi di una liquidazione in via equitativa. La Sezione Terza civile della Cassazione sentenza numero 12280/16 depositata il 15 giugno ha dettato un importante principio inerente i criteri da utilizzare per la liquidazione del danno in caso di responsabilità professionale degli avvocati. In particolare il tema è quello del danno da “ingiusta” detenzione. Il caso la contestazione del cliente all’avvocato. Un cliente conveniva in giudizio il suo avvocato chiedendo che fosse condannato, a titolo di responsabilità professionale, al risarcimento dei danni conseguenti all'ingiusta privazione della liberta personale ed alla perdita di chances da lui sofferte. A sostegno della domanda il cliente esponeva che l’avvocato, suo difensore in un processo penale che lo aveva visto condannato alla pena di sette anni di reclusione nel giudizio di primo grado, aveva proposto tardivamente l'appello, determinando in tal modo l'impossibilita per lui di fruire del patteggiamento della pena ottenuto dagli altri coimputati nella misura di anni cinque e mesi dieci di reclusione, nonché di altri benefici. La posizione difensiva dell’avvocato. Il difensore si costituiva nel giudizio risarcitorio ammettendo la tardività dell'appello ma contestando l'esistenza di un danno risarcibile in via subordinata, chiamava in causa in manleva la propria assicurazione. Quest’ultima si costituiva, da un lato, aderendo alla linea difensiva dell’assicurato, dall’altro lato, eccependo l'inoperatività della polizza in quanto limitata alle sole perdite patrimoniali. La decisione di primo grado Il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria, condannava l’avvocato al pagamento di euro 25.000 per 365 giorni di privazione della libertà, rigettando le ulteriori domande risarcitorie e ritenendo non operante la polizza assicurativa professionale non avente ad oggetto il “danno non patrimoniale”. e quella di secondo grado. In appello, il danneggiato otteneva un maggior danno oltre 100 mila euro ma non quello da perdita di chance, e l’avvocato otteneva la condanna della assicurazione alla manleva. Infatti, pur essendo vero che il danno da ingiusta detenzione può essere qualificato in parte anche come danno non patrimoniale e quindi non coperto dalla polizza perché considera il patimento psico-fisico subito dalla persona sottoposta a ingiusta detenzione, tale danno assume in sede di liquidazione un contenuto che è ovviamente patrimoniale, per cui doveva ugualmente affermarsi l'esistenza di un obbligo di manleva in capo alla società di assicurazione. Il ricorso per cassazione il danno “non patrimoniale” a seguito di liquidazione diventa “patrimoniale”? Secondo la Corte d’appello, il danno in questione era di natura non patrimoniale, ma lo stesso andava peraltro considerato “patrimoniale” in sede di liquidazione. Secondo gli Ermellini, invece, il danno non patrimoniale è cosa diversa da quello patrimoniale, per cui l'atto della liquidazione non comporta alcun cambiamento della natura del danno, ovvio essendo che la liquidazione traduce comunque il pregiudizio sofferto in un'entità economicamente valutabile. L'argomentazione della Corte d'appello va quindi corretta, perché essa finisce col cancellare completamente la differenza tra i due tipi di danno. I criteri usati dai giudici di merito per la liquidazione del danno. La Corte d'appello ha liquidato il danno in base al seguente iter logico 1 il cliente è stato condannato alla pena di sette anni di reclusione e, in conseguenza della tardività dell'appello, non ha potuto beneficiare del patteggiamento della pena ottenuto in appello dai coimputati, i quali per gli stessi reati avevano così lucrato una riduzione della pena ad anni cinque e mesi dieci di reclusione, cioè quattordici mesi di reclusione in meno 2 assumendo come parametro la somma di euro 235,83 al giorno per ogni giorno di ingiusta detenzione, il danno da liquidare era pari ad euro 100.277,75, corrispondente ai 425 giorni di reclusione in più. La Corte d’appello ha usato i criteri per la liquidazione della “ingiusta detenzione” Il calcolo riferito, esatto da un punto di vista matematico, si fonda sui principi affermati più volte dalla giurisprudenza penale in merito ai criteri di computo della somma da liquidare per ogni giorno di ingiusta detenzione, in assenza di un'espressa regolazione da parte degli articolo 314 e 315 cod. proc. penumero e di criteri prestabiliti per legge. ma tali criteri non possono essere applicati, sic et simpliciter, in un giudizio come quello esaminato, i cui presupposti sono affatto diversi. La più lunga detenzione che il cliente ha subito non è una detenzione ingiusta, ma può esserlo solo in via ipotetica, perché egli è stato condannato ad una pena detentiva in primo grado, evidentemente confermata in appello a causa della tardività dell'impugnazione proposta dall’avvocato ed è questo il profilo di responsabilità che interessa nella fattispecie . Si tratta, dunque, di una condanna del tutto legittima alla quale ha fatto seguito una detenzione altrettanto legittima. Il Giudice di merito, in questa ipotesi peculiare, deve effettuare una valutazione non automatica del danno. Muovendo da tali presupposti, a dire della Suprema Corte il criterio economico assunto come parametro dalla Corte d’appello non è automaticamente utilizzabile nel caso di specie, nel quale si discute della liquidazione di un danno patito da un condannato che avrebbe subito una condanna minore se l’appello fosse stato tempestivo. Ne consegue che tale criterio, pur essendo quello che, almeno in astratto, più si avvicina al caso in esame, può essere assunto a parametro, ma di una valutazione non automatica, trattandosi di una liquidazione che deve avvenire secondo criteri equitativi. Il principio affermato dalla Cassazione. In materia di responsabilità professionale dell'avvocato conseguente alla tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, alla quale faccia seguito l'impossibilita per il cliente di ottenere in sede di appello una condanna a pena minore, il danno da risarcire in favore del condannato, di natura non patrimoniale, va a ristorare la sofferenza conseguente al protrarsi di una detenzione che non può tuttavia considerarsi ingiusta il che comporta che i criteri assunti dalla giurisprudenza penale per la liquidazione del danno da ingiusta detenzione euro 235,83 al giorno non possono essere acquisiti in modo automatico in sede civile, ma necessitano di un adattamento alla particolarità della situazione, che il giudice di merito è chiamato a compiere, trattandosi di una liquidazione in via equitativa.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 12 febbraio – 15 giugno 2016, numero 12280 Presidente Armano – Relatore Cirillo Svolgimento del processo 1. D.P.L. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Monza, l’avv. S.M. , chiedendo che fosse condannata, a titolo di responsabilità professionale, al risarcimento dei danni conseguenti all’ingiusta privazione della libertà personale ed alla perdita di chances da lui sofferte. A sostegno della domanda espose che l’avv. S. , suo difensore in un processo penale che lo aveva visto condannato alla pena di sette anni di reclusione nel giudizio di primo grado, aveva proposto tardivamente l’appello, determinando in tal modo l’impossibilità per lui di fruire del patteggiamento della pena ottenuto dagli altri coimputati nella misura di anni cinque e mesi dieci di reclusione, nonché di altri benefici. Si costituì in giudizio l’avv. S. , ammettendo la tardività dell’appello e contestando l’esistenza di un danno risarcibile in via subordinata, la professionista chiese di poter chiamare in manleva la s.p.a. Assicurazioni generali. Quest’ultima si costituì, aderendo in parte alla linea difensiva dell’avv. S. ed eccependo, comunque, l’inoperatività della polizza, in quanto limitata alle sole perdite patrimoniali. Il Tribunale accolse in parte la domanda, condannò l’avv. S. al pagamento di Euro 25.000 per 365 giorni di privazione della libertà, rigettò le ulteriori domande risarcitorie, ritenne non operante la polizza assicurativa professionale con le Assicurazioni generali e condannò la professionista al pagamento del 50 per cento delle spese di giudizio. 2. La sentenza è stata appellata in via principale dal D. ed in via incidentale dall’avv. S. e la Corte d’appello di Milano, con sentenza dell’11 marzo 2013, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha liquidato il danno in favore del D. nella maggiore somma di euro 100.227,75, oltre interessi ha rigettato l’appello principale sul danno da perdita di chances ha rigettato l’appello incidentale in ordine all’esistenza della responsabilità professionale ha invece accolto il medesimo appello incidentale sul punto della manleva, condannando le Assicurazioni generali a tenere indenne l’avv. S. per ogni somma di cui alla condanna ed ha infine regolato le spese di lite. 2.1. Ha osservato la Corte territoriale che doveva essere confermata la decisione del Tribunale circa la sussistenza della responsabilità professionale dell’avv. S. ella, infatti, pur gravata del relativo onere probatorio, non aveva fornito alcuna convincente prova di un’assenza di una sua responsabilità professionale in ordine all’omissione nella quale era incontestabilmente incorsa. Non vi era alcuna prova né del fatto che l’appello, se tempestivamente proposto, non sarebbe stato accolto, né del fatto che il D. non avrebbe potuto usufruire del patteggiamento della pena. Trattandosi di responsabilità professionale, le conseguenze dannose dovevano essere commisurate al fatto che altri coimputati condannati per gli stessi fatti avevano ottenuto una riduzione della pena pari a quattordici mesi per effetto del patteggiamento. Ciò premesso, la Corte d’appello ha ritenuto che fosse più congruo applicare al caso in esame i parametri dell’ingiusta detenzione piuttosto che quelli dell’invalidità temporanea pertanto, considerato che il cliente aveva patito una detenzione ingiusta di 425 giorni, considerando la somma giornaliera di euro 235,83, si perveniva alla somma in precedenza indicata. Dopo di che, la Corte ha respinto la richiesta di ulteriore risarcimento per i danni da perdita di chances , siccome del tutto priva di supporti probatori. 2.2. In ordine alla domanda di manleva proposta dall’avv. S. , la sentenza in esame ha ricordato che il Tribunale l’aveva respinta sul rilievo che la polizza per la copertura dei rischi professionali stipulata con le Assicurazioni generali non copriva il risarcimento dei danni non patrimoniali provocati dal professionista. - Superando i rilievi della società di assicurazione - secondo i quali l’appello incidentale dell’avv. S. doveva essere ritenuto inammissibile per esistenza di un giudicato interno e per violazione dell’articolo 342 cod. proc. civ. - la Corte d’appello ha accolto l’appello incidentale, rilevando che la domanda di riforma della sentenza del Tribunale, sia pure in modo succinto, era stata proposta dall’avv. S. in relazione a tutte le somme richieste, per cui era da ritenere ammissibile. Pertanto, pur essendo vero che il danno da ingiusta detenzione possa essere qualificato in parte anche come danno non patrimoniale, perché considera il patimento psico-fisico subito dalla persona sottoposta a ingiusta detenzione , tale danno assume in sede di liquidazione un contenuto che è ovviamente patrimoniale , per cui doveva ugualmente affermarsi l’esistenza di un obbligo di manleva in capo alla società di assicurazione. 3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Milano propone ricorso principale la s.p.a. Assicurazioni Generali, con atto affidato a quattro motivi. Resiste l’avv. S.M. , con controricorso contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo. Resiste con separato controricorso D.P.L. . La ricorrente principale ha depositato memoria. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta, in riferimento all’articolo 360, primo comma, numero 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’articolo 2909 cod. civ. e degli articolo 324 e 342 del codice di procedura civile. Rileva la società ricorrente che l’avv. S. , nel proporre appello incidentale, aveva redatto un atto assai generico. Nello stesso, infatti, ci si era limitati ad osservare che, ove la Corte d’appello avesse accolto l’appello principale in relazione al danno da perdita di chances , trattandosi in quel caso di danno patrimoniale, la Corte d’appello avrebbe dovuto porre a carico della società di assicurazione, in via di manleva, tutte le somme che dovessero essere attribuite all’attore . Si deve ritenere, quindi, che si era formato il giudicato sia sulla natura non patrimoniale del danno liquidato dal Tribunale Euro 25.000 , sia sull’inoperatività della polizza in relazione a tale tipo di danno. L’appello incidentale, infatti, era riferito solo alla perdita di chances ed era un appello condizionato, nel quale la condizione era costituita dall’eventuale richiesta di accoglimento di quella ulteriore voce di danno. 1.1. Il motivo è fondato. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza 9 novembre 2011, numero 23299, hanno affermato che, affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che nell’atto di appello sia manifestata una volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico il principio è stato confermato dalla successiva ordinanza 22 settembre 2015, numero 18704 . La Corte d’appello di Milano non ha fatto, nella specie, buon governo di tale principio, in quanto ha osservato, come si è detto, che la domanda di riforma della sentenza del Tribunale, sia pure in modo succinto, era stata proposta dall’avv. S. in relazione a tutte le somme richieste, per cui era da ritenere ammissibile. Dall’esame degli atti processuali - consentito a questa Corte in considerazione della natura del vizio lamentato - emerge invece che l’avv. S. chiese nel giudizio di appello, in via principale, il rigetto della domanda del D. che chiedeva un risarcimento maggiore e, in accoglimento dell’appello incidentale, che fosse riconosciuta l’assenza di un qualsivoglia danno patito dal medesimo, con conseguente obbligo di restituzione, in capo al D. , delle somme versate in esecuzione della sentenza del Tribunale che aveva già accolto, sia pure per una somma molto più contenuta, la domanda risarcitoria . Soltanto in via subordinata, poi, l’avv. S. chiese che fosse accolta la domanda di manleva, respinta dal Tribunale, formulata nei confronti della s.p.a. Assicurazioni generali, ponendo a carico di quest’ultima tutte le somme che dovessero essere attribuite all’appellante D. . Dalla lettura del testo dell’atto di costituzione contenente l’appello incidentale emerge poi, come correttamente riportato dalla società di assicurazioni nel motivo di ricorso ora in esame, che non solo mancava una specifica formulazione di argomentazioni volte a censurare la sentenza del Tribunale in ordine alla natura non patrimoniale del danno ed alla non operatività della polizza assicurativa, ma che la richiesta di riconoscimento di validità di quest’ultima era posta in diretta dipendenza dell’eventuale accoglimento dell’appello del D. in ordine al riconoscimento del danno da perdita di chance ciò risulta dalla formula qualora però l’adita Corte dovesse accogliere sul punto la richiesta avanzata da controparte . Da tanto consegue che non può ritenersi validamente formulato, da parte della difesa dell’avv. S. , un vero appello incidentale contro la sentenza del Tribunale, né in ordine alla natura del danno liquidato né, soprattutto, in ordine alla operatività della polizza di assicurazione professionale nel caso in esame il che comporta che il primo motivo di ricorso deve essere accolto e che, di conseguenza, deve ritenersi passata in giudicato la sentenza del Tribunale su entrambi i punti ora richiamati. 2. Con il secondo motivo del ricorso principale si lamenta, in riferimento all’articolo 360, primo comma, numero 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli articolo 1229 e 1917 cod. civ. e dell’articolo 112 del codice di procedura civile. Rileva la società ricorrente che la clausola assicurativa in questione prevedeva che la società di assicurazione fosse tenuta a tenere indenne l’assicurato delle perdite patrimoniali che questi poteva avere causato a terzi nell’esercizio della professione forense, a titolo di negligenza, imprudenza o imperizia e la convenzione conteneva anche una definizione di quel danno, con riferimento a capitale, interesse e spese. È pacifico che l’avv. S. non aveva impugnato la clausola per nullità ne consegue che la Corte d’appello, richiamando l’articolo 1229 cod. civ., avrebbe in sostanza dichiarato la nullità della clausola in questione. Nella specie, poi, non si trattava di un contratto per adesione, che impone la protezione del contraente debole e l’approvazione per iscritto delle clausole vessatorie la polizza, infatti, era stata stipulata dalla Cassa nazionale forense per tutti gli appartenenti, pagando per di più un premio molto contenuto. 2.1. Osserva il Collegio che il motivo in esame può ritenersi assorbito dall’accoglimento di quello precedente se, infatti, la decisione del Tribunale in ordine alla non operatività della polizza è ormai passata in giudicato, evidente che non ha più senso continuare a discutere del contenuto di tale polizza, della mancanza di un’impugnazione del contratto per nullità e della necessità o meno di una firma separata per la clausola in questione. Ritiene tuttavia la Corte, nell’interesse della legge articolo 363, terzo comma, cod. proc. civ. , che debba essere dichiarata l’erroneità della motivazione resa dalla Corte d’appello di Milano là dove essa, come si è detto in precedenza, ha ritenuto che, pur dovendo il danno liquidato nella specie ritenersi di natura non patrimoniale, lo stesso divenisse patrimoniale in sede di liquidazione. Va invece fermamente ribadito, in considerazione della funzione istituzionale attribuita a questa Corte, che il danno non patrimoniale è cosa diversa da quello patrimoniale e che, perciò, l’atto della liquidazione non comporta alcun cambiamento della natura del danno, ovvio essendo che la liquidazione traduce comunque il pregiudizio sofferto in un’entità economicamente valutabile. L’argomentazione della Corte d’appello va quindi corretta, perché essa finisce col cancellare completamente la differenza tra i due tipi di danno. 3. Con il terzo motivo del ricorso principale si lamenta, in riferimento all’articolo 360, primo comma, numero 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli articolo 1223, 2056 e 2059 cod. civ. e degli articolo 314 e 315 del codice di procedura penale. Rileva la società ricorrente che sarebbe del tutto fuorviante il riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, alla ingiusta detenzione, mentre si sarebbe dovuto fare riferimento al danno da privazione della libertà personale di cui all’articolo 2 della legge 13 aprile 1988, numero 117. Ai fini dell’operatività della garanzia, infatti, deve sussistere una perdita patrimoniale di un terzo, mentre nel caso in esame il comportamento del professionista ha causato solo il sorgere del diritto al risarcimento di un danno non patrimoniale. Nell’atto introduttivo del giudizio, il D. non aveva mai richiamato le nozioni di mancato guadagno o di lucro cessante, anche perché egli era stato condannato per gravi reati, per cui certamente non poteva immaginarsi un danno da lucro cessante. In conclusione, i criteri risarcitori di cui agli articolo 314 e 315 cod. proc. penumero non sarebbero applicabili al caso di specie, non sussistendo alcuna ingiusta detenzione. 3.1. Occorre innanzitutto rilevare che, per le ragioni già dette in relazione al secondo motivo, l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale fa venire meno l’interesse all’esame del terzo, a causa dell’accertamento ormai irrevocabile della non operatività della polizza assicurativa nel caso in questione. Tuttavia il motivo non può ritenersi assorbito in quanto è stato proposto anche nel ricorso incidentale dell’avv. S. . Quest’ultimo atto, infatti, ha una duplice natura, perché da un lato si oppone all’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale e dall’altro si associa al terzo motivo di quel ricorso, ritenendo che siano inapplicabili, ai fini della liquidazione del danno, i criteri previsti per il danno da ingiusta detenzione. Ne consegue che il punto in questione, e cioè quello dei criteri di liquidazione del danno patito dal D. , deve essere ugualmente esaminato da questa Corte. 3.2. Tanto premesso, il Collegio osserva che il motivo è fondato. La Corte d’appello di Milano ha liquidato il danno in base al seguente iter logico 1 il D. è stato condannato alla pena di sette anni di reclusione e, in conseguenza della tardività dell’appello, non ha potuto beneficiare del patteggiamento della pena ottenuto in appello dai coimputati, i quali per gli stessi reati avevano così lucrato una riduzione della pena ad anni cinque e mesi dieci di reclusione, cioè quattordici mesi di reclusione in meno 2 assumendo come parametro la somma di euro 235,83 al giorno per ogni giorno di ingiusta detenzione, il danno da liquidare al D. era pari ad Euro 100.277,75, corrispondente ai 425 giorni di reclusione in più. Questo calcolo, esatto da un punto di vista matematico, si fonda sui principi affermati più volte dalla giurisprudenza penale di questa Corte in merito ai criteri di computo della somma da liquidare per ogni giorno di ingiusta detenzione, in assenza di un’espressa regolazione da parte degli articolo 314 e 315 cod. proc. penumero e di criteri prestabiliti per legge v. Sezioni Unite Penali, sentenza 9 maggio 2001, numero 24287, Caridi, nonché le più recenti sentenze 1 aprile 2014, numero 21077, Silletti, 1 aprile 2014, 29965, Chaaij, e 9 ottobre 2014, numero 6472, Rizzo . Rileva il Collegio, però, che tale criterio non può essere applicato, sic et simpliciter , in un giudizio come quello odierno, i cui presupposti sono affatto diversi. La più lunga detenzione che il D. ha subito - peraltro la Corte milanese nulla dice circa l’effettività della durata della pena detentiva sofferta - non è una detenzione ingiusta, ma può esserlo solo in via ipotetica, perché egli è stato condannato ad una pena detentiva in primo grado, evidentemente confermata in appello a causa della tardività dell’impugnazione proposta dall’avv. S. e questo è il profilo di responsabilità che interessa in questa sede . Si tratta, dunque, di una condanna del tutto legittima alla quale ha fatto seguito una detenzione altrettanto legittima. Muovendo da tali corretti presupposti, si comprende che il criterio economico assunto come parametro dalla Corte milanese non è automaticamente utilizzabile nel presente giudizio, nel quale si discute della liquidazione di un danno patito da un condannato che avrebbe subito una condanna minore se l’appello fosse stato tempestivo. Ne consegue che tale criterio, pur essendo quello che, almeno in astratto, più si avvicina al caso in esame, può essere assunto a parametro, ma di una valutazione non automatica, trattandosi di una liquidazione che deve avvenire secondo criteri equitativi. È evidente, perciò, che il giudice di rinvio, il quale sarà chiamato a procedere ad una nuova liquidazione, dovrà provvedere ad un congruo abbattimento della cifra stabilita nella sentenza che qui viene cassata, alla luce anche di tutti gli specifici connotati della concreta vicenda e, quindi, valutando l’effettiva durata della detenzione, i fatti di reato per i quali la condanna è intervenuta, la situazione personale del D. , il suo comportamento etc. . 3.3. Il terzo motivo del ricorso principale, formulato anche nel ricorso incidentale dell’avv. S. , pertanto, è accolto, enunciandosi il seguente principio di diritto In materia di responsabilità professionale dell’avvocato conseguente alla tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, alla quale faccia seguito l’impossibilità per il cliente di ottenere in sede di appello una condanna a pena minore, il danno da risarcire in favore del condannato, di natura non patrimoniale, va a ristorare la sofferenza conseguente al protrarsi di una detenzione che non può tuttavia considerarsi ingiusta il che comporta che i criteri assunti dalla giurisprudenza penale per la liquidazione del danno da ingiusta detenzione euro 235,83 al giorno non possono essere acquisiti in modo automatico in sede civile, ma necessitano di un adattamento alla particolarità della situazione, che il giudice di merito è chiamato a compiere, trattandosi di una liquidazione in via equitativa . 4. Con il quarto motivo di ricorso principale - che non in effetti, un vero e proprio motivo - la società ricorrente nota di aver eseguito la sentenza d’appello, pagando il danneggiato e l’avv. S. e versando le spese di giudizio. Chiede, pertanto, che la Corte di cassazione indichi, ai sensi dell’articolo 389 cod. proc. civ., il giudice competente alle restituzioni di quanto versato. 4.1. L’esame di questo motivo rimane evidentemente assorbito dall’accoglimento dei precedenti, perché ogni statuizione relativa al versamento di somme a titolo risarcitorio è ormai rimessa al giudice di rinvio. 5. In conclusione, è accolto il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri, ed è accolto il ricorso incidentale nell’unico motivo effettivamente proposto. In conseguenza dell’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio per quanto riguarda la domanda di manleva proposta dall’avv. S. nei confronti della s.p.a. Generali Assicurazioni, con condanna della professionista, in solido con D.P.L. , alla rifusione delle spese di tutti e tre i gradi di giudizio in favore della società di assicurazione, liquidati come da dispositivo. Quanto al resto, cioè per l’effettiva liquidazione del danno, la sentenza impugnata è cassata e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi al principio di diritto sopra enunciato. Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri accoglie il ricorso incidentale cassa la sentenza impugnata senza rinvio in ordine alla domanda di manleva proposta dall’avv. S. nei confronti della s.p.a. Assicurazioni Generali cassa quanto al resto la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione condanna l’avv. S. , in solido con D.P.L. , alla rifusione delle spese in favore della s.p.a. Assicurazioni Generali, che si liquidano quanto al primo grado nella somma complessiva di Euro 3.500, quanto al secondo grado nella somma complessiva di Euro 8.000 e quanto al giudizio di cassazione nella somma complessiva di Euro 7.500, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.