Riconosce la foto del fornitore e ne indica la residenza: questa è collaborazione

In tema di reati concernenti sostanze stupefacenti, ai fini del riconoscimento dell’attenuante per collaborazione ex art. 73, comma 7, D.P.R. n. 309/1990, è sufficiente che l’imputato abbia offerto tutto il suo patrimonio di conoscenze e la sua possibilità di collaborazione per evitare che l’attività delittuosa sia portata a ulteriori conseguenze, attraverso l’individuazione e la neutralizzazione dei responsabili da lui conosciuti.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 37804, depositata il 16 settembre 2013. Spaccio di modesta rilevanza. Una donna era stata condannata per il reato di cui all’art. 73, comma 1 bis D.P.R. n. 309/1990, per aver detenuto presso la propria abitazione gr. 1000 di hashish di cui doveva presumersi la destinazione allo spaccio. Contro tale decisione, l’imputata ha presentato ricorso per cassazione, deducendo il mancato riconoscimento delle attenuanti ex art. 73, comma 7 e 5, D.P.R. n. 309/1990. Il comma 7 prevede, per il reato in questione, la diminuzione della pena per chi si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti. Invece, il comma 5 prevede l’attenuante quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti sono di lieve entità. Attenuanti speciali negate. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso, essendo effettivamente carente la motivazione con la quale la Corte d’Appello ha negato il riconoscimento di tutte le attenuanti richieste. Secondo Piazza Cavour, i giudici territoriali - dichiarando che non vi era prova di un contributo significativo alle indagini da parte dell’imputata - hanno omesso di prendere in considerazione e di valutare una serie di circostanze che potevano incidere sulla decisione in particolare la revoca della misura cautelare poiché la donna, fin da subito, aveva assunto un atteggiamento collaborativo e l’indicazione della residenza del fornitore con successiva condanna di quest’ultimo grazie alle dichiarazioni della ricorrente. Infatti, secondo il S.C., non è necessario, quando si è in presenza di traffici di modesta rilevanza, che il risultato conseguito dalla collaborazione consista nella sottrazione al mercato di rilevanti risorse per la commissione dei delitti. Principio attivo determinante ai fini della riduzione della pena. Inoltre, il Collegio ha ritenuto analogo vizio di motivazione anche in relazione all’attenuante del comma 5 dell’articolo citato, in quanto la Corte distrettuale ha attribuito rilievo unicamente al profilo del peso della sostanza, senza pronunciarsi sulla bassissima percentuale di principio attivo rinvenuto. In conclusione, la sentenza impugnata è stata annullata, per vizio di motivazione, limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 9 maggio - 16 settembre 2013, n. 37804 Presidente Squassoni – Relatore Franco Svolgimento del processo Con la sentenza in epigrafe la corte d'appello di Trieste confermò, per quanto ora interessa, la sentenza emessa l’1.3.2008 dal giudice del tribunale di Udine, che aveva dichiarato G.E. colpevole del reato di cui all'art. 73, comma 1 bis, d.p.R. 309 del 1990 per avere detenuto presso la propria abitazione gr.1000 di hashish di cui doveva presumersi la destinazione allo spaccio, e la aveva condannata alla pena di anni 4 di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa oltre pene accessorie. L'imputata, a mezzo dell'avv. Vincenzo Cinque, propone ricorso per cassazione deducendo 1 violazione e falsa applicazione dell'art. 73, comma 7, d.p.R. 309 del 1990 per mancato riconoscimento della relativa attenuante 2 violazione e falsa applicazione dell'art. 73, quinto comma, d.p.R. 309 del 1990 e mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della attenuante del fatto di lieve entità. 3 violazione e falsa applicazione dell'art. 62, comma 1, n. 6, cod. pen. per mancato riconoscimento, in via subordinata, della relativa attenuante. Motivi della decisione Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato essendo effettivamente carente la motivazione con la quale la corte d'appello ha negato il riconoscimento di tutte le ipotesi attenuate richieste. Per quanto concerne l'attenuante di cui all'art. 73, comma 7, d.p.R. 309 del 1990, la corte d'appello ha invero osservato - che gli operanti erano già a conoscenza che in passato la G. si riforniva da S. - che l'imputata si era limitata a consegnare lo stupefacente, a riferire le modalità dello scambio e ad indicare il S. , individuato fotograficamente - che quindi non vi era prova di un contributo significativo alle indagini - che le visite da lei fatte presso la residenza del S. non erano state concordate con gli inquirenti. Deve però osservarsi che la corte d'appello ha omesso di prendere in considerazione e di valutare, al fine di un eventuale riconoscimento della attenuante, una serie di circostanze che potevano incidere sulla sua decisione, ed in particolare a che il Gip del tribunale di Udine, col decreto 27.4.2007 di revoca della misura cautelare della custodia in carcere aveva osservato che la G. fin da subito aveva assunto un atteggiamento collaborativo mettendo gli inquirenti nella condizione di rinvenire la sostanza ed aveva prestato analoga collaborazione sulle fonti di approvvigionamento, riconoscendo nelle foto il fornitore b che aveva indicato anche la residenza di S. , non nota agli inquirenti c che il procedimento de quo si inseriva in una più ampia indagine avviata dalla DDA di Trieste, nel corso della quale la piena collaborazione offerta dalla G. era stata pienamente utilizzata dagli organi inquirenti, tanto che la condanna del S. , con sentenza del Gup di Trieste dell'11.4.2012, si fondava esclusivamente sulle sue dichiarazioni d che tale sentenza aveva affermato che per i relativi reati la principale fonte di prova a carico di S. era costituita appunto dalla chiamata in correità della G. . Va altresì ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, In tema di reati concernenti sostanze stupefacenti, ai fini del riconoscimento dell'attenuante speciale di cui all'art. 73, comma settimo, d.P.R. n. 309 del 1990, non è necessario, quando si è in presenza di traffici di modesta rilevanza, che il risultato conseguito dalla collaborazione consista nella sottrazione al mercato di rilevanti risorse per la commissione dei delitti, ma è sufficiente che l'imputato abbia offerto tutto il suo patrimonio di conoscenze e la sua possibilità di collaborazione per evitare che l'attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze, attraverso l'individuazione e la neutralizzazione dei responsabili da lui conosciuti, o sui quali è in grado di fornire utili elementi per l'identificazione” Sez. 6, 16.3.2010, n. 19082, Khezami, m. 247082 . Analogo vizio di motivazione è riscontrabile anche in relazione alla attenuante di cui all'art. 73, quinto comma, d.p.R. 309 del 1990. Invero, la corte d'appello ha attribuito rilievo unicamente al profilo del peso della sostanza, senza pronunciarsi specificamente sulla doglianza svolta dalla difesa in merito alla bassissima percentuale di principio attivo rinvenuto principio attivo THC pari a 3,21% . Questa Corte, in casi analoghi, ha ritenuto non satisfattivamente motivato il diniego dell'attenuante avendo i giudici del merito apprezzato il solo dato ponderale della sostanza senza alcun richiamo alla necessaria potenzialità drogante della sostanza, ossia al principio attivo, intuibilmente determinante ai fini in questione cfr. Sez. 6, 22.4.2010, n. 18297, Osiebo . È infine fondato anche il terzo motivo perché non vi è nella sentenza impugnata adeguata motivazione sulla richiesta avanzata dalla difesa in via subordinata, di applicazione dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen. perché la ricorrente si era, prima del giudizio, adoperata spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, collaborando con gli inquirenti e fornendo loro tutti i particolari dei fatti conosciuti. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata, per vizio di motivazione, limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Trieste per nuovo giudizio sul punto. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Trieste limitatamente al trattamento sanzionatorio.