E’ da considerarsi legittimo il licenziamento di un dipendente, anche se ha una qualifica che rientra nel “quadro” aziendale, che viola gli obblighi di diligenza, perizia, subordinazione nei confronti del suo superiore.
La Corte di Cassazione con la sentenza numero 22796, del 9 novembre 2016, ha confermato la legittimità di un licenziamento nei confronti di un dipendente, anche se svolge funzioni di “quadro” nella società da cui dipende, per gravi motivi legati all’insubordinazione nei confronti dei suoi superiori. Il caso. Con sentenza del dicembre 2014, la Corte d'appello aveva confermato la decisione del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda avanzata da un dipendente nei confronti della sua società, dove rivestiva un ruolo di “quadro” il dipendente si era rivolto ai giudici del merito di secondo grado affinché fosse dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli nel dicembre del 2010. La contestazione consisteva nell'addebito di numerose mancanze rilevate in occasione della visita nella sede da parte del manager spagnolo della società, consistenti nella violazione di obblighi di diligenza, perizia, subordinazione. Avverso la sentenza sfavorevole il dipendente si è rivolto in Cassazione sulla base di motivi che di seguito si analizzano. “Atteggiamento ostile” La Corte di Cassazione analizza il ricorso del dipendente che si basa, come detto, su due motivi, che i giudici ritengono infondati. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata ritenuto cumulativamente provati tutti e 14 gli addebiti contestati sulla base della pretesa ammissione di un “atteggiamento ostile” del ricorrente nei confronti del manager spagnolo venuto appositamente nella sede della società per conoscerlo. In particolare il dipendente ricorrente contesta il fatto che il manager spagnolo già nel luglio 2010, era venuto nella sede per conoscere il ricorrente e, nell'occasione, ne aveva tessuto per iscritto le lodi per l'atteggiamento pienamente collaborativo. Per i giudici di legittimità tale motivo di ricorso è infondato. Il ricorrente, infatti, evocando la violazione delle disposizioni in materia di onere della prova, si è limitato a proporre una valutazione delle risultanze istruttorie alternativa rispetto a quella offerta in sentenza, in tal modo sottoponendo alla Corte di legittimità questioni di mero fatto, atte a indurre a un preteso nuovo giudizio di merito precluso dalla giurisprudenza di legittimità. Ne consegue, osservano i giudici della Cassazione, che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti. Neppure è dimostrato che le indicate circostanze attinenti alla visita del manager spagnolo abbiano assunto carattere decisivo nell'ambito della complessiva valutazione che ha caratterizzato il licenziamento del dipendente. Principio di proporzionalità. Con il secondo motivo, il dipendente ricorrente, deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. e dell'articolo 3, legge numero 604/1966, con riferimento al principio di proporzionalità, per inosservanza del processo logico-giuridico che il giudice deve seguire agli effetti della valutazione della idoneità dell’illecito disciplinare a giustificare il licenziamento, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto. La Corte di Cassazione, nell’analizzare il secondo motivo del ricorso, premette che il sindacato di legittimità in tema di giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione espulsiva si connota nei termini precisati da un precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha affermato che la “giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici”. L'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella di cui all’articolo 2119 o all’art, 2106 c.c., che dettano tipiche “norme elastiche”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare. Nel caso in esame la Corte di appello ha ravvisato una pervicace e protervia volontà oppositiva rispetto ad ogni superiore che non fosse finalizzata a integrare l'insubordinazione grave verso i superiori rilevante ai fini della configurabilità della giusta causa di licenziamento. Allo stesso modo l'operazione valutativa condotta sugli elementi istruttori ha consentito di ravvisare la proporzionalità della sanzione in ragione del carattere degli addebiti “consistenti in una pluralità di condotte inadempitive degli obblighi generali inerenti il rapporto di lavoro e violative di specifici obblighi professionali, degli aspetti soggettivi della condotta, rispetto a supposti ma in realtà inesistenti inadempimenti altrui, della grave alterazione causata nei rapporti con la società capogruppo ed il deterioramento dei rapporti con il Presidente della società”. Conclusioni. La Corte di Cassazione, in conclusione, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, oltre spese generali e accessori si legge.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 luglio – 9 novembre 2016, numero 22796 Presidente Nobile – Relatore Esposito Svolgimento dei processo 1.Con sentenza del 1/12/2014 la Corte d'appello di Roma confermò la decisione del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda avanzata da L. Francesco nei confronti di Logista s.p.a., società alle cui dipendenze il predetto aveva operato con la qualifica di quadro , affinché fosse dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli il 14/12/2010. La contestazione consisteva nell'addebito di numerose mancanze rilevate in occasione della visita a Roma del dott. L., manager spagnolo della società, consistenti nella violazione di obblighi di diligenza, perizia, subordinazione. 2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il L. sulla base di due motivi. Resiste la società con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie. Motivi della decisione 1.Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata ritenuto cumulativamente provati tutti e quattordici gli addebiti contestati sulla base della pretesa ammissione di un atteggiamento ostile del ricorrente nei confronti del dott. R.Z.L. venuto appositamente a Roma per conoscerlo in data 20 e 21 ottobre 2010 articolo 360 numero 3 c.p.c. . Omesso esame di fatti decisivi dedotti dal ricorrente che, se esaminati, avrebbero condotto ad escludere la sussistenza dell'illecito disciplinare della grave insubordinazione in particolare omesso esame del fatto decisivo che il dott. R.Z.L. già nel luglio 2010 era venuto a Roma per conoscere il ricorrente e, nell'occasione, ne aveva tessuto per iscritto le lodi per l'atteggiamento pienamente collaborativo articolo 360 numero 5 c.p.c. . 1.2. II motivo è infondato. Il ricorrente, infatti, evocando la violazione delle disposizioni in materia di onere della prova, si è limitato a proporre una valutazione delle risultanze istruttorie alternativa rispetto a quella offerta in sentenza, in tal modo sottoponendo alla Corte di legittimità questioni di mero fatto atte a indurre a un preteso nuovo giudizio di merito precluso in questa sede v. Sez. 5, Sentenza numero 25332 del 28/11/2014, Rv. 633335, II giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti . Neppure è dimostrato che le indicate circostanze attinenti alla visita del L abbiano assunto carattere decisivo nell'ambito della complessiva valutazione in fatto, peraltro neppure sindacata sotto il profilo dei vizio motivazionale. 2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. e dell'articolo 3 l. numero 604 del 1966, con riferimento al principio di proporzionalità, per inosservanza del processo logico-giuridico che il giudice deve seguire agli effetti della valutazione della idoneità dell'illecito disciplinare a giustificare il licenziamento, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto articolo 360 numero 3 c.p.c. . Rileva il ricorrente che la Corte territoriale aveva omesso di considerare che dott. R.Z.L. non era venuto appositamente a Roma per conoscere il ricorrente, avendolo già conosciuto in precedenza. Osserva, inoltre, che la medesima svaluta completamente l'assoluta assenza di precedenti disciplinari e sembra quasi supporre che il ricorrente fosse un dirigente. 2.2. Va premesso che il sindacato di legittimità in tema di giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione espulsiva si connota nei termini precisati da Cass. Sez. L, Sentenza numero 25144 del 13/12/2010, Rv. 615742 Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella di cui all'articolo 2119 o all'articolo 2106 cod. civ., che dettano tipiche norme elastiche , non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare anche collettiva in cui la fattispecie si colloca . Orbene, nella specie, nella complessiva condotta del ricorrente, valutata in tutti i suoi elementi, tenuto conto della posizione elevata del ruolo ricoperto dallo stesso, pur nella consapevolezza dei carattere non dirigenziale del suo incarico, la Corte d'appello ha ravvisato una pervicace e protervia volontà oppositiva rispetto ad ogni superiore che non fosse l'AD atta a integrare l'insubordinazione grave verso i superiori rilevante ai fini della configurabilità della giusta causa di licenziamento. Allo stesso modo l'operazione valutativa condotta sugli elementi istruttori ha consentito di ravvisare la proporzionalità della sanzione in ragione del carattere degli addebiti consistenti in una pluralità di condotte inadempitive degli obblighi generali inerenti il rapporto di lavoro e violative di specifici obblighi professionali, degli aspetti soggettivi della condotta, dell'ingiustificata reazione dei L. rispetto a supposti ma in realtà inesistenti inadempimenti altrui, della grave alterazione causata nei rapporti con la società capogruppo ed il deterioramento dei rapporti con il Presidente dell'ODV . E' stata valutata, altresì, nell'ambito del suddetto contesto, l'inesistenza di precedenti disciplinari, ritenuta irrilevante a fronte della grave lesione del rapporto fiduciario. La censura del ricorrente, pertanto, investe l'accertamento della concreta ricorrenza degli elementi di fatto ritenuti idonei a integrare i parametri della giusta causa di licenziamento e della proporzionalità tra infrazione e sanzione, piuttosto che valutazioni integranti la specificazione del nucleo normativo dell'articolo 2119, talché la medesima sfugge al sindacato di legittimità. 3. In base alle esposte ragioni il ricorso va integralmente rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 3.100,00, di cui € 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % e accessori si legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.