Nel caso in cui vengano rivolte minacce di morte e di ritorsioni economiche, che determinano coartazioni dell’altrui volontà al fine di conseguire un ingiusto profitto, non si configura il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, bensì di tentata violenza privata continuata.
E’ stato dichiarato dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 23216, depositata il 4 giugno 2014 Il caso. La Corte d’Appello di Brescia ha confermato la condanna di primo grado per delitto di tentata violenza privata continuata, nei confronti dell’imputato, cognato della persona offesa. Nel dettaglio, l’uomo aveva rivolto minacce di morte e di ritorsioni economiche, al fine di costringere la donna a portare le figlie in visita al padre detenuto in carcere. L’uomo ha fatto ricorso in Cassazione deducendo l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale, con riguardo alla mancata riqualificazione dell’addebito ai sensi dell’articolo 393 c.p La tesi difensiva riteneva configurabile non tanto il delitto di tentata violenza privata continuata quanto il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dal momento che l’imputato aveva agito nel ragionevole convincimento di far valere una pretesa giuridicamente tutelabile, essendo la questione della possibilità del fratello dell’imputato di incontrarsi con le figlie oggetto di un procedimento già pendente dinanzi la competente autorità. Le proprie ragioni non giustificano tutto. La Suprema Corte rigetta il ricorso. Il fatto, precisamente, non può essere riqualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dal momento che tale fattispecie si verifica solo quando la sostituzione dello strumento di tutela pubblico con quello privato, operata dall’agente arbitrariamente, non ecceda i limiti insiti nell’esercizio di un proprio diritto. Le manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, costrittive dell’altrui libertà di determinazione e finalizzate a conseguire un profitto ingiusto, come nel caso di specie, configurano, invece, l’ipotesi criminosa della violenza privata.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 gennaio – 4 giugno 2014, numero 23216 Presidente Oldi – Relatore Micheli Ritenuto in fatto Il difensore di S.C. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la conferma della sentenza emessa dal Tribunale di Brescia in data 19/12/2012 il S. risulta essere stato condannato alla pena di mesi 9 di reclusione per il delitto di tentata violenza privata continuata, in ipotesi commesso in danno di B.P. , cui avrebbe rivolto minacce sia di morte, che di ritorsioni economiche al fine di costringerla a portare le figlie minori a rendere visita al padre - il fratello dell'imputato - ristretto in carcere. Il difensore deduce 1. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riguardo alla mancata riqualificazione dell'addebito ai sensi dell'articolo 393 cod. penumero . La tesi difensiva è che il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni deve intendersi configurabile “anche allorché il diritto oggetto dell'illegittima tutela privata non abbia l'estensione voluta dall'agente e non si riveli in tutto o in parte fondato, essendo sufficiente che il soggetto agisca nel ragionevole convincimento, indotto da elementi di natura obiettiva e non connotato da evidente arbitrarietà o pretestuosità, di far valere una pretesa giuridicamente tutelabile”. A riguardo, nell'interesse del ricorrente si segnala che la questione della possibilità del fratello dell'imputato di incontrarsi con le figlie era oggetto di un procedimento già pendente dinanzi alla competente autorità 2. carenza di motivazione della sentenza impugnata in ordine ai profili di gravame sull'illegittimità del disposto aumento di pena ex articolo 81 cpv. cod. penumero , sull'omessa concessione delle attenuanti generiche e sulla riduzione del trattamento sanzionatorio. La difesa rappresenta che i tre profili sopra enumerati, costituenti specifiche ragioni di doglianza avverso la pronuncia di primo grado, sarebbero rimasti sostanzialmente disattesi, in quanto la Corte territoriale - afferma apoditticamente che la decisione della B. di registrare la telefonata ricevuta dall'imputato l'11/06/2006 implicherebbe il rilievo che già in passato il S. doveva avere assunto comportamenti analoghi, senza disporre di alcun riscontro a riguardo inoltre, i fatti di quel giorno dovrebbero essere considerati un unicum, avendo il S. realizzato una condotta unitaria e non interrotta, prima chiamando al telefono la persona offesa e poi raggiungendola per avere con lei un incontro de visu - non considera che gli evocati precedenti specifici dell'imputato risalgono comunque a data posteriore ai fatti de quibus, e che la condotta successiva del ricorrente deve intendersi del tutto regolare, come comprovato dalla volontà della B. di rimettere la querela in relazione alla totalità degli addebiti. Considerato in diritto 1. Il ricorso non può trovare accoglimento. 1.1 Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, “in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni articolo 393 cod. penumero , la pretesa arbitrariamente attuata dall'agente deve corrispondere perfettamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dall'ordinamento giuridico di guisa che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato è, inoltre, necessario che la condotta illegittima non ecceda macroscopicamente i limiti insiti nel fine di esercitare, anche arbitrariamente, un proprio diritto, ponendo in essere un comportamento costrittivo dell'altrui libertà di determinazione, giacché, in tal caso, ricorrono gli estremi della diversa ipotesi criminosa di cui all'articolo 610 cod. penumero violenza privata ” Cass., Sez. V, numero 38820 del 26/10/2006, Barattelli, Rv 235765 . Nella motivazione della Corte bresciana, si richiama opportunamente, al fine di confermare l'esatta qualificazione giuridica dell'addebito mosso al S. , un diverso precedente di legittimità, che pur riguardando la distinzione tra i delitti di ragion fattasi ed estorsione affronta le stesse problematiche del resto, va ricordato che il principio secondo cui “nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell'agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, pertanto non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell'altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto” è testualmente ribadito anche in giurisprudenza recentissima v. Cass., Sez. V, numero 19230 del 06/03/2013, Palazzotto . Nel caso oggi in esame, i giudici di merito danno contezza di minacce smodate poste in essere dall'imputato, con lui stesso a descriversi come quello più pazzo della famiglia minacce, peraltro, da correlare alla assoluta peculiarità della vicenda, con S.S. che si trovava ristretto in carcere non per chissà quali addebiti svincolati dal contesto, ma addirittura per avere ucciso il nuovo compagno della B. . Ergo, non può che convenirsi con la Corte territoriale sul rilievo che “la pretesa che le minori visitassero il padre in carcere oltre ad essere stata espressa in toni estremamente minacciosi ed intimidatori non configurava un diritto assoluto, ma presupponeva, data la particolarità del caso stato di detenzione del padre per reato gravissimo e tenerissima età delle bambine una valutazione di interesse o non pregiudizio per le medesime”. 1.2 La sentenza impugnata, rilevato che la persona offesa aveva sì rimesso la querela, senza tuttavia mai modificare la portata delle proprie accuse, non fa derivare da quella circostanza alcuna valutazione positiva sulla condotta del S. successiva ai reati de quibus rilievo, in vero, ineccepibile, considerando la molteplicità delle ragioni che in un contesto di rapporti familiari possono determinare un soggetto a non coltivare più una istanza punitiva. Inoltre, che in termini più generali il comportamento dell'imputato non fosse stato lusinghiero è parimenti evidenziato dalla Corte territoriale, laddove spiega che “non competono le generiche alla luce dei precedenti anche specifici, nonché delle susseguenti condanne, sempre per fatti che confermano le medesime inclinazioni e incapacità di autocontrollo”. La decisione oggetto di ricorso si fa dunque correttamente carico della circostanza che, quali elementi ostativi alla concessione delle attenuanti ex articolo 62-bis cod. penumero come pure, a fortiori, del beneficio della sospensione condizionale, che presuppone un pronostico favorevole all'imputato sulla sua futura regolarità di condotta , rilevano nel caso di specie comportamenti del S. in parte posteriori. Ed invero, considerando che il giudice di merito non è certamente chiamato a valutare la sola vita anteatta del prevenuto, si rileva che il S. palesava condanne - v. il certificato penale in atti - di sicuro rilievo, di cui anche quelle riguardanti fatti anteriori risultavano idonee a descrivere precedenti specifici, in ragione di un comune connotato di violenza quali i pregiudizi per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali . In ogni caso, deve essere tenuto presente che “il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche in ragione di una condanna per reati commessi successivamente ai fatti per cui si procede, dovendo riferirsi, ai fini dell'applicazione delle circostanze previste dall'articolo 62-bis cod. penumero , ai parametri fissati dall'articolo 133 cod. penumero ” Cass., Sez. II, numero 24207 del 14/03/2013, Piras, Rv 256486 mentre, più in generale, si è affermato che “la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell'articolo 62-bis cod. penumero è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato” Cass., Sez. VI, numero 42688 del 24/09/2008, Caridi, Rv 242419 , come pure che “ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'articolo 133 cod. penumero , quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso” Cass., Sez. II, numero 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv 249163 . Assolutamente logica e condivisibile si deve ritenere l'osservazione della Corte territoriale circa le ragioni che avevano portato la B. a registrare la conversazione avuta con l'imputato se costui non fosse stato autore di precedenti minacce, non ve ne sarebbe stato motivo , mentre risulta manifestamente infondata la doglianza difensiva secondo cui - in presenza di minacce prima telefoniche e poi pronunciate al cospetto della persona offesa, con un rilevante intervallo temporale fra le une e le altre - dovrebbe ritenersi configurabile un unico reato. 2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del S. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.