I finanziamenti dei soci dall’estero non sono «sintomo» di evasione

Secondo la Cassazione sono corrette le valutazioni del Giudice di Appello secondo cui, per realizzare un intento evasivo, dovrebbe essere individuabile un flusso di capitali verso l’estero e non l’introduzione degli stessi in Italia per la decisione di capitalizzare la partecipata nazionale.

Numerose ed interessanti valutazioni sono contenute nella sentenza n. 32956 della Terza sezione Penale della Corte di Cassazione, depositata il 30 luglio 2013. Il caso. La questione oggetto del giudizio atteneva alla presunta evasione contestata ai soci di una società italiana per il fatto di aver occultato elementi attivi circostanza che, a giudizio del pubblico ministero avrebbe dovuto trovare prova nel fatto che gli utili sarebbero stati trasferiti in Italia sotto forma di finanziamenti o di aumenti di capitale, che non venivano adeguatamente documentati nei libri sociali. Soci scudati dall’accusa di evasione. Gli Ermellini hanno considerato valide le conclusioni dei Giudici di Appello che hanno, in primis, fatto rilevare che ai fini di perfezionare gli intenti evasivi la società residente nel territorio avrebbe potuto esportare clandestinamente i capitali all’estero e non farli rientrare, come accaduto nel caso di specie. Né può ritenersi corretto il rilievo del pubblico ministero secondo cui le conclusioni testé evidenziate sarebbero in contrasto con la disciplina del c.d. scudo fiscale” di cui all’art. 13-bis, D.L. 78/2009, dal momento che questa aveva l’intenzione di far emergere attività detenute all’estero, mentre nel caso di specie il cammino” dei patrimoni è esattamente l’opposto. Il fatto poi che l’aumento di capitale e i finanziamenti soci non trovassero documentazione adeguata nei libri sociali e che non esistesse alcuna pattuizione contrattuale da cui emergesse la destinazione delle somme è da imputarsi ad una trascuratezza gestionale , dal momento che l’attività di capitalizzazione era evidentemente finalizzata a far decollare la società partecipata n.d.r. e l’attività che questa doveva svolgere sul mercato . Non è stata poi adeguatamente valutata la circostanza che, se si fosse trattato di utili, i soci non avrebbero avuto alcuna ragione di occultarli considerandoli finanziamenti, dal momento che le disposizioni di cui all’art. 89 TUIR ne avrebbero comunque consentito la tassazione con le regole della partecipation exemption , ovvero in misura del 5% dell’importo percepito. fonte www.fiscopiu.it

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 marzo - 30 luglio 2013, n. 32956 Presidente Mannino – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza del 13 luglio 2012, il Tribunale di Cagliari ha rigettato l'appello del pubblico ministero e ha conseguentemente confermato il decreto del Gip del Tribunale di Cagliari del 21 giugno 2012, con il quale era stata rigettata la richiesta di sequestro preventivo per equivalente di beni dei due indagati proposta in relazione al reato di cui agli artt. 81, secondo comma, 110 cod. pen. e 4 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestato agli stessi indagati perché, in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e di amministratore di fatto di una società, al fine di evadere le imposte sui redditi, avevano indicato nelle dichiarazioni annuali presentate per gli anni dal 2005 al 2010, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con un'evasione dell'imposta annuale superiore ai limiti previsti per l'applicazione della sanzione penale. 2. - Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, chiedendone l'annullamento. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza si deduce la violazione di legge consistente nel fatto che il Tribunale avrebbe affermato che l'evasione fiscale si sarebbe potuta avere solo con l'esportazione all'estero delle ingenti somme e non già con l'introduzione delle stesse in Italia, come invece constatato dagli investigatori. Si tratterebbe, secondo il ricorrente, di un'asserzione in contrasto con la logica e con l'art. 13-bis del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 141 del 2009, disposizione diretta a consentire l'emersione delle attività finanziarie patrimoniali detenute all'estero da soggetti residenti in Italia cosiddetto scudo fiscale . Da tale normativa emergere - a detta del pubblico ministero ricorrente - che l'evasione fiscale si può realizzare anche con il rientro delle somme detenute all'estero. 2.2. - Si lamenta, in secondo luogo, che il Tribunale avrebbe affermato che non vi era alcun obbligo che gli elevati flussi finanziari scoperti trovassero riscontro nei libri sociali della società degli imputati. Si contesta, in particolare, che la mancanza di una formale pattuizione contrattuale tra la società degli imputati e le altre società del gruppo in ordine alla remunerazione e alla restituzione - entro tempi certi e determinati - delle ingenti somme asseritamente prestate, senza alcuna garanzia, da queste ultime non sarebbe, per il Tribunale, prova della fittizietà dell'assetto societario ostentato dal gruppo con preordinate finalità di evasione fiscale. Il ricorrente critica, in particolare, il passaggio motivazionale dell'ordinanza nel quale si afferma che ogni società dotata di personalità giuridica non perde mai la sua individualità neppure allorquando la stessa sia inserita in un gruppo societario, con la conseguenza che la comune appartenenza del complesso delle società in esame agli indagati non esclude in definitiva che i rapporti formali, economici e finanziari tra le diverse società continuassero a mantenere la loro rilevanza e la loro autonomia. Ad avviso del pubblico ministero, se l'autonomia societaria richiamata fosse realmente esistita, vi sarebbero state certamente annotazioni dei flussi nei libri sociali e vi sarebbe stata remunerazione del capitale investito. Si è, invece, in presenza di flussi di versamenti dei soci che non sembrano dettati da condizioni di oggettiva necessità, né motivati da scelte di pianificazione della gestione finanziaria, perché - ad avviso del ricorrente - gli elementi raccolti evidenziano che l'unico obiettivo del gruppo era quello di trasferire l'enorme massa finanziaria dall'estero verso l'Italia man mano che questa si rendeva disponibile. 2.3. - Si rileva in terzo luogo, l'erronea interpretazione dell'articolo 89 del testo unico delle imposte sui redditi, considerato che le somme non erano stati oggetto di qualsivoglia tassazione. La detassazione del 95% dei dividendi prevista da detta disposizione presuppone, infatti, il pagamento a monte delle imposte sul reddito prodotto da parte della società estera, circostanza mai avvenuta. 2.4. - Si contesta, in quarto luogo, l'affermazione secondo cui la società degli imputati non avrebbe mai potuto essere la holding del gruppo, perché non aveva alcuna partecipazione e non aveva fatto alcun investimento nelle altre aziende del gruppo stesso. Si era, invece, in presenza - secondo il pubblico ministero - di una serie di società delocalizzate fittiziamente all'estero, che avevano il solo scopo di creare vari livelli di interposizione fittizia fra gli indagati e la loro società, allo scopo di ostacolare la riconducibilità giuridica delle operazioni svolte agli stesti indagati. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è infondato. 3.1. - Il primo motivo di impugnazione - con il quale si contesta, sostanzialmente, la violazione di legge consistente nel fatto che il Tribunale non avrebbe tenuto conto che l'evasione fiscale si puo’ realizzare anche con il rientro delle somme detenute all'estero – è infondato. Come correttamente rilevato dal Tribunale e dal Gip, la situazione disciplinato dall'art. 13-bis del richiamato decreto-legge n. 78 del 2009 non ha a che vedere con il caso in esame. Il denaro individuato dalla Guardia di Finanza proveniva, infatti, dall'estero e confluiva nelle casse della società degli imputati come capitali sociale e finanziamento soci e non come reddito della società stessa. Al fine di realizzare l'evasione fiscale e, cioè, di sottrarre all'imposizione redditi della società, il percorso avrebbe dovuto invece essere quello, opposto, dell'esportazione clandestina di capitali. La richiamata disposizione sul cosiddetto scudo fiscale si riferisce proprio a tale ipotesi, essendo diretta a favorire il rientro dei capitali sottratti all'imposizione fiscale in Italia attraverso il loro clandestino trasferimento all'estero. Nulla di tutto questo - come bene evidenziato dal Tribunale – è successo nel caso in esame, in cui, invece di sfruttare la favorevole circostanza che i capitali si trovano già all'estero, gli imputati hanno scelto di farli rientrare verso la società, più probabilmente allo scopo di effettuare un illecito riciclaggio degli stessi nella produzione di beni e servizi in Italia. 3.2. - Il secondo motivo di ricorso - che, nel suo nucleo essenziale, contiene una critica alla motivazione dell'ordinanza nella parte in cui questa ritiene che i finanziamenti soci alla società degli imputati siano effettivamente tali e non nascondano, invece, redditi di tale società – è anch'esso infondato, come anche il quarto motivo, con il quale si deduce, in sostanza, che la società degli indagati era al holding del gruppo verso la quale confluivano proventi di dividendi, da considerarsi alla stregua dei redditi. Come correttamente evidenziato dal Tribunale, i soci avevano effettuato, nel periodo considerato, conferimenti finalizzati a regolari aumenti di capitale sociale, nonché ulteriori finanziamenti. Si trattava di un'imponente attività di capitalizzazione evidentemente finalizzata a far decollare la società e l'attività che questa doveva svolgere sul mercato, pur in mancanza di adeguate argomentazioni nei libri sociali. La mancanza di tali argomentazioni pero’ - prosegue il Tribunale - non puo’ essere considerata di per sé sintomo di simulazione di altre attività illecite, cosi come la mancata remunerazione in termini di interessi dei capitali conferiti dai soci e la mancanza di garanzie formali a fronte di finanziamenti effettuati. Tali profili vengono logicamente spiegati dallo stesso Tribunale con una valutazione in punto di fatto adeguatamente motivata e, percio’, insindacabile in sede di legittimità - con la trascuratezza gestionale relativa agli obblighi formali connessi agli aumenti di capitale e ai finanziamenti e con l'aspettativa che la remunerazione sarebbe consistita negli utili che l'attività della societa partecipata avrebbe potuto produrre. Né i flussi finanziari diretti verso la società degli indagati avrebbero potuto essere considerati dividendi percepiti dalla società capogruppo in conseguenza di sue partecipazioni nelle società controllate, sia perché non vi era prova che tale società fosse la capogruppo, sia, più in particolare, perché non era mai stato osservato alcun flusso finanziario in senso inverso, con la conseguenza che non vi era stata nessuna forma di investimento da parte di detta societa nelle altre società del gruppo che potesse giustificare la percezione di utili o dividendi. 3.3. - Quanto all'applicabilità dell'art. 89, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi - a norma del quale, se il percettore dell'utile è una società, gli utili distribuiti non concorrono a formare utile d'esercizio per il 95%, operando l'imposizione solo sul 5% degli utili stessi - il Tribunale correttamente osserva che proprio tale disposizione dovrebbe indurre a concludere che la società degli indagati, partecipata al 97% del capitale da società, non avrebbe avuto interesse alcuno a occultare eventuali utili di provenienza di altre società del gruppo, perché tali utili non avrebbero concorso a formare reddito proprio di esercizio se non per il 5%, e solo in tale misura sarebbero stati tassati. E ciò, a fronte di un capo di imputazione che, invece, non sembra tenere conto della disposizione richiamata, perché non considera la base imponibile al 5% ma al 100% e, così facendo, assume implicitamente che si tratti di redditi prodotti direttamente dalla società dagli indagati e che non si tratti, dunque, di utili o dividendi. Del tutto generico risulta, poi, il rilievo del pubblico ministero secondo cui le somme oggetto di contestazione sarebbero state sottratte a tassazione anche all'estero, in mancanza della prospettazione di specifici elementi relativi al mancato pagamento delle imposte sul reddito prodotto da parte delle società infragruppo dalla quale i flussi finanziari provenivano. 4. - Ne consegue il rigetto del ricorso del pubblico ministero. P.Q.M. Rigetta il ricorso del pubblico ministero.