Nesso causa-effetto tra bancarotta e fallimento? Interessante, ma irrilevante

Il fallimento non può dirsi evento del reato di bancarotta, il quale è, piuttosto, un reato di pericolo, integrato da condotte in pregiudizio degli interessi patrimoniali della massa dei creditori, che assumono rilevanza penale nell’ottica del reato di bancarotta fraudolenta e del connotato di pericolosità, soltanto se e quando il fallimento venga dichiarato dal giudice con sentenza.

Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza numero 29226, depositata il 4 luglio 2014. Il caso. La Corte d’appello di Salerno condannava l’amministratore di una società, in concorso con le persone che lo avevano preceduto in tale carica, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, limitatamente alla distrazione di contributi, in riferimento al fallimento della stessa società. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata motivazione, da parte dei giudici di merito, sul nesso di causalità che doveva essere ravvisato tra la condotta da lui tenuta ed il fallimento. Reato di pericolo. Per la Corte di Cassazione, però, il fallimento non può dirsi evento del reato di bancarotta, il quale è, piuttosto, un reato di pericolo, integrato da condotte in pregiudizio degli interessi patrimoniali della massa dei creditori, che assumono rilevanza penale nell’ottica del reato di bancarotta fraudolenta e del connotato di pericolosità, soltanto se e quando il fallimento venga dichiarato dal giudice con sentenza. Ruolo del fallimento. Perciò, non è richiesto dagli articolo 216 e 223, comma 1, l.f. l’accertamento di alcun nesso di causalità col dissesto e, tantomeno, con la formale dichiarazione di fallimento. Anche se questa è generalmente classificata come elemento costitutivo del reato in esame, tuttavia, tale qualificazione non muta la questione, neppure riguardo all’elemento psicologico del reato, perché il principio della responsabilità in materia penale non presuppone che tutti gli elementi della fattispecie siano indistintamente dipendenti dall’atteggiamento psichico dell’agente, soprattutto nel caso di un provvedimento dipendente da una valutazione discrezionale del giudice. Nel caso di specie, venivano riscontrati i comportamenti in violazione del bene giuridico tutelato, cioè quelli che avevano costituito un pericolo per i creditori dell’impresa, essendo la condotta penalmente rilevante proprio quella dell’ingiustificata diminuzione delle loro garanzie, che può risultare concretamente rilevante, se interviene il fallimento, anche se posta in essere in epoca diversa e antecedente a quella dell’insolvenza. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta questo motivo di ricorso, mentre rimanda alla Corte d’appello affinché chiarisca meglio le modalità e la condotta con cui l’imputato avrebbe concorso all’attività distrattiva.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 maggio – 4 luglio 2014, numero 29226 Presidente Ferrua – Relatore Vessichelli Fatto e diritto Propone ricorso per cassazione T.M. , avverso la sentenza della Corte d'appello di Salerno, in data 19 ottobre 2012, con la quale è stata confermata quella di primo grado del 2007 , nella parte relativa alla condanna in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, limitatamente alla distrazione dei contributi Aima. Il reato era stato contestato con riferimento al fallimento della Olearia Salernitana S.r.l., dichiarato il 6 ottobre 1997. All'imputato - amministratore della società da luglio 1991 al marzo 1992 - il reato è stato contestato in concorso con gli amministratori che lo avevano preceduto a partire dal 1989 V. e C. , contro i quali si è proceduto separatamente ed è stato addebitato nella forma aggravata, dell'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, con attenuanti generiche equivalenti all'aggravante contestata. I contributi distratti ammontavano ad un valore complessivo di 1 miliardo e quattrocento milioni di lire circa. Il Tribunale, e poi la Corte, avevano affermato la responsabilità dell'imputato in considerazione del fatto 1 che la società fallita aveva emesso fatture per operazioni inesistenti al fine di creare l'apparenza di una produttività che aveva determinato il conseguimento dei contributi Aima 2 che l'imputato aveva svolto il ruolo di amministratore a partire dal 26 luglio 1991 sicché, posto che l'ultima richiesta di contributi era stata formalizzata solo un mese prima, nel giugno 1991, doveva ritenersi che almeno tale tranche fosse stata incassata nella vigenza della carica dell'imputato e non poteva che essere stata gestita da costui 3 che nessuna plausibile giustificazione era stata addotta in merito all'utilizzo di tale introito, nella prospettiva dell'interesse della società. Deduce 1 l'erroneità della decisione della Corte d'appello che aveva confermato l'ordinanza del Tribunale, di rigetto della eccezione di nullità del decreto che disponeva il giudizio, per genericità del capo d'imputazione. In tale capo era contenuta, in forma concorrente, tanto la condotta di rilevanza penale derivante dall'omesso impedimento di cui all'articolo 40 capoverso c.p., in relazione alla condotta di correi, quanto quella, invece attiva, consistita nella partecipazione alla appropriazione o all'occultamento delle somme. Si trattava di due ipotesi criminose che richiedevano l'accertamento di fatti del tutto diversi e il conseguente spiegamento della difesa su circostanze non sovrapponibili sicché il mancato chiarimento della condotta contestata aveva pregiudicato i diritti difensivi 2 il vizio della motivazione in ordine alla responsabilità. La stessa ambiguità del capo d'imputazione si riflette sulla motivazione della sentenza la quale non ha saputo scegliere fra l'ipotesi di responsabilità a titolo di omesso impedimento e quella dovuta alla condotta commissiva. Ne è conseguito il mancato superamento del dubbio sul comportamento penalmente rilevante, addebitabile e addebitato all'imputato 3 la violazione di legge e il vizio di motivazione a proposito del nesso causale riferito all'evento fallimentare. La breve durata della carica di amministratore era comunque successiva all'ultima richiesta dei contributi Aima, sicché non poteva dirsi provato che l'imputato avesse distratto ciò di cui disponeva completamente. Inoltre non era stato considerato, anche ai fini che qui interessano, che, dopo la cessazione della carica dell'imputato marzo 1992 la medesima carica era stata assunta da altro soggetto fino al sequestro dell'azienda, nel 1993. Per tale evenienza l'imputato era stato assolto dalle altre contestazioni di bancarotta fraudolenta, essendo rimasto il dubbio che le condotte in questione potessero essere riferibili esclusivamente all'amministratore succeduto al T. . Non si comprende per quale ragione la stessa conclusione non è stata formulata con riferimento alla distrazione dei contributi Aima, non avendo, l'imputato, più amministrato la società fino al 1997, data della dichiarazione di fallimento. Né i giudici hanno motivato sul nesso causale che doveva essere ravvisato tra la condotta tenuta dall'imputato e il fallimento un requisito normativo invece ritenuto sussistente dalla sentenza numero 47502 della Cassazione ricorrente Corvetta che, pure, ha preteso la motivazione sulla possibile interruzione del nesso causale determinato da un'amministrazione successiva. Mancherebbe inoltre qualsiasi motivazione sull'elemento psicologico del reato 4 la violazione dell'articolo 514 comma due c.p.p. e la inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dalla Guardia di Finanza. La difesa aveva eccepito - e la Corte aveva illegittimamente respinto la questione - che il consulente del pubblico ministero aveva formulato le proprie conclusioni sulla base della lettura e della elaborazione degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza in altro procedimento penale, a carico dello stesso imputato. Così procedendo, tuttavia, era stato attribuito valore probatorio diretto al contenuto dei verbali di polizia giudiziaria, in violazione dell'articolo 514 comma due c.p. p. e senza procedere all'escussione degli stessi verbalizzanti. Invero, i verbali in questione erano stati utilizzati non solo nella parte della constatazione ma anche in quella della valutazione, come era possibile desumere dal fatto che il consulente aveva ammesso, in dibattimento, di non avere potuto visionare la contabilità della società 5 il vizio della motivazione ancora sulla responsabilità. La rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello aveva portato all'esame del consulente del pubblico ministero, non sentito in primo grado senza che neppure fosse stata acquisita la sua relazione. Tuttavia anche il nuovo atto processuale non aveva modificato il quadro probatorio, dal momento che il consulente nulla aveva potuto affermare sulla responsabilità dell'imputato. E tale negativo risultato non poteva che portare alla assoluzione dal momento che si ricorre alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale quando si riconosce che non è possibile decidere allo stato degli atti. Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno. Invero, non è fondato il primo motivo di ricorso con il quale viene nuovamente denunciata una presunta genericità del capo d'imputazione, già esclusa dal giudice di primo e di secondo grado sulla base di argomentazioni del tutto corrette. Si è infatti evidenziato che la contestazione non è affatto generica ed anzi conteneva tutti gli elementi sulla base dei quali la difesa avrebbe potuto articolare i propri mezzi difensivi e cioè, in relazione ad un'ipotesi accusatoria costruita a titolo di concorso personale fra tre amministratori succedutisi nella carica della società poi fallita, è stato precisato, dal PM, che l'oggetto della distrazione erano stati i contributi AIMA per un valore determinato, e che il comportamento penalmente rilevante ai sensi dell'articolo 216 e 223 l. fall., era quello di avere, con condotte diverse e cumulabili, ora concorso ad apprendere e a distrarre tranches dei contributi stessi, ora concorso col consentire analoga condotta relativa ad altre tranches, ad opera dei concorrenti, attraverso il meccanismo equiparativo dell'articolo 40 cpv cp Piuttosto, la pluralità delle ipotesi formulate, in forma peraltro non alternativa ma, come detto, cumulativa, non ammetteva il giudice ad alcuna soluzione semplificata, sul piano probatorio, essendo egli tenuto ad argomentare il titolo d'imputazione singolare o plurale dei fatti di bancarotta ad argomentare, cioè, se la distrazione fosse addebitabile al T. in ragione di una diretta attività distrattiva ovvero in ragione di un concorso di tipo commissivo od omissivo con condotte materiali poste in essere dai correi oppure, ancora, in ragione di entrambe le ipotesi, da configurarsi nell'ampio arco di tempo - maggiore di quello in cui il prevenuto svolse la carica di amministratore - preso in considerazione. Ed infatti, tale articolato onere probatorio si imponeva in una situazione, quale quella in esame, in cui sembrerebbe accertato che i contributi Aima sono stati tutti richiesti in epoche precedenti all'assunzione della carica di amministratore da parte dell'imputato e sono stati, altresì, incassati e quindi gestiti, per la gran parte, in tempi nei quali lo stesso imputato non aveva ancora alcun incarico formale di gestione. Soltanto in ordine all'ultima tranche, comunque non quantificata rispetto al totale, la Corte d'appello ha rilevato essersi trattato di somma richiesta prima che avesse inizio l'attività di amministratore formale da parte del ricorrente e, solo probabilmente, incassata e gestita da quest'ultimo. Si tratta, in altri termini, di una motivazione del tutto insufficiente a delineare i termini del concorso di persone contestato all'imputato e ritenuto, dai giudici del merito, fondato nell'ottica di affermarne la responsabilità, in primo luogo, quale concorrente nella attività posta in essere dai precedenti amministratori. Non risulta, chiarito in alcun modo, con quali modalità, con quale condotta e a quale titolo l'imputato - quando non era amministratore formale - avrebbe concorso, anche solo con condotta omissiva, all'attività distrattiva realizzata dagli amministratori formali, e, altresì, a quale titolo egli dovrebbe rispondere della distrazione di contributi richiesti da altri soggetti prima dell'acquisizione dell'incarico di amministratore legale, contributi dei quali non è chiarita la data di ingresso nelle casse e nella contabilità della società e che, pertanto, hanno formato oggetto di una presunzione di acquisizione indebita, assolutamente debole anche solo sul piano indiziario, a carico del ricorrente. Inoltre, la motivazione si rivela ancora del tutto insufficiente anche a delineare la responsabilità in riferimento al periodo di vigenza della carica dell'imputato. Basti osservare che l'ipotesi di responsabilità per effetto del meccanismo dell'articolo 40 capoverso c.p. è stata evocata, dai giudici v. pag. 4 , con il ricorso ad una motivazione quella del non essersi, l'imputato, adoperato per impedire l'evento distrattivo che, di per sé, alluderebbe ad un comportamento negligente e quindi del tutto inidoneo a sostenere il giudizio di colpevolezza per il reato, doloso, di bancarotta fraudolenta. Se invece, il riferimento al mancato impedimento dell'evento distrattivo sottintendesse - come preteso dall'articolo 40 cp - la sicura consapevolezza, da parte dell'imputato, della condotta penalmente rilevante posta in essere da correi e la volontà, in ragione della posizione di garanzia rivestita, di non impedirla, non potrebbe non rilevarsi come si sia trattato di un'affermazione priva del tutto di motivazione. Il difetto argomentativo impone l'annullamento con rinvio per il necessario approfondimento. Circa le altre questioni, deve comunque qui rilevarsi che il tema della necessaria dimostrazione, ad opera del giudice del merito, del nesso di causalità fra la singola condotta distrattiva e l'evento-fallimento, è stato accreditato in un unico precedente giudiziario di questa Corte, rimasto sostanzialmente isolato se si esclude la successiva sentenza della Sezione feriale, numero 41665 del 2013, che non contiene, però, alcuna disamina dell'orientamento opposto e assolutamente maggioritario e comunque non condivisibile, come del resto ribadito da tutta la giurisprudenza di legittimità, massimata e non massimata, successiva alla sentenza Corvetta. Basterà qui ribadire che il fallimento non può dirsi evento del reato di bancarotta il quale è, piuttosto, un reato di pericolo, integrato da condotte in pregiudizio degli interessi patrimoniali della massa dei creditori, che assumono rilevanza penale nell'ottica del reato di bancarotta fraudolenta e il sopradetto connotato di pericolosità, soltanto se e quando il fallimento dell'imprenditore o della società con la quale l'imputato sia in rapporto di immedesimazione organica venga dichiarato dal giudice con sentenza. Sicché non è richiesto, dalla norma dell'articolo 216 e da quella dell'articolo 223 comma 1 che lo richiama a differenza di quanto è accaduto nella formulazione del precetto di cui al comma 2 dell'articolo 223, come appositamente interpolato dal legislatore del 2002 , l'accertamento di alcun nesso di causalità col dissesto e, tantomeno con la formale dichiarazione di fallimento, dovendosi anche considerare che questa è generalmente classificata, in giurisprudenza, come elemento costitutivo del reato in discussione, con l'avvertenza, però, che anche tale qualificazione non muta i termini della questione, neppure nei suoi riflessi sull'elemento psicologico del reato, per la ragione che il principio della responsabilità penale in materia penale non presuppone che indistintamente tutti gli elementi della fattispecie siano dipendenti dall'atteggiamento psichico dell'agente v. Sez. 5, Sentenza numero 15850 del 26/06/1990 Ud. dep. 29/11/1990 Rv. 185883 . E certamente non può esserlo quello rappresentato da un provvedimento dipendente da una valutazione discrezionale di soggetto terzo qual è il giudice. Piuttosto, nel caso di specie si ritengono necessariamente assistiti dal detto atteggiamento, nella forma del dolo generico, i comportamenti in violazione del bene giuridico tutelato dalla norma e cioè quelli che creano un concreto pericolo per la massa dei creditori della impresa posto che la condotta penalmente rilevante è, appunto, quella della ingiustificata diminuzione delle garanzie dei creditori con la conseguente emersione di una situazione di pericolo per gli interessi di costoro, diminuzione che può risultare concretamente rilevante, se interviene il fallimento, anche se posta in essere in epoca diversa e antecedente a quella dell'insolvenza. Anche la questione della inutilizzabilità dei dati raccolti dalla polizia giudiziaria e riferiti dal consulente del pubblico ministero appare non meritevole di accoglimento ed anzi ai limiti dell'inammissibilità. Essa costituisce la ripetizione di analoga questione già risolta dalla Corte d'appello con argomentazioni con le quali la difesa non si confronta e cioè essenzialmente, sulla base del rilievo che l'attività di polizia giudiziaria valorizzata dal consulente era quella desunta dai verbali di constatazione i quali non soffrono alcun divieto di utilizzazione. Viceversa, l'obiezione secondo cui sarebbe stata utilizzata anche la valutazione compiuta dagli organi medesimi giudiziaria, risulta del tutto generica e formulata, nel ricorso senza l'indicazione degli elementi specifici ai quali l'obiezione stessa avrebbe fatto riferimento. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Napoli per nuovo esame.