Morte sul lavoro: chi deve provare cosa?

Ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio subito dal lavoratore dipendente, grava su quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza dell’infortunio, nonché il nesso causale tra questo e la nocività dell’ambiente di lavoro spetta, invece, al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le specifiche norme sulla sicurezza, nonché di aver adottato tutte le misure necessarie alla tutela della salute del lavoratore, tenuto conto della peculiarità dell’attività lavorativa e dello stato della tecnica.

Così ha deciso la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 12562 depositata il 4 giugno 2014, consolidando il proprio orientamento in tema di sicurezza sul lavoro. Il caso. La controversia nasce dalla tragica morte di un operaio, avvenuta durante le operazioni di sbloccaggio del macchinario a cui era addetto. Nel tentativo di sboccare il macchinario, l’operaio si era sporto verso la vasca dove si riversava il pietrame, vi cadeva all’interno e rimaneva incastrato nel macchinario. Le testimonianze raccolte confermavano che l’operazione di sbloccaggio era stata condotta come al solito, senza che si fosse verificato un comportamento spropositato od imprudente dell’operaio. Inoltre, lo stato dei luoghi mostrava un macchinario privo di parapetti necessari ad evitare la caduta degli operai al suo interno, sebbene l’installazione di tali strutture fosse esplicitamente imposta dalle norme di sicurezza applicabili. I giudici di primo e secondo grado avevano accertato la responsabilità della società datrice di lavoro nella causazione della morte del proprio dipendente e per questo l’avevano condannata al risarcimento, in favore degli eredi, del danno biologico jure hereditatis, del danno morale da morte nonché del danno patrimoniale per la mancata remunerazione del lavoro straordinario svolto mensilmente. La società datrice di lavoro ricorreva, quindi, in Cassazione. L’importante è la salute. La decisione della Suprema Corte prende le mosse dall’articolo 2087 c.c., che, secondo la dottrina, ha natura polivalente. Esso, infatti, è fonte di obblighi contrattuali, nell’ambito del rapporto di lavoro, ma è altresì fonte di un dovere di sicurezza che assume profili pubblicistici, in quanto volto a tutelare il diritto alla salute. Da questa doppiezza discende il necessario bilanciamento tra diritto alla salute ex articolo 32 Cost. e libertà di iniziativa privata ex articolo 41 Cost. Ebbene, nell’interpretare gli obblighi di sicurezza sul lavoro, il diritto alla salute del lavoratore subordinato deve prevalere sulla libera iniziativa privata, la quale non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Il datore di lavoro dovrà, quindi, anteporre al proprio interesse imprenditoriale, la sicurezza dei propri dipendenti. Distribuzione dell’onere della prova. La Corte consolida il suo orientamento, confermando che ai fini della sussistenza della responsabilità datoriale nella causazione di un infortunio subito dal dipendente, spetti a quest’ultimo dimostrare la sussistenza dell’infortunio nonché il nesso causale tra quest’ultimo e la nocività dell’ambiente di lavoro. Grava, invece, sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure di sicurezza idonee a tutelare la salute dei propri dipendenti, siano esse esplicitamente previste ex lege, siano esse dovute alla comune prudenza, in considerazione del tipo di attività svolta e tenuto conto dello stato della tecnica. Trattandosi di una responsabilità contrattuale, per inadempimento ad un obbligo quello di sicurezza , l’unico caso in cui si possa escludere il nesso causale tra inadempimento del datore di lavoro e danno è il caso in cui il comportamento del lavoratore sia autosufficiente nella determinazione dell’evento dannoso, vale a dire quando il comportamento sia assolutamente abnorme od imprevedibile. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione esclude che vi sia stato un concorso di colpa del lavoratore il fatto che quest’ultimo non avesse fermato l’impianto, mentre eseguiva le operazioni di sbloccaggio non costituisce una condotta imprudente o rischiosa, né tantomeno abnorme, poiché corrispondeva alla prassi aziendale. In compenso, la Corte appura che in prossimità della vasca dove era caduto l’operaio mancavano i parapetti di sicurezza di cui all’articolo 242 D.P.R. 547/55 e che non vi era alcun cartello di pericolo. Queste due mancanze avevano contribuito all’instaurarsi della prassi ampiamente descritta dai testi per cui lo sbloccaggio avveniva con il macchinario in funzione, per mano di lavoratori che operavano sul bordo della vasca. Considerate le palesi violazioni dell’obbligo di sicurezza da parte datoriale e la normalità della condotta dell’operaio, la Suprema Corte, severamente, condanna la società.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 1 aprile – 4 giugno 2014, numero 12562 Presidente Stile – Relatore Lorito Svolgimento del processo Con ricorso al Tribunale di Matera in funzione di giudice del lavoro depositato in data 22/8/98 gli eredi di C.N.F. esposero che il loro dante causa, dipendente della S.C. s.p.a. era rimasto vittima di un infortunio mortale in data 6/5/91 allorquando, nel tentativo di sbloccaggio di un macchinario cui era addetto, era caduto nella vasca ove si riversava il materiale pietrame da trattare, rimanendo incastrato nella parte ad imbuto della tramoggia. Nel rilevare responsabilità della società in ordine alla determinazione dell'evento dannoso, a cagione della mancata adozione di adeguati presidi atti ad impedire il verificarsi di eventi pregiudizievoli, convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Matera la società nonché S.G. , dipendente con mansioni di capocantiere e la Assicurazioni Generali spa onde conseguire l'accertamento della piena responsabilità della parte datoriale nella produzione dell'evento dannoso e la condanna al ristoro del danno biologico jure hereditatis subito dal congiunto nonché del danno patrimoniale per la mancata remunerazione del lavoro straordinario svolto mensilmente e del danno morale da morte. Con separato ricorso depositato in data 3/3/99 l'Inail promosse azione di regresso nei confronti della S.C. spa con riferimento alle spese sostenute dall'ente per l'assegno funerario e per la rendita ai familiari del de cuius. Riunite le cause ed espletata attività istruttoria, con sentenza 29/1/09 il giudice adito, esclusa la configurabilità di un danno biologico jure hereditatis ed il danno patrimoniale rivendicato dagli eredi, tenuto conto delle tabelle di valutazione stilate dal Tribunale di Milano, condannò al risarcimento del danno morale la S.C. spa e S.G. , nei confronti dei quali accolse altresì la domanda di regresso spiegata dall'Inail, liquidando rivalutazione monetaria ed interessi legali dal dovuto al soddisfo. Detta pronuncia, è stata parzialmente riformata dalla Corte d'appello di Potenza che, in accoglimento della censura spiegata dalla società S. e da S.C. , ha condannato i predetti al pagamento degli importi già liquidati dal primo giudice, oltre interessi legali sulle somme devalutate dalla data dell'infortunio e rivalutate annualmente sino alla pronuncia della sentenza e gli interessi al tasso legale sul capitale rivalutato da tale momento sino al soddisfo. Nel pervenire a tali conclusioni in sintesi, la Corte argomenta in ordine alla infondatezza della tesi datoriale secondo cui l'evento dannoso era riconducibile ad un comportamento assolutamente anomalo della vittima. Osservò per contro che i cospicui elementi acquisiti al giudizio deponevano in guisa inequivoca nel senso della violazione da parte della società, di norme antinfortunistiche cui faceva espresso richiamo, e, per altro verso, che non erano emersi elementi tali da definire in capo al dipendente, una responsabilità per aver realizzato un comportamento del tutto esorbitante rispetto alle mansioni a lui ascritte, assolutamente imprevedibile ed inevitabile per il datore di lavoro. Avverso tale decisione la S.C. spa e S.G. hanno interposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi ed illustrato da memoria ex articolo 378 c.p.c Hanno resistito con controricorso gli eredi Cosentino i quali hanno spiegato altresì ricorso incidentale articolato in unico motivo. Si è costituito con controricorso l'Inail che ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo i ricorrenti in via principale denunziano vizio di violazione di legge ex articolo 360 comma 1 numero 3 in relazione agli articolo 2043 e 2059 c.c. nonché all'articolo 1227 comma 1 c.c. e vizio di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia ex articolo 360 numero 5 c.p.c Osservano in particolare che la ricostruzione della dinamica dell'evento dannoso operata dalla Corte territoriale, se poteva ritenersi sufficiente ad escludere il comportamento abnorme ed imprevedibile della vittima in guisa tale da interrompere il nesso causale, come rimarcato da numerosi dieta giurisprudenziali, non era ugualmente idonea ad escludere un concorso di colpa del lavoratore, il quale aveva eseguito una manovra imprudente e rischiosa per non aver fermato l'impianto mentre eseguiva le operazioni di sbloccaggio. In tal senso si palesava l'errore dei giudici di merito che nulla avevano argomentato sulla questione, espressamente sollevata in sede di gravame, limitando l'iter motivazionale al profilo della esclusione di una interruzione del nesso causale ascrivibile alla condotta abnorme dell'infortunato. Il motivo è privo di pregio. La pronuncia impugnata è esente dai vizi denunciati, perché coerente con i principi che governano la materia, come enucleati dalla costante giurisprudenza di questa Corte. Occorre premettere, che una corretta interpretazione dell'articolo 2087 c.c. induce a ritenere che essa sia riconducibile alla particolare natura del contratto di lavoro, il quale non si configura quale contratto di semplice scambio fra prestazione e retribuzione, implicando anche l'insorgenza di obblighi di natura non patrimoniale, quale quello di tutela dell'integrità fisica e morale del lavoratore. Come si è affermato in dottrina, la disposizione in oggetto ha natura polivalente, operando da un lato come fonte di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto negoziale che lega l'imprenditore al dipendente, e dall'altro, come fonte di un dovere di sicurezza che assume indubbiamente profili di natura pubblicistica in ragione delle finalità che si intendono perseguire e della natura degli interessi tutelati. Questa prospettazione è largamente condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte la quale ha fra l'altro evidenziato che della norma in esame deve darsi una interpretazione conforme ai fondamentali principi costituzionalmente garantiti, quali quelli dell'articolo 32 Costituzione che tutela la salute come fondamentale diritto del cittadino, e dell'articolo 41 Cost. che pone precisi limiti all'esplicazione dell'iniziativa privata, con lo stabilire, fra l'altro, che la stessa non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana vedi al riguardo, Cass. 3 luglio 1997 numero 5961, Cass. 17 luglio 1995 numero 7768, Cass. 29 marzo 1995 numero 3738 , la sicurezza del lavoratore costituendo un bene di rilevanza costituzionale che impone a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione, di anteporre al proprio interesse imprenditoriale, la sicurezza di chi tale prestazione esegua vedi sul punto Cass. cit. 30 agosto 2004 numero 17314 . Nella prospettiva innanzi descritta, deve dunque, ritenersi fermo il principio giurisprudenziale alla cui stregua, ai fini della configurabilità della responsabilità' del datore di lavoro per l'infortunio subito dal dipendente o per la tecnopatia contratta, grava quest'ultimo l'onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, dell'infortunio o della malattia ed il nesso causale tra l'utilizzazione del macchinario o la nocività dell'ambiente di lavoro e l'evento dannoso, e grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività1 svolta nonché' di aver adottato, ex articolo 2087 cod.civ., tutte le misure che - in considerazione della peculiarità dell'attività' e tenuto conto dello stato della tecnica - siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, mentre il comportamento del lavoratore è idoneo ad escludere il rapporto causale tra inadempimento del datore di lavoro ed evento, esclusivamente quando esso sia autosufficiente nella determinazione dell'evento, cioè se abbia il carattere dell'abnormità per essere assolutamente anomalo ed imprevedibile cfr. Cass. 28 luglio 2004 numero 14270, cui adde Cass. 13 agosto 2008 numero 21590, Cass. 17 febbraio 2009 numero 3788, Cass. 26 giugno 2009 numero 15078 . A siffatti principi deve reputarsi si sia informata la pronuncia impugnata laddove, sulla scorta del materiale probatorio acquisito in giudizio, è pervenuta all'accertamento da parte datoriale, della violazione specifica delle disposizioni di cui all'articolo 242 comma 1 e comma 2 del d.p.r. numero 547 del 27/A/55 che espressamente prescrive la predisposizione di parapetti di altezza non minore di cm.90 su tutti i lati di vasche, serbatoi e recipienti aperti con bordi a livello o ad altezza inferiore a cm. 90 dal pavimento o dalla piattaforma di lavoro, o comunque, la collocazione di solide coperture o altre difese atte ad evitare il pericolo di caduta dei lavoratori entro di essi, quando per esigenze della lavorazione o per condizioni di impianto non sia possibile applicare il parapetto. Nello specifico la Corte territoriale ha rimarcato come lo stato dei luoghi fosse caratterizzato non solo dalla mancata collocazione di parapetti in prossimità della vasca di carico della tramoggia, ma anche dalla mancata apposizione di cartelli di segnalazione di pericolo, il che aveva con il tempo determinato l'instaurarsi della prassi, ampiamente illustrata dai testimoni escussi, dello svolgimento delle operazioni di sbloccaggio del materiale nella vasca dell'impianto, da parte degli operai che operavano sul piano di calpestio cui era adiacente, senza alcun presidio protettivo. La circostanza, poi, che la parte datoriale fosse ben a conoscenza dello svolgimento delle descritte operazioni secondo le modalità illustrate, con abituale sistemazione dei tondini di ferro da utilizzare per lo svolgimento della attività descritta nelle adiacenze dell'imbocco della vasca, e con la macchina in movimento, era desumibile dal fatto che l'impianto era ben visibile dagli uffici amministrativi, come confermato dalle univoche acquisizioni testimoniali in atti. La Corte ha quindi desunto dall'articolato compendio probatorio acquisito, la violazione da parte della società S. dell'obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo d'attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all'impiego d'attrezzi e macchinari quanto all'ambiente di lavoro, ritenendo che la conclamata violazione degli obblighi imposti dal dettato normativo di cui all'articolo 2087 c.c. a carico della parte datoriale, valesse ad escludere qualsiasi interruzione del nesso di causalità riconducibile ad un comportamento abnorme del lavoratore. La complessa motivazione sottesa alla decisione della Corte territoriale, vale altresì ad escludere ogni ipotizzato concorso di colpa della vittima dell'infortunio, perché la mancata predisposizione dei presidi antinfortunistici richiesti dalla legge, l’inosservanza anche di più semplici prescrizioni dettate dalla comune esperienza e volte ad evitare il verificarsi di eventi pregiudizievoli, la consapevolezza delle modalità con le quali si svolgevano usualmente le operazioni di sbloccaggio del macchinario, sempre in movimento, erano di tale pregnanza causale da escludere ogni ipotesi anche di un mero concorso di colpa del lavoratore il quale si era attenuto sostanzialmente, alle ordinarie modalità di espletamento delle operazioni predette ed avallate dalla parte datoriale, che anche sotto tale profilo era venuta meno ai pregnanti obblighi di prevenzione gravanti a suo carico. Corollario di quanto sinora detto è che la pronuncia impugnata appare ineccepibile anche in relazione all'ulteriore censura formulata dai ricorrenti sotto il profilo della violazione dell'articolo 360 numero 5 c.p.c. per omessa motivazione. Come più volte affermato da questa Corte, il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell'articolo 360 c.p.c., numero 5, si configura soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, vizio che non è certamente riscontrabile allorché il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi considerati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte ex multis, Cass. 9 settembre 2011 numero 18523, Cass. 18 marzo 2011 numero 6288 . Nella fattispecie in esame, la motivazione della sentenza d'appello consente l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, ai fini del vaglio di congruenza in sede di giudizio di legittimità ed appare, per i motivi innanzi esposti, del tutto esaustiva sottraendosi alle censure formulate. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano vizio di violazione dell'articolo 112 c.p.c. ex articolo 360 numero 4 c.p.c Rilevano che la Corte di merito nell'accogliere il gravame da essi proposto in tema di liquidazione del danno, aveva corretto la statuizione emessa sul punto dal primo giudice, condannando gli appellanti al pagamento degli importi indicati nella sentenza di primo grado, oltre gli interessi legali sulle somme devalutate dalla data dell'infortunio 6/5/91 e rivalutate annualmente fino alla pronuncia della sentenza e gli interessi al tasso legale sul capitale rivalutato da tale momento fino al soddisfo. Tuttavia, nella opinione dei ricorrenti, la Corte avrebbe omesso di considerare che gli importi riconosciuti in favore degli eredi dal giudice di prima istanza, erano comprensivi di rivalutazione ed interessi maturati alla data di presentazione della domanda 2/5/96 . Di conseguenza, la somma liquidata in sentenza avrebbe dovuto esser devalutata con riferimento al 2/5/96 e non al 6/5/91 e da quella data si sarebbero dovute operare annualmente le rivalutazioni e calcolare gli interessi. Gli eredi Cosentino dal canto loro, spiegano ricorso incidentale con il quale denunciano vizio di violazione degli articolo 2056 - 1223 c.c. ex articolo 360 numero 3 c.p.c., vizio di extrapetizione per violazione dell'articolo 112 c.p.c. con riferimento all'articolo 360 numero 4 c.p.c. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo ex articolo 360 numero 5 c.p.c Lamentano l'errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale per aver valutato il danno nella misura quantificata dal giudice di prima istanza non con riferimento alla data dell'infortunio bensì a quella della sentenza, disponendone la devalutazione con successiva rivalutazione ed interessi fino alla sentenza e, successivamente, dei soli interessi. Ciò in violazione delle disposizioni di cui agli articolo 2056 - 1223 c.c. come interpretate dalla costante giurisprudenza di legittimità per cui la valutazione del danno va operata con riferimento al momento in cui si è verificato l'evento dannoso, e va adeguata all'attualità con riconoscimento di rivalutazione monetaria ed interessi fino alla data della sentenza definitiva e dei soli interessi per l'epoca successiva. Denunciano quindi, difetto di motivazione, avendo i giudici di merito sensibilmente ridotto il valore del danno liquidato dal primo giudice, senza supportare la decisione da adeguata motivazione, lamentando altresì error in procedendo ex articolo 112 c.p.c. per aver ridotto l'entità del danno iniziale laddove gli appellanti avevano richiesto la sola revisione degli accessori di legge. Le censure, da esaminarsi congiuntamente perché attinenti di medesimo capo della sentenza impugnata, sono infondate. Al di là di ogni questione attinente all'ammissibilità della censura formulata dai ricorrenti principali - i quali hanno evidenziato che la controparte aveva richiesto ed ottenuto condanna al pagamento di importi comprensivi di rivalutazione ed interessi già maturati alla data di deposito del ricorso introduttivo 2/5/96 , di un quinquennio successiva a quella del verificarsi dell'evento, oltre ulteriori accessori, non riportando i termini dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado in coerenza con il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione - osserva la Corte che i giudici di merito hanno emesso una decisione espressione di una corretta interpretazione della domanda e frutto della applicazione delle disposizioni che disciplinano la materia. Infatti è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, quello alla cui stregua in caso di mora nella liquidazione di crediti di lavoro, ivi compresi quelli di natura risarcitoria, gli interessi legali devono essere calcolati sulle somme via via rivalutate e non sull'importo originario del credito vedi fra le tante, Cass. 4 maggio 2009 numero 10236, Cass. 2 marzo 2004 numero 4255, Cass. 2 dicembre 2002 numero 17071 e la Corte territoriale non si è discostata da tali principi laddove ha condannato gli appellanti in solido, al pagamento degli importi indicati nella sentenza di primo grado, oltre interessi legali sulle somme devalutate alla data dell'infortunio e rivalutate annualmente fino alla pronuncia della sentenza, oltre gli interessi al tasso legale sul capitale rivalutato da tale momento sino al soddisfo. Con il terzo motivo si denuncia vizio di violazione degli articolo 1916 c.c., 11 e 12 d.p.r. numero 1124/65 in relazione all'articolo 360 comma 1 numero 3 c.p.c. per avere la Corte territoriale liquidato in favore dell'Inail l'importo di Euro 292.730,03 senza che l'istituto ne avesse dimostrato l'effettivo fondamento. Si lamenta, invero, che il meccanismo di rivalutazione annuale che avrebbe giustificato, nella prospettazione dell'Inail, l'incremento della rendita agli eredi in relazione alla quale era stata nel ricorso di primo grado formulata da parte dell'Istituto, domanda di pagamento dell'importo di lire 344.655.285 pari ad Euro 177.999,59 , non era stato in alcun modo dimostrato. Si richiama inoltre, l'orientamento di legittimità secondo cui è consentita la rivalutazione di una rendita non definitiva, solo se la rivalutazione sia imposta da provvedimenti sopravvenuti, e si censurano gli approdi ai quali era pervenuta la Corte di merito che aveva riconosciuto in favore dell'Istituto il maggiore importo liquidato, pur in assenza di alcuna produzione documentale che ne giustificasse l'incremento rispetto al quantum oggetto del ricorso di primo grado proposto dall'Inail. La censura è priva di pregio sotto diversi profili. La pronuncia impugnata appare del tutto ineccepibile laddove ha mostrato di conoscere e condividere la giurisprudenza di legittimità alla cui stregua, nel giudizio di regresso intentato nei confronti del datore di lavoro, poiché l'istituto svolge la sua azione attraverso atti emanati a conclusione di procedimenti amministrativi, tali atti sono assistiti dalla presunzione di legittimità propria di tutti gli atti amministrativi, che può venir meno solo di fronte a contestazioni precise e puntuali che individuino il vizio da cui l'atto in considerazione sarebbe affetto ed offrano contestualmente di provarne il fondamento. Pertanto, in difetto di contestazioni specifiche deve ritenersi che la liquidazione delle prestazioni sia avvenuta nel rispetto dei criteri enunciati dalla legge, e che il credito relativo alle prestazioni erogate sia esattamente indicato in sede di regresso sulla base della certificazione del direttore della sede cfr. ex plurimis, Cass. numero 11617 del 13 maggio 2010 . Nella specie i giudici di merito hanno rimarcato che non risultava articolata alcuna specifica contestazione da parte dei convenuti, odierni ricorrenti, in ordine alla liquidazione degli importi oggetto della pretesa azionata da parte dell'Inail sicché ben poteva ritenersi che la liquidazione delle prestazioni fosse avvenuta nel rispetto dei criteri enunciati dalla legge e che il credito relativo alle prestazioni erogate fosse esattamente quello indicato in sede di regresso sulla base della certificazione redatta dal direttore di sede. Non può sottacersi, del resto, che il motivo di censura confligge con il principio di autosufficienza del ricorso, non risultando specificamente disposto nel corpo dell'atto introduttivo del presente grado di giudizio, alcun richiamo alle difese articolate in prime cure e ad una specifica contestazione, in quella sede, degli importi oggetto della pretesa azionata dall'Istituto. In definitiva, i ricorsi spiegati in via principale ed incidentale, devono essere respinti. Vanno, infine, compensate le spese del giudizio di Cassazione, in ragione della natura e complessità delle questioni trattate, nonché della situazione di reciproca soccombenza fra i ricorrenti principali ed i controricorrenti eredi Cosentino. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del presente giudizio.