Il cliente, sospettato di furto, è invitato in uno stanzino per una perquisizione. E’ documentato da certificazione medica che il malore sia da addursi alla condizione di stress causata dall’indebito intervento del vicedirettore.
Con la sentenza numero 9317, depositata il 27 febbraio 2013, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello. La minaccia di perquisizione. Un uomo si trova in un supermercato per fare la spesa. Il vicedirettore della struttura, accusandolo di aver già rubato il giorno precedente, lo invita a recarsi in uno stanzino per un controllo. Il cliente ha una crisi cardiaca, per la quale viene immediatamente ricoverato in ospedale. Viene poi accertato che il furto del giorno prima non è mai avvenuto. La condanna. Per questo, il vicedirettore viene condannato dal Tribunale per violenza privata e per le lesioni che ne sono derivate, ex articolo 610 e 586 c.p La Corte d’Appello, confermando i fatti, assolve l’imputato dal reato di violenza privata, condannandolo per ingiuria e le conseguenti lesioni, ex articolo 594, comma 3, c.p. ed ex articolo 586 c.p., nonché per lesioni personali colpose, ex articolo 590 c.p E’ cambiato il fatto contestato? Il vicedirettore ricorre per cassazione, lamentando la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, per mutamento del fatto contestato. La Suprema Corte ricorda che per essere rilevata una tale violazione, è necessario verificare in concreto se «nella contestazione, considerata nella sua interezza, non siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza» e se ci sia «assoluta incompatibilità del fatto diverso con quello oggetto di contestazione». Il diritto di difesa è stato garantito. Nel caso specifico la Corte rileva che è da ritenersi legittima la diversa qualificazione della condotta, visto che con l’accusa di aver sottratto della merce è stata integrata la lesione dell’onore della persona. Rispetto a ciò l’imputato ha potuto esercitare il proprio diritto di difesa, viste le risultanze dibattimentali. Il nesso causale è dimostrato. La Corte ritiene infondate anche le altre doglianze del ricorrente. Non c’è alcuna carenza di motivazione, poiché è la Corte d’Appello ha ritenuto «adeguato il riferimento alle modalità del fatto, che era stato decritto puntualmente sia dalla persona offesa che da testi». Il nesso causale, tra condotta dell’imputato e malore, è stato dimostrato correttamente tramite certificazione medica. Le motivazioni sono corrette. Infine, la Corte rileva che in sede di legittimità, se la decisione è immune da vizi logici, non può essere sindacata la mancata concessione delle attenuanti generiche, né risarcimento del danno liquidato dal giudice in via equitativa. Per tutti questi motivi la Corte di Cassazione respinge il ricorso.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 novembre 2012 – 27 febbraio 2013, numero 9317 Presidente Ferrua – Relatore De Berardinis Ritenuto in fatto Con sentenza in data 6-7-2011 la Corte di Appello di Milano, a seguito di appelli proposti dal PM e dalla Parte civile, pronunziava la riforma della sentenza emessa dal Giudice Monocratico del Tribunale, in data 30-4-2010, nei confronti di M.S. , assolto dai reati di cui agli arti 81 cpv. – 610 - 586 CP. perché il fatto non sussiste dichiarava l'imputato responsabile dei reati di cui agli articolo 594, co. 3, e 586 - 590 CP., così qualificati i fatti contestati, condannandolo alla pena di Euro 500, 00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, liquidati in Euro 5.000,00. In fatto si era accertato che l'imputato, svolgendo la funzione di vicedirettore in un supermercato, nel quale si era recata la persona offesa - S.H.R. - lo aveva invitato a recarsi in uno stanzino per farsi controllare, affermando che egli si era già reso responsabile di furto il giorno precedente, fatto che si era accertato non essere rispondente al vero. Da tale condotta era derivato un malore della persona offesa, che aveva subito ricovero ospedaliero per una crisi cardiaca. I fatti erano stati dunque diversamente qualificati come innanzi precisato dal giudice di appello. Avverso la predetta sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore, deducendo 1 - la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, per mutamento del fatto contestato. Sul punto evidenziava che la sentenza di appello aveva ritenuto sussistente una ingiuria laddove si era contestata violenza privata. 2 - la violazione di legge per avere ritenuto illegittimo il controllo eseguito dall'imputato nei confronti della persona offesa, senza specificare per quali ragioni di tale valutazione, essendo l'imputato dotato della funzione di vicedirettore del punto di vendita, onde era da ritenere che egli avesse esercitato il potere di invitare la persona offesa a dare chiarimenti fl. 3 del ricorso . 3 - violazione di cui all’articolo 606, lett. e CPP. in relazione agli articolo 586 – 590 CP. rilevando che la motivazione della sentenza risultava meramente apodittica, laddove affermava che le lesioni si erano verificate in conseguenza della condotta tenuta dall'imputato. 4 - la mancata concessione delle attenuanti generiche, evidenziando che l'imputato aveva agito a tutela del luogo di lavoro nel quale egli era addetto, e che non si poteva ravvisare alcun abuso di funzioni. 5 - Censurava, infine, la condanna al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa, per violazione degli articolo 185 CP e 2043 C.C., evidenziando che il c.d. pretium doloris e la riparazione del danno devono essere commisurati alle condizioni della vittima, e che sul punto la motivazione della sentenza risultava carente. Rileva in diritto Il ricorso deve ritenersi è destituito di fondamento. Preliminarmente va evidenziato che non si ravvisano i presupposti di una violazione del principio di correlazione, in riferimento alla diversa qualificazione giuridica della condotta contestata nella originaria imputazione. Vanno sul punto richiamati i principi stabiliti da questa Corte - Sez. II del 5 maggio 2000, numero 5329-RV 215903 - e Sez. V, 11.6.1999, numero 7598 - RV 213648 - per cui va apprezzato in concreto se nella contestazione, considerata nella sua interezza, non siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza. Va anche verificata la assoluta incompatibilità del fatto diverso con quello oggetto di contestazione. In tal senso deve essere esclusa nella specilla dedotta violazione di legge, essendosi ritenuta la condotta ascrivibile all'imputato qualificabile come ingiuria, per le modalità desumibili in concreto dalla rubrica. In conclusione, secondo quanto emerge dal testo del provvedimento impugnato, il giudice di appello ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi del reato di cui all'articolo 594, comma terzo CP., rilevando che l'imputato aveva rivolto alla persona offesa espressioni con le quali attribuiva alla stessa di avere sottratto mercé del locale in cui si trovava, e pertanto deve ritenersi legittima la diversa qualificazione della condotta - ai sensi dell'articolo 594, co. 3 CP. in luogo della fattispecie prevista dall'articolo 610 CP. ricorrendo gli estremi della offesa all'onore della persona, fattispecie sulla quale in concreto l'imputato aveva potuto esercitare il diritto di difesa, secondo le risultanze dibattimentali richiamate in sentenza e specificate dal PM appellante. 2 - Parimenti infondate appaiono le censure di cui al secondo motivo di ricorso, essendo stato rilevato con adeguata motivazione, che l'imputato aveva agito indebitamente, alla stregua delle modalità della condotta manifestata verso la persona offesa all'atto del controllo. Deve ritenersi adeguato il riferimento alle modalità del fatto, che era stato descritto puntualmente sia dalla persona offesa che da testi, onde restano prive di fondamento le deduzioni di carenza della motivazione sul punto. 3 - Va evidenziato che risulta ugualmente esauriente e logica, oltre che rispondente alle risultanze processuali, la motivazione relativa alla fattispecie di cui agli articolo 586-590 CP. essendo stato rilevato dal giudice di appello che la persona offesa aveva accusato il malore documentato da certificazione medica - angor coronarico e crisi sincopale - in relazione alla condizione di stress per l'intervento indebito operato dall'imputato. Le deduzioni difensive sul punto devono dunque ritenersi prive di fondamento, essendo stata evidenziata una correlazione temporale desunta da specifici dati probatori - quali documentazione medica innanzi indicata. Inoltre va rilevato che il nesso causale resta chiaramente desumibile anche dalle dichiarazioni della persona offesa, indicate nel testo del provvedimento impugnato. 4 - devono ritenersi inammissibili i rilievi formulati dal ricorrente per mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, considerato che la valutazione dei presupposti di applicazione dell'articolo 62 bis CP è espressione del potere discrezionale del giudice di merito, che può negare tali attenuanti anche in base ad un unico elemento ritenuto ostativo alla concessione del beneficio, desunto da modalità della condotta o dai precedenti penali. v. Cass. Sez. VI 7 luglio 1999, numero 8668 - RV 214200 - per cui il diniego delle generiche può essere legittimamente fondato anche sull'apprezzamento di un solo dato negativo, oggettivo o soggettivo5che sia ritenuto prevalente rispetto ad altri elementi . Conseguentemente, in presenza di congrua motivazione sul punto, che si desume dal testo del provvedimento, va rilevata l'inammissibilità delle censure difensive. Cass. Sez. I - 2.12.2004, numero 46954 - RV 230591 - per cui la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo . 5 - parimenti inammissibile risulta il motivo concernente la condanna al risarcimento del danno, trattandosi di danno liquidato dal giudice in via equitativa, che deve ritenersi sottratto al sindacato di legittimità, trattandosi di una manifestazione dell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito sulle conseguenze derivanti dal reato, che risultano evidenziate con congrua motivazione nel testo del provvedimento impugnato. Alla stregua di tali rilievi va dunque pronunziato il rigetto del ricorso ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute dalla costituita Parte civile, che vengono liquidate in complessivi Euro 3.500/00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla Parte civile che liquida in complessivi Euro3.500, 00 oltre accessori secondo legge.