In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, laddove il reato presupposto sia integrato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, l’eventuale utilità conseguita dal danneggiato a fronte dell’esecuzione - da parte dell’ente - di prestazioni contrattuali dovute non può essere considerata “profitto confiscabile” e, conseguentemente, non concorre alla quantificazione del valore oggetto di ablazione.
Lo ha stabilito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 23896, depositata in cancelleria il 28 maggio 2018. Truffa nell’interesse della società, scatta il sequestro. Nel caso di specie il Giudice per le Indagini Preliminari ha disposto un sequestro preventivo a carico di una società operante nel mercato dello smaltimento dei rifiuti sotto procedimento per responsabilità amministrativa da reato ex d.lgs. numero 231/2001. Secondo gli inquirenti, gli apicali dell’ente si sarebbero resi autori di vari reati presupposto - tra cui frode nelle pubbliche forniture, truffa, gestione illecita di rifiuti ed attività organizzate al traffico illecito di rifiuti - tutti posti in essere nel corso dell’esecuzione di un appalto pubblico affidato da più comuni in favore della società medesima. Il sequestro è stato disposto per oltre 20 milioni di euro, corrispondente all’ipotizzato profitto del reato di truffa. Tale quantificazione è stata contestata dalla società in sede di gravame. Il Tribunale, ricostruito il rapporto contrattuale intercorrente tra la società e i comuni affidatari, ha drasticamente ridotto il sequestro, portandolo a poco più di 600mila euro. Secondo il giudice d’appello, infatti, il GIP non avrebbe tenuto in debita considerazione i costi d’impresa comunque sostenuti dalla società per l’effettiva esecuzione dei servizi oggetto dell’appalto. La vicenda è finita all’attenzione dei Giudici di legittimità. Il procuratore generale ha contestato l’interpretazione svolta dal Tribunale sotto due principali versanti da un lato, ha sostenuto l’erroneità della detrazione dei costi d’impresa siccome riconducibili ad attività propriamente illecite dall’altro, ha evidenziato l’erronea quantificazione dei suddetti costi poiché basata su accertamenti tributari dell’Agenzia delle Entrate affatto conferenti rispetto alle esigenze del procedimento penale. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi, in ambito 231, dell’annosa questione inerente alla quantificazione del valore da sottoporre a sequestro in relazione ai cd. “reati in contratto”. Si tratta, in particolare, di quei reati quale è il reato di truffa in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere o sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale. I passaggi motivazionali della Corte possono riassumersi nei termini che seguono. L’utilità per il danneggiato non fa parte del “profitto confiscabile”. Anzitutto la Corte ricorda che, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto di confisca articolo 19, d.lgs. numero 231/2001 è dato dal «vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto». Tuttavia - si precisa - laddove il reato presupposto sia integrato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, l’eventuale utilità conseguita dal danneggiato a fronte dell’esecuzione - da parte dell’ente - di prestazioni contrattuali dovute non può essere considerata “profitto confiscabile”. Nei “reati in contratto” c’è utilità per il danneggiato. Nell’ambito dei “reati in contratto” - spiegano gli Ermellini - alcuni comportamenti dell’autore del reato, oltre a risultare perfettamente leciti, possono produrre una utilità per il danneggiato e questi - per scelte puramente personali e soggettive - può scegliere di ricevere/conservare tali utilità nonostante traggano origine da un illecito. Ne consegue che il profitto deve essere concretamente determinato «al netto della effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente». Il profitto assoggettabile a confisca nei “reati in contratto” criteri di individuazione. Date queste premesse, la Corte ha indicato i criteri che occorre utilizzare ai fini della perimetrazione del profitto in relazione ai “reati in contratto”, e segnatamente 1 sono assoggettabili ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscono «diretta derivazione causale dell’illecito» 2 non possono essere oggetto di ablazione i “vantaggi” eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico i.e. le utilitas di cui si sia giovata la controparte danneggiata . Modalità di commisurazione delle “utilitas”. I vantaggi recati alla controparte - perciò fuori dal perimetro del sequestro - devono essere commisurati ai soli “costi vivi”, ossia i costi concreti ed effettivi che l’impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale. Tali costi - lungi dal poter essere riscostruiti, come nel caso di specie, tramite presunzioni di matrice tributaria - devono essere calcolati in base ad accertamenti condotti dall’autorità giudiziaria ovvero da tecnici consulenti o periti all’uopo nominati che tengano conto sia della contabilità e dei bilanci degli enti sia del costo di mercato delle prestazioni effettivamente rese, previa adozione dei dovuti accorgimenti volti ad evitare la sopravvalutazione artificiosa dei costi riportati nei documenti contabili. Decurtazione confermata, previo “riconteggio”. Sul crinale delle considerazioni sopra svolte, la Cassazione ha quindi giudicato errata la scelta del Tribunale di ridurre l’importo del valore confiscabile sulla base delle risultanze dei procedimenti tributari, per l’effetto accogliendo il ricorso e rinviando al medesimo Tribunale per il ricalcolo dei “costi vivi” d’impresa fuori confisca.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 28 marzo – 28 maggio 2018, numero 23896 Presidente Davigo – Relatore Verga Ritenuto in fatto Il Tribunale di Perugia, con ordinanza del 28.11.2017 ha accolto l’appello proposto nell’interesse di SpA di riduzione del sequestro preventivo per equivalente finalizzato, ai sensi degli articolo 53 e 19 d.lgs. 231/2001, alla confisca fino a concorrenza dell’illecito profitto, indicato nel provvedimento del 22.11.2016 del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale in complessivi Euro 20.947.683,64, profitto derivante da reato di truffa aggravata a danno di enti pubblici commesso nell’interesse ed a vantaggio della s.p.a. dai propri dipendenti, sul presupposto dell’accertato fumus, nei confronti della società, dell’illecito amministrativo di cui agli articolo 1, 5, 6, 7, 24 commi 1 e 2, 24-ter comma 2, 25-undecies comma 1, lett. a e comma 2, lett. b numero 1 e lett. f d.lgs. 231/2001 in relazione ai reati di cui agli articolo 81 cod. penumero 256, comma 1, lett. a e 260 d.lgs. 152/06, articolo 416, comma 1 e 2, 452-bis, 640 commi 1 e 2 cod. penumero reato commessi in omissis . Per l’effetto ha ridotto il sequestro alla minor somma di Euro 663.751,50 detraendo, sul presupposto che una parte della attività svolta da abbia realmente giovato ai Comuni, i c.d. costi vivi sostenuti per eseguire i contratti di gestione, calcolati sulla scorta di quanto indicato negli atti di adesione di , e intervenuti con l’Agenzia delle Entrate dove sono stati indicati i costi, rappresentati dal fatturato ricevuto da , considerati indeducibili con la conseguenza che i restanti costi sostenuti da e in relazione alle prestazioni fatturate da dovevano essere considerati deducibili e quindi effettivi. Costi indeducibili che ammontano ad Euro 663.751,50 con l’effetto che solo quanto pagato a per le suddette prestazioni doveva considerarsi profitto ingiusto dell’ipotizzato reato di truffa. Ricorre per Cassazione il Procuratore della Repubblica di Perugia deducendo 1. Violazione di legge in relazione all’individuazione del profitto assoggettabile a sequestro preventivo a fini di confisca. Premesso che è pacifico che nel reato in contratto è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, rileva che nel caso in esame si tratta di prestazioni in toto illecite quale è stata l’attività di smaltimento dei rifiuti con la conseguenza che il costo relativo a detta prestazione non potrà mai essere considerato costo scorporabile, perché intrinsecamente illecito o comunque concerne le attività strumentali e/o correlative rispetto al reato presupposto. Considerato che presupposto per la non confiscabilità è che il profitto consegua ad una seppur parziale effettive corretta esecuzione delle prestazioni svolte in favore della controparte, rileva che nel caso in esame l’unica attività che può al limite qualificarsi lecita è quella prodromica alla prestazione di smaltimento ovvero la mera attività di raccolta e di trasporto in loco dei rifiuti. Evidenzia che il profitto è stato quantificato dal giudice delle indagini preliminari nel provvedimento genetico sulla base delle risultanze emerse dalle complessive ed esaustive indagini in maniera assolutamente coerente con l’indicato indirizzo giurisprudenziale 2. violazione di legge per mancanza, incoerenza e irragionevolezza della motivazione laddove il tribunale ha determinato il profitto del reato di truffa aggravata sulla base delle valutazioni espresse dall’Agenzia delle entrate in sede di accertamento di violazioni tributarie, in un contesto non solo extra penale, ma addirittura riferibile al differente reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Sottolinea che l’accertamento con adesione richiamato non ha alcuna attinenza con il profitto contestato nel presente procedimento, posto a base del sequestro preventivo. Rileva anche che il tribunale ha determinato il profitto del reato sulla base di una valutazione induttiva effettuata dall’Agenzia delle entrate senza in alcun modo motivare le ragioni per cui tale valutazione potesse prevalere sull’articolato ragionamento del giudice per le indagini preliminari. Lamenta che l’ammontare dei profitti è stato ricavato enucleando dal contratto le operazioni di compostaggio e biostabilizzazione che in realtà non sono mai state effettuate, o sono state effettuate in maniera del tutto illecita, tale da compromettere l’intero processo di trattamento dei rifiuti. depositava memoria con la quale chiedeva l’inammissibilità o il rigetto del ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è fondato. I reati provvisoriamente ascritti alle persone fisiche coinvolte nel procedimento penale in esame attengono ad ipotesi di frode nelle pubbliche forniture, truffa, gestione illecita di rifiuti ed attività organizzate finalizzate al traffico illecito di rifiuti, reati posti in essere nell’ambito di un contratto di appalto relativo alla raccolta di rifiuti in diversi comuni. Il sequestro preventivo di valori è stato disposto dal GIP fino alla concorrenza della somma di Euro 20.947.683,64, corrispondente all’ipotizzato profitto del reato di cui all’articolo 640 co 1 e 2 c.p. compiuto da personaggi di vertice della Spa, cui risulta contestato l’illecito amministrativo agli articolo 1, 5, 6, 7, 24 commi 1 e 2, 24-ter comma 2, 25-undecies comma 1, lett. a e comma 2, lett. b numero 1 e lett. f d.lgs. 231/2001. Il Tribunale del Riesame con il provvedimento impugnato ha ridotto il sequestro alla minor somma di Euro 663.751,50 sul presupposto che una parte della attività svolta da abbia realmente giovato ai Comuni. È bene premettere che il Collegio aderisce all’orientamento secondo il quale, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’articolo 19 del d.lgs. numero 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone così Sez. U, numero 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti Spa, Rv. 239924 nello stesso ordine di idee, in tema di responsabilità di persone fisiche, v., per tutti, Sez. U, numero 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436 . Come indicato dalle SSUU nella sentenza numero 26654/2008 nel caso in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale c.d. reato in contratto , è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto eventualmente solo annullabile ex articolo 1418 e 1439 c.c. , con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente. È il caso proprio del reato di truffa di cui si discute, che non integra un reato contratto , considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra. Trattasi, quindi, di un reato in contratto e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in base alla disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il contratto, ove questo, per scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull’entità del profitto illecito tratto dall’autore del reato e quindi dall’ente di riferimento. Sussistono, perciò, ipotesi in cui l’applicazione del principio relativo all’individuazione del profitto del reato può subire una deroga o un ridimensionamento. V’è, quindi, l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio economico derivante direttamente dal reato profitto confiscabile e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito profitto non confiscabile . Le Sezioni Unite hanno in particolare chiarito che il profitto deve essere concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente , evidenziando come lo stesso articolo 19, impedisca l’assoggettamento a confisca della parte del profitto che può essere restituita al danneggiato. I principi espressi dalle Sezioni Unite sono stati successivamente ribaditi da questa Corte Cass. Sez. 6 del 17/06/2010, numero 35748, P.M. e Impregilo S.p.A. Rv. 247914 . In sintesi nel caso in cui il reato presupposto sia riconducibile ad un’ipotesi di c.d. reato in contratto, il profitto assoggettabile a sequestro preventivo finalizzato alla confisca dovrà, dunque, essere determinato tenendo in considerazione un duplice criterio da un lato, potranno essere assoggettati ad ablazione tutti i vantaggi di natura economico patrimoniale che costituiscano diretta derivazione causale dell’illecito c.d. concezione causale del profitto , di tal che la confisca potrà interessare esclusivamente l’effettivo incremento del patrimonio conseguito dall’agire illegale dall’altro lato, non potranno essere aggrediti i vantaggi eventualmente conseguiti in conseguenza di prestazioni lecite effettivamente svolte a favore del contraente nell’ambito del rapporto sinallagmatico, cioè pari alla utilitas di cui si sia giovata la controparte. Come indicato da questa Corte nella sentenza numero numero 9988 del 2015 Rv. 262794 il punto fermo da cui occorre prendere le mosse è che, nella commisurazione del valore della utilità conseguita dal danneggiato , non si può in alcun modo tenere conto del margine di guadagno per l’ente, dell’utile d’impresa che - almeno fisiologicamente - compone il corrispettivo pagato per la prestazione tenuto conto della ratio dell’istituto, ispirata al principio secondo il quale crimen non lucrat, non è invero ammissibile che la persona giuridica chiamata a rispondere della responsabilità amministrativa possa trarre un qualunque vantaggio economico, un lucro, dall’agire illecito. Ne discende che l’utilitas non può essere commisurata al prezzo indicato nel contratto, in ipotesi viziato dall’attività illecita, né al valore di mercato della prestazione ivi prevista, in quanto di necessità inglobanti anche un margine di guadagno per l’ente, un utile d’impresa, un quid pluris rispetto al valore nudo della prestazione, che non può essere riconosciuto per le ragioni sopra esplicitate. Ciò premesso deve essere affrontato il tema della determinazione del valore della utilitas conseguita dalla controparte dalla esecuzione del contratto sinallagmatico, unica voce scomputabile dal complessivo valore del negozio e, quindi, sottratta all’ablazione. Ritiene il Collegio che il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte debba essere commisurato ai soli costi vivi , concreti ed effettivi, che l’impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale. Al fine di determinare i costi vivi sostenuti dall’ente per dare adempimento alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata, l’Autorità Giudiziaria potrà avvalersi dell’esito degli accertamenti compiuti dalla Polizia Giudiziaria ovvero, se non esaurienti, delle indicazioni di un tecnico, nominato quale consulente o perito, che tengano conto, da un lato, delle risultanze della contabilità e dei bilanci dell’ente, dall’altro lato, del costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, e di qualunque altro dato che possa consentire di correggere eventuali sopravvalutazioni dei costi esposti nei documenti contabili e, dunque, di limare cifre che risultassero essere state artatamente maggiorate, secondo una linea di continuità con le condotte illecite oggetto del procedimento. Sulla base di tali dati, il giudice potrà così determinare, in modo esatto e giuridicamente corretto, sulla base di dati concreti e non presuntivi, l’ammontare della voce di costo scorporabile dal ricavo lordo percepito dall’ente e, quindi, il quantum di profitto confiscabile. È evidente che nel caso in cui l’esecuzione della prestazione sia stata parziale o in parte non conforme a quanto convenuto, dal valore complessivo del contratto potrà essere detratto soltanto il costo pro quota stimato equo per la prestazione in effetti eseguita e di cui la controparte si sia utilmente giovata. Tutto ciò premesso pur dovendosi riconoscere la correttezza dell’impostazione di fondo del ragionamento seguito dal Tribunale del riesame - laddove ha ridotto il profitto confiscabile in considerazione dell’utilitas tratta dalla controparte - errato si appalesa però il criterio di calcolo seguito perché i giudici di merito non solo hanno provveduto allo scorporo dei c.d. costi vivi su basi meramente presuntive rifacendosi agli atti di adesione di , e , intervenuti con l’Agenzia delle Entrate in sede di accertamento di violazioni tributarie, in un contesto riferibile a reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti, dove erano stati indicati costi dalle parti considerati indeducibili ai fini fiscali costi relativi a prestazioni fatturate da , ma non eseguite con la conseguenza di ritenere induttivamente deducibili e quindi effettivi tutti gli altri, ma non ha neppure tenuto in considerazione il fatto che le operazioni di compostaggio e biostabilizzazione risulterebbero non essere state effettuate, o essere state effettuate in maniera del tutto illecita, tale da compromettere l’intero processo di trattamento dei rifiuti. L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio al Tribunale di Perugia. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Perugia per nuovo esame.