Non importa quale sia il grado di giudizio, la nullità del termine apposto al contratto di lavoro non implica più il ripristino dell’obbligo retributivo dalla mora accipiendi alla ripresa del servizio lavorativo.
Il fatto. A seguito della declaratoria giudiziale di nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro subordinato, il Tribunale adito condannava una società datrice di lavoro a corrispondere al lavoratore le mensilità retributive intercorrenti dalla comunicazione del previo tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dalla previgente formulazione dell’articolo 410 c.p.c al dì, dell’effettiva reintegrazione in servizio del lavoratore medesimo. Successivamente, in sede di appello promosso da parte datoriale, la Corte Territoriale, in parziale accoglimento del gravame, spostava in avanti il c.d. “dies a quo” termine iniziale da cui computare l’obbligo retributivo, perché ravvisava il momento di costituzione della “mora accipiendi” ritardo e/o rifiuto della prestazione da parte del creditore con la notifica del ricorso introduttivo di lite. Pronuncia “extra petita” da parte dei giudici di appello? Ricorre per cassazione, sempre la società datoriale, lamentando una pronuncia “extra petita” da parte dei giudici di appello, consistente nell’aver riconosciuto la pretesa risarcitoria del lavoratore modificando il termine iniziale dell’obbligo retributivo e quindi di costituzione della “mora accipiendi”, nonostante lo stesso lavoratore, in sede di gravame avesse omesso la specifica contestazione della statuizione del primo giudice circa l’irrilevanza della richiesta di ripresa del servizio lavorativo, ripetutamente avanzata dal medesimo nel corso del giudizio di primo grado e lamentando, altresì, una contraddittoria motivazione della sentenza, laddove per un verso, i giudici di appello avevano ritenuto inidoneo il tentativo obbligatorio di conciliazione a rilevare come costituzione di mora accipiendi e per l’altro, tale idoneità era stata riconosciuta a generiche allegazioni circa la predetta richiesta di ripresa del servizio, formulate dal lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Mere difese e jus superveniens. La Suprema Corte di Cassazione, pur disattendendo le doglianze argomentate dal datore di lavoro-ricorrente, con la sentenza in commento affronta due importanti temi processuali uno, riferibile al modo di atteggiarsi delle cc.dd. “mere difese” con riferimento all’onere processuale articolo 346 c.p.c. e quindi più propriamente all’effetto devolutivo limitato, caratterizzante il giudizio di appello l’altro, concernente l’applicabilità ai giudizi in corso del c.d. “jus superveniens” ed in particolare alla disciplina innovativa in materia di mutamento dei criteri di quantificazione del risarcimento danni, derivanti dalla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, contenuta nell’articolo 32 co. 5 legge numero 183/2010. Le mere difese in fatto ed in diritto prescindono dall’onere di proposizione ex articolo 346 c.p.c Il primo tema, trae spunto dalla censura sollevata dal datore di lavoro circa l’impossibilità per i giudici di appello di esaminare la questione della costituzione della “mora accipiendi” ai fini dell’individuazione del dies a quo per il computo del pregresso obbligo retributivo statuito a favore del lavoratore in quanto, il lavoratore non aveva introdotto tale questione in appello né con l’atto introduttivo , né tan poco, entro i limiti dettati dall’articolo 346 c.p.c. «onere di riproposizione delle domande ed eccezioni». La Cassazione, chiosa al riguardo che le reiterate richieste della ripresa del servizio, espresse dal lavoratore in primo grado, non rilevano quali «domande e/o eccezioni», appartenendo invece alla categoria delle cc.dd. «mere difese» ossia semplici contestazioni consistenti nella negazione dei fatti costitutivi della pretesa di controparte, sia con riferimento all’inesistenza e/o non veridicità del «fatto storico» in sé cc.dd. «difese in fatto» e sia, altresì, con riferimento alle ingerenze sul «fatto» che possono derivare da una qualificazione normativa diversa da quella invocata da controparte cc.dd. «difese in diritto» . Le mere difese contenute negli atti introduttivi del giudizio di primo grado, possono essere esaminate anche nel successivo giudizio di appello, prescindendo da una loro specifica riproposizione negli atti introduttivi del mezzo di gravame. I rapporti esautorati espressione del principio di certezza giuridica. Circa il secondo punto innanzi esposto, vertente sugli effetti, nell’ambito dei procedimenti in corso, del mutamento del diritto sostanziale e processuale, è importante secondo lo scrivente, operare un distinguo a seconda che il legislatore abbia inteso o meno attribuire efficacia retroattiva alla norma di legge che di regola secondo il dettato dell’articolo 11 delle preleggi disposizioni preliminari al c.c. ha efficacia solamente per l’avvenire. Invero, in presenza di una normativa con efficacia retroattiva, gli effetti della stessa sono direttamente applicabili alle fattispecie concrete sostanziali e processuali verificatesi anteriormente alla sua entrata in vigore, con il solo limite dell’inapplicabilità ai cc.dd. rapporti esautorati ossia i rapporti giuridici definiti con transazione oppure con sentenza passata in giudicato e ciò nel rispetto di un principio cardine del sistema ovvero del principio di certezza giuridica. A quali giudizi si applicano i nuovi criteri di quantificazione dei danni da nullità del termine? Nel caso dedotto nel giudizio deciso con la sentenza in commento, la Cassazione ha chiarito che il combinato disposto delle norme ex articolo 32 commi 5 e 7, legge numero 183/2010, con il quale muta radicalmente il criterio di quantificazione del risarcimento dei danni spettante al lavoratore a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato, applicando il ricorso a parametri da essa normativa predeterminati in luogo del sistema risarcitorio previgente ancorato al ripristino di un obbligo risarcitorio con decorrenza dalla costituzione della “mora accipiendi” del datore di lavoro, è applicabile anche in sede di legittimità, nonostante dal tenore letterale del disposto del comma 7 della norma anzidetta sembrerebbe evincersi il contrario. Fissazione di un termine alle parti per l’integrazione delle domande e coordinamento con il divieto dei nova in appello. Tale ultima illuminante chiosa fornita dalla Cassazione nella sentenza in commento, prende le mosse da una sua precedente ordinanza numero 2112/2011 con cui l’esimio Organo Nomofilattico ha provveduto a dare una lettura costante ed uniforme e costituzionalmente orientata della normativa testé citata. Invero, secondo la Cassazione, nel dettato letterale contenuto nel comma 7 articolo 32 L. 180/2010 - ove viene statuita la fissazione di un termine alle parti per l’integrazione delle domande e/o eccezioni oppure per il compimento di poteri istruttori d’ufficio ex articolo 421 c.p.c. - l’intenzione del legislatore è quella di uniformare a quelle attività anche ai procedimenti in corso in sede di legittimità, che pertanto saranno rinviati alla fase di gravame mediante una pronuncia di cassazione con rinvio. Peraltro, la disciplina in esame, va coordinata anche con il divieto dei “nova” in appello articolo 437 co. 2 c.p.c. ed in tal senso la Cassazione ha statuito che l’inciso letterale «ove necessario» contenuto nel comma 7 dell’articolo 32 L. numero 183/2010 sta ad indicare che le modifiche del “petitum” nel caso di specie, consistente nelle condanne nel quantum del risarcimento danni sono rimesse ad integrazioni ad opera delle parti oppure all’esercizio di poteri officiosi del giudice a seconda del grado di giudizio in cui si trova il processo in altri termini, innanzi al giudice di prime cure, la predetta modifica sarà opera delle parti, mentre, in sede di gravame, soccorreranno i poteri istruttori officiosi del giudice. Tanto rende la normativa immune da contrasti con la Costituzione, in particolare con l’articolo 3, in quanto non sarebbe razionale e quindi aderente a tale precetto costituzionale, applicare criteri risarcitori diversi a questioni analoghe ed ancora aperte, operando una discriminazione tra pretese risarcitorie derivanti dalla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, scandita solamente dalla casualità del grado di giudizio maturato.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 gennaio – 2 marzo 2012, numero 3305 Presidente Canevari – Relatore Manna Svolgimento del processo A seguito di due sentenze non definitiva e definitiva il Tribunale di Genova, sul presupposto della dichiarata nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato stipulato il 1°.3.04 fra M. D. e la S.r.l. C., condannava la seconda a pagare al primo le retribuzioni maturate dalla data 26.7.05 della comunicazione del previo tentativo di conciliazione ex articolo 410 c.p.c, che ravvisava come primo atto di costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro. In parziale accoglimento del gravame interposto dalla summenzionata società, con sentenza 4-24.11.09 la Corte d'appello di Genova riduceva il credito del D. alle sole retribuzioni maturate dalla notifica 12.8.06 del ricorso introduttivo di lite, confermando nel resto le statuizioni di prime cure. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la S.r.l. C. affidandosi a quattro motivi. Resiste con controricorso il D Entrambe le parti hanno depositato memoria ex articolo 378 c.p.c. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo si deduce violazione degli articolo 115 e 116 c.p.c. in relazione all'articolo 2909 cc. per avere l'impugnata sentenza corretto la data di costituzione in mora accipiendi non più quella del tentativo di conciliazione ex articolo 410 c.p.c, ma quella di notifica dell'atto introduttivo di lite nonostante che l'avere il D. ripetutamente chiesto di essere ripreso al lavoro secondo quanto da lui dedotto in ricorso fosse stato ritenuto irrilevante dal primo giudice, senza che siffatta statuizione fosse stata poi censurata dal lavoratore con apposito gravame. Analoga doglianza viene fatta valere nei restanti motivi di ricorso sotto forma di denuncia di vizio di extrapetizione con il secondo motivo ancora sotto il profilo della violazione degli articolo 115 e 116 c.p.c, in relazione all'articolo 2697 ce, con il terzo motivo in quanto le reiterate richieste di essere riammesso in servizio di cui parla il D. nell'atto introduttivo di lite costituirebbero circostanza non acquisita in atti nonché per vizio di motivazione con il quarto motivo, laddove si sottolinea la contraddittorietà fra il reputare, da un lato, inidoneo ai fini della costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro il tentativo obbligatorio di conciliazione e, dall'altro, adeguata a tal fine la generica allegazione del lavoratore contenuta nel suo ricorso ex articolo 414 c.p.c. di aver più volte chiesto di essere riammesso in servizio. 2 Tutti i motivi sopra riassunti da trattarsi insieme perché sostanzialmente inerenti alla medesima doglianza, sia pure formulata sotto differenti angolazioni -sono da disattendersi. L'appello principale della S.r.l, C. aveva di per sé devoluto l'intera questione dell'avvenuta costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro, sicché ben poteva la Corte territoriale come poi ha fatto accogliere la doglianza limitatamente al momento di tale messa in mora, ravvisato non più nella comunicazione dei tentativo obbligatorio di conciliazione ex articolo 410 c.p.c. come aveva fatto il primo giudice , bensi nella successiva notifica del ricorso introduttivo di lite. Dunque, a tal fine non erano necessari né un appello incidentale da parte del D. per altro, non configurabile essendo egli risultato totalmente vittorioso in primo grado né la riproposizione da parte sua della questione ex articolo 346 c.p.c, norma che concerne domande ed eccezioni, non già mere difese, tali essendo quelle relative alle ripetute richieste del lavoratore di essere ripreso in servizio sull'inapplicabilità dell'articolo 346 cp.c. alle mere difese v., da ultimo Cass. Sez. Ili numero 10811 del 17.5.2011 . Quanto al lamentato vizio di motivazione, non sussiste contraddizione fra il ritenere, da un lato, inidoneo ai fini della costituzione in mora accipiendi del datore di lavoro il tentativo obbligatorio di conciliazione e, dall'altro, adeguata l'allegazione del lavoratore contenuta nel ricorso introduttivo di lite, avendo il tentativo di conciliazione finalità diversa e ben potendo essere privo di quelle allegazioni-invece necessarie ai sensi dell'articolo 414 c.p.c. Infine e ciò risulta dirimente rispetto ad ogni altra doglianza mossa dalla società ricorrente l'applicabilità al caso di specie dello ius supervenies costituito dal co.5 dell'articolo 32 legge numero 183/2010 v. meglio infra ha reso ormai irrilevante ogni discorso sulla mora accipiendi del datore di lavoro in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, poiché detta norma prevede una tutela risarcitoria quantificata secondo parametri diversi. 3 Nelle more della trattazione del ricorso è intervenuto l'articolo 32 legge numero 183/2010, che al co. 5 così dispone Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un 'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un M. di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo S della legge 15 luglio 1966, numero 604' . Il successivo co. 7 stabilisce che Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fèssa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile . La società ricorrente invoca, nella memoria ex articolo 378 c.p.c, l'applicazione di tale ius supervenies, cui si oppone invece il controricorrente. Secondo costante insegnamento di questa S.C. cfr. ex aliis, Cass. 26.7.11 numero 16266 , nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purché pertinente rispetto alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell'ordinamento in materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che ove sia invocato l'articolo 32 legge numero 183/2010 riguardo alle conseguenze economiche della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro è necessario che i motivi del ricorso, purché ammissibili, investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine medesimo. Nel caso di specie, i motivi concernenti la decorrenza della mora accipiendi del datore di lavoro si ripercuotono direttamente sulle conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 1°.3.04 fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche al presente giudizio di legittimità. Nel caso particolare dell'applicabilità dell'articolo 32 co. 5 e 7 legge numero 183/2010 anche ai giudizi di legittimità, questa S.C. si è già pronunciata con ordinanza numero 2112 del 28.1.2011 e, proprio sulla scorta di tale assunto, Corte cost. numero 303/2011 ha poi ammesso la rilevanza anche se non la fondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale. Pur essendo la citata sentenza della Corte cost. vincolante solo nel giudizio a quo trattandosi di pronuncia di rigetto , restano tuttavia insuperate le considerazioni svolte dalla summenzionata ordinanza numero 2112/2011 di questa Corte Suprema, che qui vanno sviluppate mediante un'interpretazione costituzionalmente conforme. Orbene, per quanto il tenore testuale dei co. 5 del cit. articolo 32 riferendosi alla fissazione di un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e ai l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio ex articolo 421 c.p.c, evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza del tutto fortuita della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un'altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa S.C. E poiché una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. numero 214/09 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite in quella occasione si trattava dell'articolo 4 bis d.Igs. 6.9.2001 numero 368, introdotto dall'articolo 21, comma l bis, d.l. 25.6.2008 numero 112, convertito, con modificazioni, in legge 6.8.2008 numero 133 , a fortiori Io sarebbe se, all'interno della medesima ipotesi fattuale pendenza della lite , si operasse un'ulteriore irragionevole distinzione lesiva, quanto meno, dell'articolo 3Cost. fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità. Né la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma. In proposito si muova dalla rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio ex articolo 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all'affermazione, che si legge nei primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge. In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all'interprete un'incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all'applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma. In altre parole, il legislatore ha solo ricordato sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell'articolo 32 co. 5 cit. che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d'ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all'articolo 437 co. 2°, secondo periodo, c.p.c. Indubbiamente prima facie resta un'apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. co. 2 dell'articolo 437 c.p.c. poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per saltum una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase. Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all'articolo 437 c.p.c. o come divieto di applicazione del co. 5 dell'articolo 32 ai giudizi pendenti in appello o in cassazione di problematica legittimità costituzionale, come si è detto , è doveroso risolvere l'improprietà tecnica nata dall'unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell'immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo valorizzando l'inciso ove necessario e il valore disgiuntivo/inclusivo di operatore logico booleano Or della congiunzione che precede l'ultima proposizione del comma 7 del cit. articolo 32 ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile . L'inciso ove necessario dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d'ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all'opera razionalizzatrice dell'interprete. Pertanto, tali modifiche di domande ed eccezioni potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d'ufficio, mentre in appello proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l'ultima proposizione del comma resteranno consentiti solo questi ultimi. 4 In conclusione, deve ribadirsi che il combinato disposto dei commi 5 e 7 del cit. articolo 32 è applicabile anche in sede di legittimità ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Genova in diversa composizione, affinché determini il risarcimento dovuto al D. in una misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un M. di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati dall'articolo 8 legge 15.7.66 numero 604. P.Q.M. Pronunciando sul ricorso, cassa la sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione, con rinvio alla Corte d'appello di Genova in composizioni differente.