La disciplina della messa alla prova per i maggiorenni, introdotta dalla legge numero 67/2014, presenta evidenti difficoltà interpretative in assenza di una disciplina transitoria diretta a regolare i procedimenti instaurati per i delitti previsti dall’articolo 168-bis c.p. che alla data del 17 maggio 2014 abbiano superato le fasi processuali entro le quali, ai sensi dell’articolo 464-bis c.p.p., la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere richiesta dall’imputato. La delicatezza della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferenti il regolamento di diritti di rilievo costituzionale, impone l’intervento regolatore delle Sezioni Unite di Cassazione.
Questo il contenuto della pronuncia numero 30559/2014 – depositata l’11 luglio scorso - della Quarta Sezione Penale della Cassazione che, prima di affrontare il merito del ricorso, anche per evitare applicazioni giurisprudenziali difformi sul neonato istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni previsto dall’articolo 3 legge numero 67/2014 , rimette al Supremo Collegio la quaestio iuris se, in mancanza di norme di diritto intertemporale, la nuova disciplina possa trovar applicazione anche nel processo che abbia già superato la fase processuale indicata dal secondo comma dell’articolo 464- bis c.p.p., entro il quale può essere formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Il contenuto e le finalità della messa alla prova. L’articolo 3 legge numero 67/2014, estendendo agli adulti un istituto ormai da tempo sperimentato dinanzi al Tribunale per i minorenni, ha inserito l’articolo 168- bis c.p. per il quale «nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, sola, congiunta o alternativa con la pena detentiva, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del c.p.p., l’imputato può richiedere la sospensione del processo con la messa alla prova». E l’articolo 168- ter c.p. ha previsto che l’esito positivo della messa alla prova estingue il reato. Secondo la Suprema Corte le finalità del novum normativo sono innanzitutto l’offerta di un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti processati per reati di minore di minore allarme sociale come dimostrato dall’articolo 464- bis , comma 3, c.p.p., che condiziona la sospensione del procedimento con la messa alla prova alla prognosi favorevole in ordine al rischio di recidiva , a cui si associa una funzione deflattiva dei processi penali ed, infine, sono state valorizzate dal legislatore anche le finalità riparatorie dovendo comportare la messa alla prova ex articolo 168- bis , comma 2, c.p., l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato e di tutela della vittima l’articolo 464- quater , comma 3, c.p.p. impone a tale ultimo riguardo al giudice di valutare l’idoneità del domicilio indicato dall’imputato nel programma di trattamento . La disciplina processuale della messa alla prova. L’articolo 464- bis c.p.p. attribuisce al solo imputato l’iniziativa dell’accesso all’istituto, individuando espressamente un termine finale di presentazione della richiesta, con diversificazioni collegate ai differenti procedimenti ma comunque ristretta al giudizio di primo grado la richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni al termine dell’udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine di quindici da detta notifica e con le forme stabiliti dall'articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l'atto di opposizione . Ciò premesso, la disciplina della messa alla prova per i maggiorenni, introdotta dalla legge numero 67/2014, presenta evidenti difficoltà interpretative in assenza di una disciplina transitoria diretta a regolare i procedimenti instaurati per i delitti previsti dall’articolo 168- bis c.p. che alla data del 17 maggio 2014 abbiano superato le fasi processuali entro le quali, ai sensi dell’articolo 464- bis c.p.p., la sospensione del probation può essere richiesta dall’imputato. La soluzione – ricorda la pronuncia in rassegna – passa attraverso l’inquadramento sistematico dell’istituto della messa alla prova che, come detto, presenta profili sia di carattere sostanziale trattandosi di una nuova causa di estinzione del reato , sia di profili di carattere processuale avendo il legislatore previsti specifici termini per la proposizione della richiesta. Le contrapposte soluzioni interpretative. Le prime applicazioni della giurisprudenza di merito Trib. Torino, 21 maggio 2014 Trib. Brindisi, 11 giugno 2014 , ponendo l’accento sugli effetti di natura sostanziale della messa alla prova, hanno fornito un’interpretazione estensiva della norma ai fatti pregressi e a tutti i procedimenti pendenti. Ciò per l’applicazione dell’articolo 2, comma 4, c.p. e per l’evoluzione giurisprudenziale sul principio di retroattività della lex mitior , considerato di diritto fondamentale dalla giurisprudenza sovra-nazionale, sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea lo ha riconosciuto come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario, nella sentenza numero 3.5.2005, numero 387, Italia contro Berlusconi e la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Scoppola contro Italia del 17.9.2009 confermata dalla successiva sentenza Morabito contro Italia del 27.4.2010 , interpretando l’articolo 7 Cedu, ha affermato il carattere assoluto della retroattività in bonam partem della legge penale. Il punto centrale della questione è – come affermato dalla Suprema Corte – che tale principio di diritto sostanziale non diviene, per ciò solo, al contempo un principio dell’ordinamento processuale poiché «non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale» Cass. penumero , 31.3.2011, rv. 250196 . E pure per la Corte costituzionale non ha escluso la possibilità che il diritto alla “retroattività in mitius ” che non è costituzionalizzato possa subire deroghe o limitazioni quando siano sorrette da una valida giustificazione e rientri nel vaglio positivo di ragionevolezza comunque riconosciuto agli ordinamenti nazionali secondo un indirizzo inaugurato con la sentenza numero 393/2006, e poi proseguito con la numero 72/2008 e la numero 236/2011 . In quest’ultima pronuncia la Consulta ha specificato che il principio di retroattività della lex mitior riguardi la fattispecie incriminatrice e la pena e non le ipotesi in cui si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione del fatto, escludendo, ad esempio, che esso non può riguardare le norme sopravvenute che modificano in senso più favorevole al reo la disciplina della prescrizione. Seguendo tale secondo percorso ermeneutico si sostiene che, poiché le nuove norme sulla messa alla prova riguardano anche l’ambito processuale, non si determina l’applicazione dell’istituto ai fatti pregressi e per i procedimenti pendenti, pregiudicando tale interpretazione il canone tempus regit actum , che corrisponde ad esigenza di certezza, razionalità e logicità. La palla passa alle Sezioni Unite. Il compiuto delle Sezioni Unite si prospetta arduo in quanto ritenere inapplicabile la messa alla prova ai processi in corso che si trovano in una fase successiva a quella indicata negli articolo 464- bis e 464- ter c.p.p., rischierebbe di dare ingresso ad una disparità di trattamento per gli imputati il cui processo risulta pendente in primo grado nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento, che possono avvalersi del nuovo istituto, e gli imputati il cui processo si trova in una fase processuale più avanzata. Tuttavia, l’accoglimento della tesi che estende la possibilità di applicare il probation a tutti i procedimenti in corso per eliminare una presunta disparità di trattamento porta con se alcuni problemi pratici sui quali ha messo in guardia la Relazione del Massimario della Cassazione sulla legge numero 67/2014 relazione numero III/7/2014 del 5 maggio gli effetti sostanziali della nuova misura non consistono infatti in automatismi dei quali il giudice possa fare applicazione anche all’esito del dibattimento, in sede di impugnazione o addirittura in fase esecutiva. Essi postulano un esperimento comportamentale, scandito da valutazioni a forte contenuto discrezionale a partire da quella che inerisce all’idoneità del programma di trattamento rispetto agli obiettivi di risocializzazione ‘senza condanna’ e dalla prognosi favorevole circa il rispetto del programma e l’astensione dell’imputato istante da ulteriori reati e ‘osservato’ dal giudice attraverso organi a ciò deputati. L’applicazione di siffatto regime sarebbe precluso al giudice di legittimità e non risulterebbe agevolmente praticabile – in assenza di chiare previsioni ‘procedurali’ del legislatore – neppure dal giudice del merito peraltro individuabile nel solo giudice di primo grado, data l’esclusione di un rimedio impugnatorio diverso dal ricorso per cassazione una volta iniziata l’istruttoria dibattimentale. Se, per converso, si valorizza la circostanza che il legislatore, oltre alle norme sostanziali, ha previsto specifiche disposizioni processuali, una delle quali fissa uno sbarramento per la proposizione della richiesta, allora l’interpretazione costituzionalmente orientata potrebbe essere quella di ritenere espressione della discrezionalità legislativa la scelta di ancorare ad un preciso momento procedurale la possibilità di proporre l’istanza, con ciò dovendosi escludere che sia incostituzionale aver deciso di escludere, dal novero dei procedimenti in cui il rito premiale è esperibile, quei procedimenti nei quali tale fase è stata superata come sostenuto dal Giudice del Tribunale di Napoli V. Bove, in penale contemporaneo del 25.6.2014 . Ma anche tale interpretazione comporterebbe che gli imputati, proprio a causa dell’assenza di norme di diritto intertemporale non risolvibili in via interpretativa da non chiaro dettato normativo e giurisprudenziale, nazionale e sovrannazionale, di riferimento non hanno attivato lo strumento processuale della restituzione nel termine ex articolo 175 c.p.p. per richiedere il beneficio in esame anche nei procedimenti in cui le fase processuali dell’articolo 464- bis , comma 2, c.p.p. siano state superate. E, tuttavia, interpretando in modo rigoroso l’articolo 175 c.p.p., posto che il rispetto del termine non è stato possibile per causa di forza maggiore il c.d. factum principis , la richiesta andava proposta nel termine di dieci giorni dalla entrata in vigore della normativa in esame e non, dunque, in caso di giudizio, alla prima udienza utile, non essendo tale termine contemplato nell’istituto della restituzione in termini e non essendo possibile ritenere che l’imputato richieda di esercitare il diritto alla prima occasione processuale utile per lui come sostenuto, invece, da Trib. Torino, 21 maggio 2014 . Ecco perché sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che dia la possibilità, nel caso in cui si detti una disciplina transitoria che propenda per la soluzione dello sbarramento della richiesta della messa alla prova una volta spirati i termini processuali previsti dall’articolo 464- bis c.p.p., di poter essere ri rimesso in termini per richiedere l’istituto della messa alla prova e, nei casi in cui il processo si trovi in fase avanzata appello o cassazione detti delle altra norma transitoria che individui con precisione l’iter procedurale in tali casi per l’espletamento della messa alla prova.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, ordinanza 9 – 11 luglio 2014, numero 30559 Presidente Brusco – Relatore Piccialli Ritenuto in fatto D.R. ricorre, tramite difensore, avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, a seguito di giudizio abbreviato, lo ha riconosciuto colpevole del reato di guida in stato di ebbrezza ex articolo 186, comma 2, lettera c del codice stradale, aggravato dall'aver provocato un incidente stradale fatto del omissis . La Corte di appello, disattendendo la versione dei fatti fornita dall'imputato confermava il giudizio di responsabilità valorizzando le risultanze del rapporto della polizia stradale, in cui oltre a dare atto che l'imputato, dopo l'investimento si era dato alla fuga - tanto che nei suoi confronti era stata contestata separatamente la violazione di cui all'articolo 189, comma 6 del codice della strada - si rappresentava che il D. , manifestando sintomi tipici della condizione di ebbrezza, era stato sottoposto a test con etilometro, al quale risultavo positivo con tassi alcolemici di 2,38 g/l e di 2,50 g/l. Con il ricorso censura il giudizio di responsabilità lamentando la manifesta illogicità della motivazione attraverso un dissenso sull'apprezzamento del compendio probatorio sviluppato dal giudicante al quale contrappone una diversa versione dei fatti, secondo la quale a seguito dell'incidente si era allontanato dal luogo del sinistro dopo essersi accordato con il conducente dell'auto investita per incontrarsi alla festa campestre ove reperire il modello CID e che solo in quell'occasione aveva assunto alcolici, tanto che le risultanze degli esami mostravano che l'alcolemia era in crescita, dato incompatibile con l'affermata assunzione dell'alcol prima dell'incidente avvenuto intorno alle ore 20,20. Si sostiene, sotto altro profilo, la carenza di motivazione in relazione al rigetto dell'istanza di riqualificare il fatto ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera a del codice della strada. È pervenuta in data 6 giugno 2014 nella cancelleria di questa Corte memoria difensiva nell'interesse dell'imputato, che l'ha anche sottoscritta personalmente, con la quale è stata richiesta la sospensione del processo per messa alla prova ex articolo 168 bis e seguenti c.p. e 464 bis e seguenti c.p.p. legge 28 aprile 2014, numero 67. All'udienza del 24 giugno 2014, fissata per la discussione, la deliberazione veniva rinviata ex articolo 615, comma 1, c.p.p. all'odierna udienza. Considerato in diritto Prima ancora di affrontare il merito del ricorso, si pone, ai sensi dell'articolo 609, comma 2, c.p.p.,la questione preliminare - non essendo stata possibile proporla prima - dell'applicabilità del novum normativo dell'istituto della messa alla prova, introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 28 aprile 2014, numero 67, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 2 maggio 2014, entrata in vigore il successivo 17 maggio, al fine di corrispondere ad apposita istanza presentata dal difensore dell'imputato. Con le nuove disposizioni v. articolo 168 bis, 168 ter, 168 quater c.p., da 464 bis a 464 nonies c.p.p., 657 bis c.p.p., diretto a disciplinare, in fase esecutiva, il computo del periodo di messa alla prova dell'imputato in caso di revoca, 141 bis e 141 ter norme di attuazione e coordinamento c.p.p. dove, sono rispettivamente disciplinati l'avviso del pubblico ministero per la richiesta di ammissione alla messa in prova e l'attività dei servizi sociali nei confronti degli adulti ammessi alla prova il legislatore ha previsto la messa alla prova sia quale causa di estinzione del reato come esplicitamente previsto dall'articolo 168 ter, comma 2, cod. penumero e confermato dalla collocazione della norma nel capo I del Titolo VI del codice penale, subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena sia come possibilità di definizione alternativa della vicenda processuale come confermato dall'inserimento delle specifiche norme in apposito titolo, V bis del libro VI - Procedimenti speciali - del codice di rito. Le finalità perseguite dal legislatore sono evidenti l'offerta di un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti processati per reati di minore allarme sociale quelli sanzionati con la pena pecuniaria o con pena detentiva - esclusiva, congiunta o alternativa - non superiore nel massimo a quattro anni ed i delitti indicati nel secondo comma dell'articolo 550 c.p.p. in tema di citazione diretta a giudizio , come dimostrato dall'articolo 464, comma 3, c.p.p., che condiziona la sospensione del procedimento con la messa alla prova alla prognosi favorevole in ordine al rischio di recidiva. In questo senso, la finalità del ravvedimento e del recupero riproduce le caratteristiche fondamentali dell'analogo istituto vigente nel processo minorile ma non esauriscono la portata della innovazione, che è altresì la funzione deflattiva dei procedimenti penali attraverso l'estinzione del reato dichiarata dal giudice in caso di esito positivo della prova. Sono state poi valorizzate dal legislatore anche le finalità riparatorie e di tutela della vittima, poste come condizioni di ammissibilità dell'istituto in esame. Ciò lo si desume, in primo luogo, dalla previsione che la messa in prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato articolo 168 bis, comma 2, c.p. . Ma anche, in secondo luogo, dalla configurata necessità di valutazione, da parte del giudice, dell'idoneità del domicilio indicato dall'imputato nel programma di trattamento ad assicurare le esigenze di tutela della persona offesa articolo 464 quater, comma 3, c.p.p. . La disciplina processuale della messa alla prova è regolata, come sopra indicato, dagli articolo 464 bis e seguenti del codice di rito, che attribuendo al solo imputato, l'iniziativa dell'accesso all'istituto, individua espressamente un termine finale di presentazione della richiesta, con diversificazioni collegate ai differenti procedimenti, ma comunque ristretta al giudizio di primo grado le conclusioni rassegnate dalle parti al termine dell'udienza preliminare, nel procedimento ordinario la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato all'imputato o dalla comunicazione del relativo avviso al difensore, nei casi di giudizio immediato il medesimo termine previsto dall'articolo 461 c.p.p. per l'opposizione, nei procedimenti per decreto . Ciò premesso, la legge 67/2014 presenta evidenti difficoltà interpretative in assenza di una disciplina transitoria diretta a regolare i procedimenti instaurati per i delitti previsti dall'articolo 168 bis c.p.p. che alla data del 17 maggio 2014, abbiano superato le fasi processuali entro le quali, ai sensi dell'articolo 464 bis c.p.p., la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere richiesta dall'imputato. La mancanza di norme di diritto intertemporale impone di affrontare la questione se la nuova disciplina possa trovare applicazione anche nel processo che abbia già superato la fase processuale indicata dal secondo comma del nuovo articolo 464 bis c.p.p., entro la quale può essere formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. La soluzione non può non passare attraverso l'inquadramento sistematico dell'istituto in esame nel quale sono all'evidenza individuabili profili sia di carattere sostanziale si tratta di una nuova causa di estinzione del reato inserita nel codice penale conseguente all'adempimento di un programma che implica misure limitative della libertà del soggetto , sia profili di carattere processuale, avendo il legislatore previsto specifici momenti processuali per la proposizione della richiesta v. in particolare l'articolo 464 bis c.p.p. . Gli effetti di carattere sostanziale dell'istituto sopra indicati potrebbero deporre per una interpretazione estensiva della norma anche ai fatti pregressi ed ai procedimenti pendenti, sia per l'applicazione dell'articolo 2, comma 4, c.p. sia per coerenza alla significativa evoluzione della giurisprudenza sul principio di retroattività della lex mitior, alla luce delle fonti internazionali e comunitarie e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo, che hanno portato anche a mitigare il principio della intangibilità del giudicato v. Sezioni unite, 24 ottobre 2013, 7 maggio 2014, numero 18821, Ercolano . In tal senso vanno richiamate le fonti internazionali e comunitarie che affermano il principio della lex mitior. L'articolo 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, numero 881 l'articolo 49, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2006 e successivamente recepita dal Trattato di Lisbona modificativo del Trattato sull'Unione Europea e del Trattato che istituisce la Comunità Europea, entrato in vigore il 1 dicembre 2009. Vanno altresì richiamate le pronunce della Corte di giustizia dell'Unione Europea che, già prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, iscrivevano il principio della retroattività della lex mitior tra quelli facenti parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, destinati perciò a costituire parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte di giustizia garantisce il rispetto e che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale per attuare l'ordinamento comunitario v. sentenza 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02 sentenza 11 marzo 2008, Jager, C-420/06 sentenza 28 aprile 2011, El Dridi, C-61/11 . Va, infine, fatto riferimento all'articolo 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza 17 settembre 2009 Scoppola contro Italia - confermata nella successiva decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia - laddove per la prima volta venne affermato il principio secondo il quale l'articolo 7 par. 1 della Convenzione non sancisce solo il principio dell'irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche il principio della retroattività della legge penale meno severa, traducendosi nella norma secondo la quale, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevole all'imputato. Tale principio, come rilevato dalle Sezioni unite, nell'ambito di un procedimento per misure cautelari v. sentenza 31 marzo 2011, P.G. in proc. Ambrogio, rv. 250196 non diviene, però, per ciò solo, al contempo un principio dell'ordinamento processuale. La citata sentenza ha sottolineato che in tema di successione di leggi processuali nel tempo, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima di una pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, non costituisce un principio dell'ordinamento processuale quello secondo il quale deve essere applicata quella le cui disposizioni sono favorevoli all'imputato, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell'ordinamento processuale. D'altra parte, la giurisprudenza costituzionale v., in particolare, la sentenza numero 236 del 2011 che ha dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 10, comma 3, della legge numero 251 del 2005, sollevata in riferimento all'articolo 117, comma 1, della Costituzione , ha affermato che la sentenza della Corte EDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola non ha escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni, sottolineando come il riconoscimento da parte della Corte Europea del principio di retroattività in mitius - che già operava nel nostro ordinamento in forza dell'articolo 2, secondo, terzo e quarto comma c.p. - non aveva escluso la possibilità di introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione. La stessa sentenza numero 236 del 2011 ha altresì affermato che il principio di retroattività della lex mitior presuppone una omogeneità tra i contesti fattuali o normativi in cui operano le disposizioni che si succedono nel tempo ed ha rimarcato come detto principio - riconosciuto dalla Corte di Strasburgo - riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità, giungendo alla conclusione che esso non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l'effetto estintivo del reato. Si prospetta, pertanto, una soluzione interpretativa diversa, potendosi legittimamente sostenere la tesi che il novum normativo, riguardando anche l'ambito processuale v. articolo 464 bis e seguenti c.p.p. , non determini di per sé l’applicazione dell'istituto della messa alla prova ai fatti pregressi e per i procedimenti pendenti, pregiudicando tale interpretazione il canone tempus regit actum, che corrisponde ad esigenze di certezza, razionalità e logicità, che sono alla radice della funzione regolatrice della norma giuridica. D'altra parte, ritenere l'inapplicabilità della messa alla prova ai processi in corso che si trovano in una fase processuale successiva a quella indicata negli articoli 464 bis e 464 ter c.p.p. rischierebbe di dare ingresso a una disparità di trattamento tra gli imputati il cui processo risulta pendente in primo grado nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento, che possono avvalersi di questo nuovo istituto, e gli imputati il cui processo si trova in una fase più avanzata. Tale soluzione contrasterebbe con l'articolo 2, comma 4, c.p., in tema di retroattività della lex mitior che, pur avendo rango diverso dal principio d'irretroattività della norma incriminatrice, di cui all'articolo 25, comma 2, Costituzione, non è privo di un fondamento costituzionale. Questo fondamento è stato individuato nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice v. sentenza Corte Costituzione numero 236 del 2011 . La soluzione più garantista, che meglio coniuga le esigenze difensiva con un portato normativo non leggibile in modo inequivoco, è ovviamente quella dell'immediata applicabilità dell'istituto della messa alla prova anche ai fatti pregressi e per i processi pendenti, pur in assenza di una disciplina transitoria, in applicazione delle regole generali previste dall'articolo 2, comma 4, c.p. e dei principi sopra indicati. Adottando questa soluzione, si porrebbe strettamente connesso, il problema della individuazione del giudice competente, dinanzi al quale può essere formulata richiesta di sospensione del processo con messa alla prova. Tale giudice potrebbe essere individuato nel giudice indicato dalla nuova disciplina negli articoli 464 e seguenti c.p.p. oppure nel giudice di appello, in conformità a quanto è stato affermato da questa Corte con riferimento al lavoro di pubblica utilità, laddove è pacifico che l'imputato di guida in stato di ebbrezza possa chiedere l'applicazione del lavoro di p.u. in appello, anche quando la condotta di reato sia stata commessa in epoca anteriore alla modifica normativa che ha introdotto il lavoro di p.u. e pur dopo il giudizio di primo grado che quella sanzione non aveva disposto in ipotesi perché non ancora esistente v. in tal senso Sezione IV, 28 maggio 2013, Silvestri, rv. 256208 . Sul punto va sottolineato, ai fini della decisione, che gli effetti sostanziali del nuovo istituto non consistono in automatismi dei quali il giudice possa fare applicazione anche all'esito del dibattimento, in sede di impugnazione o in fase esecutiva, essendo richiesto un esperimento comportamentale, caratterizzato da valutazioni di carattere discrezionale. Analoghe questioni si pongono nel giudizio di legittimità - ove, all'evidenza, è precluso l'applicazione di tale regime - in caso di annullamento con rinvio, al fine di individuare il giudice competente. La delicatezza della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferenti il regolamento di diritti di rilievo costituzionale, impone l'intervento regolatore delle Sezioni unite di questa Corte. P.Q.M. Rimette la questione alle Sezioni unite della Corte di Cassazione.