Filiale di banca come ‘base’ per estorcere soldi ai clienti: coinvolta una dipendente. ‘Via libera’ per il licenziamento

Approfondimento in ambito penale sulle attività criminali allestite dal direttore della filiale. Evidente anche il ruolo della lavoratrice addetta all’‘Ufficio fidi’. Conseguenziale, e corretta, la scelta dell’azienda allontanata la oramai ex dipendente.

Filiale dell’istituto di credito usata come ‘base operativa’ di un’associazione criminale a finire sotto accusa è il direttore, e, di rimbalzo, anche la dipendente addetta all’‘Ufficio Fidi’. E per quest’ultima, in particolare, i problemi sono non solo a livello penale – procedimento concluso con la prescrizione – ma anche lavorativo i vertici della Banca, difatti, le hanno comunicato il licenziamento. Scelta tranchant, quella aziendale, eppure da valutare come legittima alla luce della condotta tenuta dalla oramai ex dipendente. Cassazione, sentenza numero 10662, sezione lavoro, depositata oggi Filiale criminale. Punto di svolta, nella battaglia giudiziaria, è il decisum della Corte d’Appello, che, ribaltando la prospettiva nella pronunzia – a gennaio 2003 – del Pretore, sancisce la correttezza della decisione della Banca di licenziare la dipendente, addetta all’‘Ufficio Fidi’, considerata parte integrante del «complesso sistema estorsivo in danno dei clienti» organizzato dal «direttore» della filiale dell’istituto di credito. Decisi gli «accertamenti svolti in sede penale», da cui «è emerso» che la donna aveva fornito un «supporto operativo indispensabile per l’attuazione e la copertura delle attività illecite». Evidenti, per i giudici di secondo grado, le gravi «responsabilità» della lavoratrice, altrettanto evidente la rottura del «vincolo di fiducia» che dovrebbe connotare il «rapporto di lavoro». Conseguenziale la declaratoria di «legittimità del licenziamento, in considerazione del carattere reiterato della condotta, della gravità degli abusi e della illiceità della condotta» nonché del «danno anche patrimoniale cagionato alla Banca citata in giudizio dai soggetti danneggiati », e non trascurando, concludono i giudici, la «posizione professionale» della donna, richiedente «un elevato grado di affidabilità». Dipendente fuori. E anche in Cassazione, nonostante le obiezioni mosse dalla donna, la decisione è, in sostanza, quella adottata in Appello licenziamento assolutamente corretto. Da un punto di vista formale, chiariscono i giudici, in merito alla «specificità della contestazione disciplinare» mossa dall’azienda, si può affermare che «la lavoratrice incolpata è stata posta in condizione di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa in sede disciplinare, perché il riferimento alle accuse formulate in sede penale – associazione per delinquere, estorsione, falso, ricettazione –, contenuto nella lettera di contestazione degli addebiti posti a base del licenziamento, è stato espressamente effettuato, e con riferimento specifico al contrasto dei suddetti comportamenti ai doveri di ufficio». Da un punto di vista sostanziale, invece, spiegano i giudici, la «legittimità del licenziamento» poggia sul «carattere reiterato della condotta illecita, della gravità degli abusi, del danno anche patrimoniale cagionato alla Banca» e della «posizione professionale» della donna. Assolutamente lapalissiana, concludono i giudici, seguendo il solco tracciato in Appello, la «negazione del vincolo di fiducia che connota il rapporto di lavoro», con riferimento specifico «all’utilizzazione dell’impiego a fini personali, all’abuso grave di fiducia, all’accettazione di compensi su affari trattati per ragioni di ufficio, alla violazione dolosa dei doveri d’ufficio con pregiudizio dell’azienda».

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 gennaio – 15 maggio 2014, numero 10662 Presidente Roselli – Relatore Tria Svolgimento del processo 1.- La sentenza attualmente impugnata - decidendo sull'appello principale di San Paolo IMI s.p.a. avverso la sentenza del Pretore di Civitavecchia del 17 gennaio 2003 e sul riunito appello incidentale di M.P.P., contro la medesima sentenza - accoglie l'appello principale e, riformando la sentenza appellata, respinge la originaria domanda proposta dalla P. nei confronti della suddetta società e rigetta l'appello incidentale. La Corte d'appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che a il presente licenziamento si collega alla vicenda penale che ha coinvolto il direttore della filiale di Civitavecchia del suindicato istituto bancario e la P., che ivi svolgeva mansioni di addetta all'Ufficio Fidi b quanto alla questione posta dall'appellante incidentale - ed avente valenza preliminare - della specificità della contestazione, in base alla giurisprudenza di legittimità, deve essere confermata la decisione del primo giudice secondo cui la lavoratrice incolpata è stata posta in condizione di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa in sede disciplinare perché il riferimento alle accuse formulate in sede penale - di associazione per delinquere, estorsione, falso, ricettazione aggravati - contenuto nella lettera di contestazione degli addebiti posti a base del licenziamento, è stato espressamente effettuato indipendentemente dalla eventuale qualificazione della valenza penale di tali fatti e con riferimento specifico al contrasto dei suddetti comportamenti ai doveri di ufficio, prescritti dalla contrattazione collettiva c le doglianze dell'appellante principale sono incentrate sulla valutazione delle prove dei fatti contestati e posti a base del licenziamento, avendo il primo giudice ritenuto che, in sede civile, non sia stata raggiunta la prova dei gravi fatti addebitati alla lavoratrice d al riguardo è incontestato che 1 la P. era stata addetta, fin dalla sua apertura in data 26 giugno 1991 alla filiale di Civitavecchia dell'Istituto San Paolo 2 le erano state affidate mansioni di addetta alla segreteria fidi 3 dal 31 maggio 1993 rivestiva la qualifica di quadro 4 dal 16 agosto 1994 era stata addetta al settore dei finanziamenti alla clientela, in posizione immediatamente subordinata alla direzione affidata a F.T. e alla vice-direzione e dagli accertamenti svolti in sede penale è emerso che, dall'autunno 1992 al 1994, era stato organizzato dal T. un complesso sistema estorsivo in danno dei clienti della banca del quale la P. era pienamente a conoscenza, visto che il supporto operativo da lei fornito costituiva un momento indispensabile per l'attuazione e la copertura delle attività illecite, come evidenziato dalla testimonianza di L.C., responsabile della ispezione eseguita presso la filiale dopo le denunce dei clienti f dagli accertamenti compiuti in sede penale e sottoposti al vaglio del GIP per il rinvio a giudizio - non presi in considerazione dal Pretore di Civitavecchia - risulta la partecipazione della P. alla organizzazione delittuosa, sulla base di specifiche circostanze non adeguatamente contestate dall'interessata e confermate anche dalla sentenza del Tribunale di Roma del 30 novembre 2006, la quale ha assolto la P. dai reati di estorsione per mancanza di prova sull'elemento psicologico e dichiarato la prescrizione degli altri reati g quanto alla valenza probatoria di tale ultima sentenza - la cui produzione nel giudizio di appello è stata ammessa, trattandosi di un documento formato dopo la proposizione dell'atto di appello - si osserva che, in base alla giurisprudenza di legittimità, il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile Cass. 29 ottobre 2010, numero 22200 h dalla sentenza penale risulta - sia per i reati di estorsione sia per i reati dichiarati prescritti - la sussistenza di specifici elementi di responsabilità della lavoratrice che forniscono la prova delle commissione dei comportamenti contestati in sede disciplinare, tutti valutabili ex articolo 2119 cod. civ., come negazione del vincolo di fiducia che connota il rapporto di lavoro e riconducibili agli illeciti disciplinari previsti dagli articolo 20 e 21 del contratto integrativo aziendale, con specifico riguardo all'utilizzazione dell'impiego a fini personali, all'abuso grave di fiducia, all'accettazione di compensi su affari trattati per ragioni di ufficio, alla violazione dolosa dei doveri di ufficio con pregiudizio dell'azienda i deve essere, pertanto, affermata la legittimità del licenziamento, in considerazione del carattere reiterato della condotta, della gravità degli abusi e della illiceità della condotta stessa, del danno anche patrimoniale cagionato alla banca citata in giudizio dai soggetti danneggiati , della posizione professionale della P., richiedente un elevato grado di affidabilità. 2.- Il ricorso di M.P.P. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi resiste, con controricorso, San Paolo IMI s.p.a. Entrambe le parti depositano anche memorie ex articolo 378 cod. proc. civ. Motivi della decisione I - Sintesi dei motivi di ricorso 1.- Il ricorso è articolato in cinque motivi. 1.1.- Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'articolo 7 dello Statuto dei lavoratori. Si contesta l'affermazione della Corte d'appello secondo cui, nella specie, sarebbe stato rispettato il principio di specificità della contestazione disciplinare, come già ritenuto nella sentenza di primo grado. Si sottolinea che tale statuizione si basa sull'assunto secondo cui il suddetto principio può considerarsi rispettato anche attraverso il rinvio per relationem ad altri atti e, nella specie, con il richiamo dell'atto di rinvio a giudizio in sede penale. Si sostiene che tale assunto - corretto in astratto - nella specie si rivelerebbe inesatto in quanto l'atto di rinvio a giudizio de quo era molto complesso e vasto e si riferiva a più persone, cui erano contestati diversi reati sicché era praticamente impossibile per la P. individuare le singole azioni o omissioni di cui doveva rispondere in sede disciplinare. 1.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all'articolo 360, numero 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'articolo 5 della legge numero 604 del 1966. In via gradata e subordinata rispetto al precedente motivo, si sostiene che l'istituto bancario datore di lavoro non ha provato in modo specifico in sede civile ciò che era stato contestato in sede penale. Pertanto il licenziamento avrebbe dovuto essere considerato illegittimo per mancanza di prova, come correttamente affermato dal primo giudice. 1.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all'articolo 360, numero 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 111 Cost. e dell'articolo 115 cod. proc. civ. L'articolo 111 Cost. sarebbe stato violato per il fatto che la fase di appello è durata oltre sette anni in attesa di documenti e, poi, della sentenza penale, così consentendo al datore di lavoro - che aveva scelto di effettuare il licenziamento prima della conclusione del processo penale - di non assolvere l'onere probatorio a proprio carico, potendo il giudice civile fare riferimento agli atti del procedimento penale, come è accaduto. 1.4.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all'articolo 360, numero 5, cod. proc. civ., motivazione carente e contraddittoria rispetto ai fatti che hanno portato al licenziamento. Si sostiene che nella sentenza impugnata vi sarebbe un salto logico che rappresenta un'evidente contraddittorietà della motivazione che sarebbe rappresentato dal fatto di avere desunto da una situazione certa - l'inserimento della ricorrente nell'azienda come quadro, nell'ambio del settore fidi - la sicura sua presenza e partecipazione allo svolgimento dell'attività illecita in oggetto, in assenza di prove specifiche sul punto ma ricavando tali prove da circostanze incerte o neutre come l'aver ricevuto fuori orario una delle persone offese dai reati. Tali circostanze sono state recepite dalla sentenza penale di primo grado - non passata in giudicato, ma anzi riformata in appello - senza tenere conto delle prove espletate in sede civile e senza fare riferimento neppure alle prove raccolte nel procedimento penale o acquisire i verbali di udienza di tale procedimento, sicché l'accertamento della responsabilità disciplinare della ricorrente ai fini del licenziamento di fatto è stato demandato al giudice penale. Ciò ha portato ad una serie continua di rinvii del processo civile, in attesa che il giudice penale prendesse una decisione su circostanze che, in sede civile, erano prive di prova, ma che, anche nella sentenza penale sono risultate sfornite di specifici riferimenti a sfavore della P. 1.5.- Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all'articolo 360, numero 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'articolo 421 cod. proc. civ. Si ribadisce che la già contestata scelta della Corte romana di fare riferimento al processo penale - così demandando al giudice penale l'accertamento anche della legittimità o meno del licenziamento per fatti e circostanze che avrebbero dovuto essere provati dal datore di lavoro - avrebbe dovuto, quanto meno, comportare l'acquisizione anche dei verbali di udienza del processo penale, per consentire alla ricorrente di difendersi adeguatamente in sede civile. III - Esame delle censure 2.- Il ricorso è da respingere, per le ragioni di seguito esposte. 3.- Il primo motivo è infondato in quanto, diversamente da quanto sostiene la ricorrente, nella specie non è configurabile alcuna violazione dell'ars. 7 della legge numero 300 del 1970 da parte della Corte territoriale, salvo restando che l'accertamento relativo alla sussistenza del requisito della specificità della contestazione trae fondamento da una indagine di fatto, che, come tale, è incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito vedi, per tutte Cass. 30 marzo 2006, numero 7546 . 3.1.- Nella specie, dalla motivazione della sentenza impugnata risulta che il Giudice d'appello - dandone adeguata e logica giustificazione - a proposito della questione relativa alla specificità della contestazione disciplinare, ha ritenuto di confermare la decisione del primo giudice secondo cui la lavoratrice incolpata è stata posta in condizione di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa in sede disciplinare perché il riferimento alle accuse formulate in sede penale - di associazione per delinquere, estorsione, falso, ricettazione aggravati - contenuto nella lettera di contestazione degli addebiti posti a base del licenziamento, è stato espressamente effettuato indipendentemente dalla eventuale qualificazione della valenza penale di tali fatti e con riferimento specifico al contrasto dei suddetti comportamenti ai doveri di ufficio, prescritti dalla contrattazione collettiva. Tale statuizione è del tutto conforme ai consolidati e condivisi principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, cui ha fatto riferimento il Giudice di appello, secondo cui a la previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell'accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa vedi per tutte Cass. 10 giugno 2004, numero 11045 e Cass. 3 marzo 2010, numero 5115 b pertanto, per il rispetto di tale incombente è sufficiente che vengano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli articolo 2104 e 2105 cod. civ. ex plurimis Cass. 10 giugno 2004, numero 11045 c in particolare, la regola della specificità della contestazione dell'addebito non richiede necessariamente - ove questo sia riferito a molteplici fatti - l'indicazione anche del giorno e dell'ora in cui gli stessi fatti sono stati commessi, essendo invece sufficiente che il tenore della contestazione sia tale da consentire al lavoratore di individuare, nella loro materialità, i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti contrari ai doveri di cui agli articolo 2104 e 2105 cod. civ. , di comprendere l'accusa rivoltagli e di esercitare il diritto di difesa tra le altre Cass. 7 agosto 2003, numero 11933 Cass. 5 luglio 2013, numero 16831 d sicché, non essendo richiesta l'osservanza di schemi formali prestabiliti e essendo solo sufficiente che la contestazione degli addebiti disciplinari consenta al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa in sede disciplinare, è pienamente ammissibile la contestazione per relationem mediante il richiamo ad atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato, perché, anche in tale ipotesi, risultano rispettati i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio vedi, tra le molte Cass. SU 9 marzo 1996, numero 1921 Cass. 3 marzo 2010, numero 5115 cit. Cass. 17 novembre 2010, numero 23223 . 3.2.- A fronte di questa situazione le censure della ricorrente appaiono destituite di fondamento, tanto più che l'assunto secondo il quale, nella specie, la complessità dell'atto di rinvio a giudizio in sede penale non avrebbe consentito alla P. di individuare le singole azioni o omissioni di cui doveva rispondere in sede disciplinare, risulta essere stato prospettato non solo impropriamente come vizio di violazione di legge, ma anche senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all'esame o alla valutazione di documenti o atti processuali è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all'articolo 366, numero 6, cod. proc. civ. e all'articolo 369, numero 4, cod. proc. civ. vedi, per tutte Cass. SU 11 aprile 2012, numero 5698 Cass. SU 3 novembre 2011, numero 22726 . 4.- Anche il secondo, il terzo e il quarto motivo - da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione - non sono fondati. 4.1.- In primo luogo, deve essere rilevato che tutte le censure proposte con i suddetti motivi - nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell'intestazione del secondo e del terzo motivo - si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata non per errori di logica giuridica che renderebbero la motivazione stessa incongrua o incoerente, ma per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con particolare riferimento alla affermazione della partecipazione della ricorrente allo svolgimento dell'attività illecita che ha dato origine al procedimento penale di cui si tratta. Al riguardo, infatti, si sostiene che la Corte romana da una situazione certa - rappresentata dall'inserimento della ricorrente nell'azienda come quadro, nell'ambio del settore fidi - avrebbe desunto la partecipazione della P. al complesso sistema estorsivo in danno dei clienti della banca organizzato dal direttore del settore cui era addetta, in assenza di prove specifiche sul punto ma ricavando tali prove da circostanze incerte o neutre recepite dalla sentenza penale di primo grado - non passata in giudicato, ma anzi riformata in appello - e, quindi, di fatto, demandando al giudice penale l'accertamento della responsabilità disciplinare della ricorrente ai fini del licenziamento. Ne deriva che, nella sostanza, la ricorrente, prospetta un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, che però riguarda aspetti del giudizio interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicché la violazione degli arti. 115 e 116 cod. proc. civ. - apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'articolo 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ. - deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità Cass. 26 marzo 2010, numero 7394 Cass. 6 marzo 2008, numero 6064 Cass. 20 giugno 2006, numero 14267 Cass. 12 febbraio 2004, numero 2707 Cass. 13 luglio 2004, numero 12912 Cass. 20 dicembre 2007, numero 26965 Cass. 18 settembre 2009, numero 20112 . 4.2.- Nella specie dalla sentenza impugnata risulta che la Corte territoriale è giunta ad affermare la legittimità del licenziamento - in considerazione del carattere reiterato della condotta, della gravità degli abusi e della illiceità della condotta stessa, del danno anche patrimoniale cagionato alla banca citata in giudizio dai soggetti danneggiati , della posizione professionale della P., richiedente un elevato grado di affidabilità - sulla base degli elementi di fatto già acquisiti, con le garanzie di legge in sede penale, risultanti dalla sentenza del Tribunale di Roma del 30 novembre 2006, la quale ha assolto la P. dai reati di estorsione per mancanza di prova sull'elemento psicologico e dichiarato la prescrizione degli altri reati ascrittile. Ma ciò il Giudice di appello ha fatto sottoponendo i suddetti elementi al proprio vaglio critico e valutandone ex articolo 2119 cod. civ. la loro rilevanza al fine della negazione del vincolo di fiducia che connota il rapporto di lavoro nonché la loro riconducibilità agli illeciti disciplinari previsti dagli articolo 20 e 21 del contratto integrativo aziendale, con specifico riguardo all'utilizzazione dell'impiego a fini personali, all'abuso grave di fiducia, all'accettazione di compensi su affari trattati per ragioni di ufficio, alla violazione dolosa dei doveri di ufficio con pregiudizio dell'azienda. Ne consegue che la Corte romana si è conformata al pertinente orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in base al quale il giudice civile, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile vedi, per tutte Cass. 16 maggio 2000, numero 6347 Cass. 7 febbraio 2005, numero 2409 Cass. 19 ottobre 2007, numero 22020 Cass. 27 aprile 2010, numero 10055 Cass. 29 ottobre 2010, numero 22200 Cass. 30 gennaio 2013, numero 2168 Cass. 21 giugno 2013, numero 15673 . La Corte territoriale, inoltre, ha supportato tale valutazione con congrua, logica e lineare motivazione. Pertanto, la sentenza impugnata sfugge a tutte le censure lamentate, in quanto anche la mancata disposizione della previa acquisizione degli atti del processo penale risulta effettuata in conformità al consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui il giudice che fondi il proprio convincimento sulle risultanze di una sentenza penale non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del processo penale ed esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficienti le risultanze della sola sentenza Cass. 13 maggio 1982, numero 2968 Cass. 15 dicembre 2000, numero 15826 Cass. 29 ottobre 2010, numero 22200 . 5.- Tale ultimo argomento vale anche a dimostrare la non accoglibilità anche del quinto motivo, salvo restando che, in base ad orientamenti di questa Corte, consolidati e condivisi a nel rito del lavoro - il cui carattere tipico è il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale - allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti tra le tante Cass. 5 dicembre 2012, numero 18924 b tuttavia, mentre deve esserci sempre la specifica motivazione dell'attivazione dei poteri istruttori d'ufficio ex articolo 421 cod. proc. civ., il mancato esercizio di questi va motivato soltanto in presenza di circostanze specifiche che rendono necessaria l'integrazione probatoria vedi, per tutte Cass. 24 ottobre 2007, numero 22305 c sicché il giudizio di opportunità riguardante l'esercizio di poteri istruttori d'ufficio, rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale del giudice del merito, da effettuare nell'ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell'articolo 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., qualora la sentenza di merito non adduca un'adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione tra le altre Cass. 25 maggio 2010, numero 12717 . Da tali principi si desume che, nella specie, in ordine alla lamentata mancata acquisizione anche dei verbali di udienza del processo penale non ricorrono gli estremi per denunciare la presunta violazione dell'articolo 421 cod. proc. civ., oltretutto come violazione di legge e senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione. IV - Conclusioni 6.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione -I liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 cento/00 per esborsi, euro 3000,00 tremila/00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.