La sentenza di patteggiamento ha valenza indiziaria dei fatti addebitati anche a livello di responsabilità disciplinare, ferma restando la possibilità per il lavoratore interessato di articolare liberamente i mezzi di prova, in sede civile, per contestare i gravi indizi della sua colpevolezza.
Così afferma la Corte di Cassazione con la sentenza 1024/15, depositata il 21 gennaio. Il caso. La ricorrente impugna innanzi alla Cassazione la sentenza con cui la Corte d’appello di Roma rigettava l’impugnazione del licenziamento intimatogli dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il datore di lavoro infatti, essendo venuto a conoscenza di una sentenza di patteggiamento emessa qualche anno prima nei confronti della lavoratrice, recedeva dal rapporto di lavoro, avvalendosi di una specifica clausola prevista dal contratto collettivo. Il valore indiziario del patteggiamento. Il ricorso contesta l’irrilevanza della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile, deducendo l’insussistenza dei fatti posti a base del licenziamento. Il motivo così prospettato è infondato. La Corte coglie l’occasione per ricordare che, con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta, a questa è pacificamente riconoscibile efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità penale, essendo parificabile alla sentenza irrevocabile di condanna. Pur non essendo i due provvedimenti pienamente equivalenti, per alcuni fini vengono considerati in modo identico. Nel caso concreto dunque, considerando che il contratto collettivo rilevante concede al datore di lavoro la risoluzione del rapporto laddove il dipendente riporti una «sentenza di condanna», i giudici di merito hanno correttamente interpretato la volontà delle parti collettive e, ispirandosi al comune sentire, hanno parificato la sentenza di patteggiamento a quella di condanna. L’argomentazione della S.C. fa anche riferimento alla circostanza per cui, con la sentenza di patteggiamento, in effetti l’imputato non nega la propria responsabilità ma, anzi, esonera l’accusa dalla relativa prova. A ciò si aggiunga infine l’incontestata possibilità per il lavoratore di far valere, nelle competenti sedi civili, gli elementi probatori che possono opporsi alla rilevanza indiziaria della sentenza di patteggiamento, ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare. Per questi motivi il ricorso viene rigettato
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 23 ottobre 2014 – 21 gennaio 2015, numero 1024 Presidente Macioce – Relatore Amoroso Svolgimento del processo 1. Con ricorso depositato il 25.9.2008 T. G. proponeva appello avverso la sentenza emessa in data 26.10.2007, con cui il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro aveva rigettato le sue domande nei confronti del Ministero dell'economia e delle finanze aventi ad oggetto la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatole con ordine al Ministero di reintegrarla nel posto di lavoro e di corrisponderle le retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla reintegra. Contestava la motivazione del primo giudice e chiedeva la riforma della sentenza con l'accoglimento delle proprie domande. L'appellato Ministero si costituiva, contestando la fondatezza dell'impugnazione e chiedendone quindi il rigetto. La Corte d'appello di Roma con sentenza del 15 giugno 2010 6 luglio 2010 ha rigettato l'impugnazione condannando la parte appellante alle spese di del grado. 2. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l'originaria ricorrente con due motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. Motivi della decisione I. Il ricorso è articolato in due motivi. Con il primo motivo la ricorrente denuncia l'omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonché violazione e falsa applicazione degli articolo 2727 e 2729 c.c Evidenzia la ricorrente che le è stato contestato non già di aver commesso determinati fatti, ma di essere stata condannata alla pena di un anno e otto mesi di reclusione con sentenza cosiddetta di patteggiamento. Ma la sentenza di patteggiamento non ha efficacia nel giudizio civile e quindi era mancata la prova dei fatti addebitati. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione nonché violazione falsa applicazione degli arti. 2119, 1175, 1375 e 2697 c.c Il collegio ha omesso di considerare che nulla aveva dedotto il Ministero quanto al momento in cui aveva preso conoscenza della sentenza di patteggiamento del 1998 e non aveva spiegato perché aveva atteso fino al 6 novembre 2003 per chiedere notizie quanto alla irrevocabilità di tale pronuncia. 2. Il ricorso i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente è infondato. 3. Con riferimento alla sentenza di applicazione della pena a richiesta, questa Corte Cass., sez. lav., 30 luglio 2001, numero 10393 ha affermato che la l. 27 marzo 2001 numero 97 ha riconosciuto efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare alla sentenza penale irrevocabile di condanna ed ha parimenti riconosciuto efficacia di giudicato anche alla sentenza di patteggiamento, avendo modificato le norme articolo 653 e 445 c.p.p. che dettano in generale la disciplina degli effetti del giudicato penale nel giudizio disciplinare tale nuova regolamentazione quindi è legittimamente applicabile ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni. - Ciò vale anche allorché sia la contrattazione collettiva a far riferimento alla sentenza penale di condanna. Cfr. Cass., sez. lav., 26 marzo 2008, numero 7866, che ha affermato che, benché la sentenza pronunciata a norma dell'articolo 444 c.p.p., che disciplina l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell'ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che le parti contrattuali, nell'usare l'espressione «sentenza di condanna», si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. «di patteggiamento» ex articolo 444 c.p.p., atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena è altresì ben possibile che il licenziamento venga irrogato prima dell'irrevocabilità della sentenza di patteggiamento. Questa scelta del legislatore ha poi superato il vaglio di costituzionalità. Già Corte cost. numero 186 del 2004 ha osservato che «con le novità introdotte dalla l. numero 97 del 2001, sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare», si è rilevato che, in tal modo, il legislatore ha inteso assicurare «non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma, soprattutto, una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell'azione amministrativa». Successivamente poi Corte cost. numero 336 del 2009 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articolo 445, comma 1 bis, e 653, comma 1 bis, c.p.p., sollevata, in riferimento agli articolo 3, 2° comma, 24, 2° comma, e 111, 2° comma, Cost. nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all'articolo 444 stesso codice ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso. Più recentemente Cass. , sez. lav., 10 marzo 2010, numero 5806, ha affermata che in tema di effetti del giudicato penale nel giudizio per responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici, l'efficacia di giudicato delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti patteggiamento deve intendersi limitata all'accertamento dell'insussistenza, allo stato, delle cause di non punibilità ovvero di estinzione del reato di cui all'articolo 129 cod. proc. penumero cui è sottesa anche l'esistenza di elementi sufficienti a giustificare l'inizio dell'azione penale e non impedisce, nel giudizio civile per responsabilità disciplinare, un'istruttoria probatoria che vada al di là del limitato accertamento contenuto nella sentenza penale. Ne discende che legittimamente l'Amministrazione può promuovere il procedimento disciplinare contestando al dipendente, nel termine ex articolo 5, comma 4, della legge numero 97 del 2001, la condotta oggetto di imputazione nel giudizio penale conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta ed applicare la sanzione disciplinare disattendendo le controdeduzioni difensive del dipendente tuttavia, l'ambito dei giudicato penale non impedisce al dipendente di svolgere, nel giudizio civile vertente sulla responsabilità disciplinare, le difese tendenti all'accertamento di elementi di fatto che non contrastino con il giudicato penale. In conclusione la sentenza di applicazione di pena a richiesta dell'imputato, c.d. sentenza di patteggiamento, ha valenza indiziaria in ordine ai fatti addebitati, fermo restando la possibilità per il lavoratore di articolare mezzi di prova per contestare i gravi indizi di colpevolezza che sono a fondamento della c.d. sentenza di patteggiamento. La giurisprudenza successiva ha dato continuità a questi principi ribadendo la possibilità che la sentenza penale di patteggiamento sia posta a fondamento del licenziamento per giusta causa Cass., sez. lav., 30 gennaio 2013, numero 2168 18 febbraio 2011, numero 4060 . 4. Di tali principi la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione, come anche del principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall'intervallo di tempo necessario all'accertamento della condotta del lavoratore. Tale principio non può considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avviate le proprie indagini senza pervenire ad un sicuro accertamento di colpevolezza, abbia scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, e quindi contesti l'addebito solo quando a seguito delle scelte processuali del lavoratore nel procedimento penale, conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta dell'imputato, abbia acquisito piena consapevolezza della riferibilítà dei fatti al dipendente. Nella specie il Ministero ha avuto conoscenza ufficiale della sentenza solo con la nota della Procura Generale del 13.11.2003, mentre la precedente nota del 6.11.2003 di richiesta alla Procura, pur facendo riferimento nell'oggetto alla sentenza del 5.11.1998, non dimostrava la conoscenza del contenuto della sentenza e, anzi, confermava che il Ministero non era a conoscenza del suo carattere definitivo, e cioè dei suo passaggio in giudicato. Pertanto la contestazione del 12 gennaio 2004 era intervenuta solo due mesi dopo la conoscenza della definitività dell'accertamento penale e quindi non era tardiva. La Corte d'appello ha poi ben motivato quanto alla sussistenza della giusta causa del licenziamento, tenendo conto del comportamento della lavoratrice in sede penale ed integrandolo con la mancata specifica contestazione, da parte della stessa dipendente, degli addebiti in sede civile. 5. Il ricorso va quindi rigettato. Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in euro 100,00 cento per esborsi ed in euro 4.000,00 quattromila per compensi d'avvocato, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.