Per i giudici è logico parlare di risoluzione consensuale. Il lavoratore ha puntato prima al conseguimento del TFR, e solo successivamente ha fatto partire l’impugnativa del provvedimento aziendale.
Licenziamento impugnato a distanza di quattro anni. Reazione tardiva, quella del lavoratore, che, difatti, ora deve dire addio non solo al proprio vecchio impiego ma anche a ogni possibile ristoro economico Corte di Cassazione, sentenza numero 11153/17, sez. Lavoro, depositata oggi . Risoluzione. A risultare fatale al dipendente è il fatto di essere stato beccato a «svolgere attività lavorativa a favore di terzi in costanza di sospensione del rapporto» con la propria azienda per «infortunio sul lavoro». Consequenziale il licenziamento. Per i giudici però ci si trova di fronte a un caso di «risoluzione del rapporto per mutuo consenso», alla luce della scelta operata dal lavoratore, che ha in sostanza rinunciato alla «impugnativa giudiziale del licenziamento». Quest’ultimo dato viene tratto dalla condotta tenuta dal dipendente. Egli ha contestato il provvedimento aziendale, annotano i giudici, solo «a fronte dell’esito negativo dell’azione inizialmente avviata in via monitoria, esclusivamente volta al conseguimento del credito relativo a quanto spettante in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro». Rinuncia. La valutazione compiuta in appello viene ritenuta corretta dalla Cassazione, che respinge definitivamente la richiesta del lavoratore, finalizzata ad ottenere «la declaratoria di illegittimità del licenziamento». Per i magistrati del ‘Palazzaccio’ è evidente «la volontà» del dipendente di abdicare dal «proprio diritto al ripristino del rapporto» con l’azienda. Su questo fronte la lettura della sequenza delle «azioni giudiziarie» promosse dal lavoratore si rivela illuminante egli ha dapprima puntato sull’«azione monitoria volta al conseguimento del trattamento di fine rapporto», e solo «quattro anni dopo e avendo ottenuto una nuova occupazione» ha promosso l’«azione di impugnativa del licenziamento». In sostanza, «la volontà del dipendente era mirata», evidenziano i giudici, non al «ripristino del rapporto», bensì «al conseguimento di un risultato economico che gli consentisse di definire con soddisfazione personale la vicenda lavorativa ormai conclusa». E non a caso lo stesso lavoratore ha ammesso che «il ritardo nella promozione dell’azione di impugnativa del recesso era dovuto alla pendenza di trattative con il datore di lavoro destinate a chiudere i rapporti tra le parti». Non vi sono dubbi, quindi, concludono i magistrati, che vi sia stata una concreta «rinuncia» all’«azione finalizzata al ripristino del rapporto di lavoro».
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 25 gennaio – 8 maggio 2017, numero 11153 Presidente Napoletano – Relatore De Marinis Svolgimento del processo Con sentenza del 14 marzo 2014, la Corte d'Appello di Genova, confermava la decisione resa dal Tribunale di Massa e rigettava la domanda proposta da Gi. Anumero nei confronti della Myservice S.r.l. già Tristar S.r.l , avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla Società per aver egli svolto attività lavorativa a favore di terzi in costanza di sospensione del rapporto per l'infortunio sul lavoro occorsogli. La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto infondata l'eccezione di inammissibilità per genericità del gravame proposta dalla Società allora appellata, infondata l'eccezione di ultrapetizione allora proposta dall'odierno ricorrente a fronte della pronunzia del giudice di prime cure di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, rinunciata l'impugnativa giudiziale del licenziamento per aver il ricorrente promosso tale azione soltanto a fronte dell'esito negativo dell'azione inizialmente avviata in via monitoria, esclusivamente volta al conseguimento del credito relativo a quanto spettante in conseguenza della cessazione del rapporto medesimo. Per la cassazione di tale decisione ricorre l'Anumero , affidando l'impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la Società, che ha poi presentato memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare, in una con l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la violazione e falsa applicazione dell'articolo 18, L. numero 300/1970 e degli articolo 2729, 2934 e 2948 c.c., lamenta a carico della Corte territoriale l'erroneità del convincimento espresso in ordine alla configurabilità dell'iniziativa giudiziaria promossa per il conseguimento del TFR come espressiva di una volontà dismissiva dell'azione di impugnazione del licenziamento ed adesiva alla risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti. La medesima censura è nel secondo motivo, rubricato con riferimento alla violazione e falsa applicazione degli articolo 1372, 2946, 2948, 2113 c.c. e 6 L. numero 300/1970, predicata in relazione alla ritenuta rilevanza ai medesimi effetti risolutivi del rapporto del mero decorso del tempo. Si procede all'esame del ricorso autorizzati a definirlo con motivazione semplificata. I due motivi, che, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono ritenersi infondati. Riaffermata in principio, secondo l'insegnamento di questa Corte, l'ammissibilità, a prescindere dalla scadenza del termine prescrizionale, di un accertamento dell'eventuale volontà del lavoratore abdicativa del proprio diritto al ripristino del rapporto illegittimamente interrotto, si deve ritenere la congruità logica e giuridica di una valutazione quale quella operata dalla Corte territoriale in ordine al complessivo comportamento del ricorrente, che dalla rigorosa sequenza in cui risultano essere state promosse le azioni giudiziarie del ricorrente dapprima l'azione monitoria volta al conseguimento del TFR e solo ad esaurimento di quella, decorsi già quattro anni dal licenziamento e rinvenuta già altra occupazione, la relativa azione di impugnativa e dall'esito delle iniziative in quella sede assunte il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si era definito con il rigetto della domanda del ricorrente che non aveva dunque conseguito alcun risultato economico ragionevolmente approda al convincimento per cui la volontà del lavoratore era mirata, piuttosto che al ripristino del rapporto, al conseguimento, attraverso qualsiasi azione gli fosse consentita dall'ordinamento, di un risultato economico che gli consentisse di definire con personale soddisfazione la vicenda lavorativa ormai conclusa, convincimento che, del resto, trova supporto in atti vedi p. 13 del ricorso per cassazione , laddove è lo stesso ricorrente a dichiarare che il ritardo nella promozione dell'azione di impugnativa del recesso era dovuto alla pendenza di trattative con il datore di lavoro destinate a chiudere i rapporti tra le parti, a conferma della piena legittimità della decisione della Corte territoriale di ritenere rinunciata nel suo oggetto specifico, il ripristino del rapporto, l'azione promossa da ricorrente. Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater del D.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.