Con riferimento al periodo precedente la riforma Amato, i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare hanno natura previdenziale e non retributiva non sussistono, pertanto, i presupposti per l’inserimento dei suddetti versamenti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza numero 4684, depositata il 9 marzo 2015. Il caso. La pronuncia in commento trae origine dal giudizio promosso dai dipendenti di un istituto di credito, iscritti ad un fondo di previdenza aggiuntiva, per ottenere il pagamento di asserite differenze sulle spettanze di fine rapporto. A sostegno delle proprie domande, i ricorrenti hanno dedotto che l’istituto di credito, nel procedere alla quantificazione dell’indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto, non aveva incluso, nella relativa base di calcolo, le somme versate dal datore di lavoro al fondo integrativo, alle quali doveva essere riconosciuta natura retributiva fino alla data di entrata in vigore della riforma previdenziale realizzata dal d.lgs. numero 124/1993. All’esito del giudizio di merito, le domande dei ricorrenti sono state accolte, essendo stata affermata la natura retributiva dei versamenti datoriali. La Cassazione ricorda le vicende del sistema pensionistico. Come è noto, il sistema pensionistico è articolato in due grandi settori la previdenza obbligatoria e la previdenza complementare. Prima della riforma pensionistica realizzata negli anni 1992 e 1993 c.d. “riforma Amato” con l’emanazione di una legge delega legge numero 421/1992 e di una pluralità di decreti legislativi fra i quali il d.lgs. numero 124/1993 sulla previdenza complementare, quest’ultima aveva la propria fonte nell’articolo 2117 cod. civ., che prevedeva la costituzione di fondi speciali per l’assistenza e la previdenza, alimentati dalla contribuzione sia del datore di lavoro che dei lavoratori. I fondi di previdenza complementare preesistenti alla data di entrata in vigore della riforma Amato 15 novembre 1992 erano generalmente basati sul sistema “a ripartizione” nel quale i contributi dei lavoratori attivi venivano utilizzati per pagare le prestazioni ai lavoratori in quiescenza, senza una corrispondenza fra contribuzione e prestazione, atteso che la prima non incideva sulla misura delle future prestazioni, ma serviva a finanziare le prestazioni in corso. Gli stessi fondi erano normalmente caratterizzati dal regime “a prestazione definita”, nel quale la misura della prestazione è determinata in funzione di particolari parametri e non è strettamente connessa all’ammontare dei contributi versati. La disciplina introdotta con la riforma Amato è, invece, ispirata al sistema della “capitalizzazione individuale”, caratterizzato dall’accumulo dei versamenti in un conto individuale nominativo, e al regime della “contribuzione definita”, nella quale cioè la contribuzione determina la misura della futura prestazione. In base alla nuova disciplina non si prevede più la costituzione di un unico fondo alimentato dai contributi di tutti i lavoratori, ma l’accumulo dei versamenti in conti individuali nominativi, con conseguente commisurazione della futura prestazione pensionistica all’entità della contribuzione versata da ciascun lavoratore, integrata dai frutti maturati per effetto degli investimenti operati dal fondo. Natura retributiva dei versamenti datoriali la Cassazione è divisa. La giurisprudenza, anche di legittimità, si è divisa nell’interpretazione di questa disciplina, arrivando a sostenere tesi opposte sulla natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare e, quindi, sulla loro computabilità ai fini delle spettanze di fine rapporto. Secondo un orientamento Cass., numero 545/2011 , fino alla data di entrata in vigore della riforma della previdenza complementare d.lgs. numero 124/1993 , i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali individuali o collettivi previsti dalla contrattazione collettiva, avevano natura di debiti di lavoro, esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa, con la conseguenza che i relativi versamenti effettuati dal datore di lavoro dovevano considerarsi rilevanti ai fini del computo dell’indennità di anzianità e del TFR. Secondo l’orientamento opposto Cass., numero 9016/2012 e numero 8695/2012 , anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non potevano essere considerati di natura retributiva, per la ragione essenziale che gli stessi non venivano corrisposti ai dipendenti ma venivano erogati direttamente al fondo. Le somme versate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza integrativa e complementare, pertanto, non possono computarsi né nell’indennità di anzianità, né nel TFR, non sussistendo alcuna distinzione fra il periodo precedente e il periodo successivo alla più volte citata riforma della previdenza complementare. Quest’ultimo orientamento è stato condiviso dalle Sezioni Unite con la pronuncia in commento. Le Sezioni Unite risolvono il contrasto giurisprudenziale. Una verifica della natura retributiva o meno del contributo in esame deve logicamente partire dal concetto di retribuzione quale delineato dal legislatore, in particolare, in sede di disciplina dell’indennità di anzianità e del TFR. La nozione di retribuzione che emerge dalla normativa citata è caratterizzata da un requisito indefettibile, costituito dall’esistenza di un effettivo passaggio di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore e dall’esigenza che le somme erogate si trovino in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa solo la presenza di tali presupposti, che caratterizzano le erogazioni che costituiscono la base di calcolo delle suddette indennità, autorizza il loro inquadramento sistematico nell’ambito della c.d. retribuzione differita. Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati all’immediato vantaggio del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, vengono accantonati e quindi mai direttamente corrisposti per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste dal relativo statuto. La contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo. Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l’obbligo del versamento del contributo a carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore, bensì nei confronti del fondo, che è poi onerato dell’erogazione della relativa prestazione. La mancanza di un nesso di corrispettività diretta fra contribuzione e prestazione lavorativa e, quindi, la sostanziale autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare, trovano una conferma decisiva nel rilievo che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa – il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto – il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro. Ne discende che, con riferimento al periodo precedente la riforma Amato, avendo i versamenti datoriali natura previdenziale e non retributiva, tali versamenti non possono essere inseriti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro. Le domande dei ricorrenti in primo grado non possono, pertanto, essere accolte.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 16 dicembre 2014 – 9 marzo 2015, numero 4684 Presidente Roselli – Relatore Di Cerbo Svolgimento del processo 1. Con ricorso al Tribunale di Rieti, in funzione di giudice del lavoro, A.P. , F.M. , Fe.Anumero Te. , S.M. , Sp.Pa. , P.A. e T.F. , tutti ex dipendenti della Cassa di Risparmio di Rieti, hanno chiesto la condanna di quest'ultima al pagamento di somme -analiticamente indicate nell'atto introduttivo - pretese a titolo di differenze sulle spettanze di fine rapporto. A sostegno della domanda hanno dedotto che l'istituto di credito, nel procedere alla quantificazione dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto di seguito TFR loro dovuti, non aveva incluso, nella relativa base di calcolo, le somme versate fino al 28 aprile 1993 dal datore di lavoro al Fondo di integrazione delle pensioni INPS istituito dalla stessa banca Fondo FIP , alle quali doveva essere riconosciuta natura retributiva fino alla data sopra indicata, coincidente con l'entrata entrata in vigore del d.lgs. numero 124 del 1993. 2. Il Tribunale ha accolto la domanda, sulla scorta dell'affermata natura retributiva dei versamenti datoriali. 3. La sentenza è stata confermata in grado di appello. La Corte territoriale ha, in particolare, sottolineato che la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, aveva ripetutamente affermato che ai trattamenti pensionistici integrativi doveva essere riconosciuta natura di retribuzione differita, sebbene, in relazione alla loro funzione previdenziale che spiegava la sottrazione alla contribuzione previdenziale dei relativi accantonamenti disposta dall'articolo 12 legge numero 153 del 1969, come autenticamente interpretato dall'articolo 9-bis d.l. numero 103 del 1991, aggiunto dalla legge di conversione numero 166 del 1991 , essi dovessero essere ascritti alla categoria delle erogazioni solo in senso lato corrispettive rispetto alla prestazione lavorativa, perché pur sempre dipendenti dalla durata del servizio e dalla misura della retribuzione ricevuta. Il giudice d'appello, dunque, ne ricavava la conseguenza che anche ai contributi datoriali dovesse essere riconosciuta similare natura, confrontandosi anche con la sentenza numero 421 del 1995 con la quale la Corte Costituzionale aveva affermato che, successivamente alla legge delega numero 421 del 1991, le contribuzioni datoriali ai fondi di previdenza integrativa aziendale non potevano più definirsi emolumenti retributivi con funzione previdenziale , trattandosi di contributi previdenziali, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile di cui all'articolo 12 della legge numero 153 del 1969, potendo e dovendo gli stessi essere assoggettati ad un contributo di solidarietà alla previdenza pubblica non definibile in termini di contributo previdenziale in senso tecnico . Ad avviso della Corte territoriale, tuttavia, la Consulta aveva evidenziato che il dato strutturale della inerenza al rapporto di lavoro, continuava a sorreggere la perdurante possibilità di qualificazione in termini retributivi di qualsiasi emolumento concorrente a formare la retribuzione in senso lato del lavoratore, a prescindere dall'eventuale funzione previdenziale assolta. Andava, inoltre, sottolineato che lo stesso articolo 4 della legge numero 297 del 1982, facendo salve le indennità aventi natura e funzioni diverse da quelle di fine rapporto comunque denominate, consentiva al datore di lavoro di corrispondere, alla cessazione del rapporto, erogazioni aggiuntive, a titolo diverso e distinto da quello del TFR. Nessuna prova era stata fornita, infine, dalla banca appellante circa l'esercizio della facoltà - peraltro riconosciuta alle parti sociali dall'articolo 2120 cod. civ. solo nella formulazione successiva alla legge numero 297 del 1982 - di introdurre deroghe al principio di onnicomprensività della retribuzione ai fini della determinazione della TFR, escludendo, in particolare, il contributo datoriale in esame ed infatti la banca aveva prodotto solo uno stralcio del CCNL 11 luglio 1999 per i quadri direttivi, che non poteva avere applicazione diretta nei confronti degli appellati, che non erano inquadrati tra i funzionari o dirigenti di banca, e neppure efficacia retroattiva né tale efficacia retroattiva poteva essere attribuita alla dichiarazione resa dalle parti sociali in data 12 febbraio 2005, secondo cui esse non avevano mai voluto computare nel TFR i versamenti effettuati dal datore di lavoro in favore del fondo pensioni. 4. Avverso tale sentenza la Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione prospettando due articolati motivi, illustrati da memoria, sulla base dei quali ha chiesto la cassazione dell'impugnato provvedimento. 5. A.P. , F.M. , Fe.Anumero Te. , S.M. , Sp.Pa. e T.F. , hanno resistito con controricorso, con il quale hanno preliminarmente rappresentato l'intervenuto decesso di P.A. . 6. All'esito della camera di consiglio del 4 marzo 2014, la Sezione Lavoro ha pronunciato ordinanza interlocutoria Cass. 21 marzo 2014 numero 6766 , con la quale ha rilevato che sulla questione oggetto di causa si registra un contrasto di orientamenti in seno alla Suprema Corte, concernente la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare e, quindi, la loro computabilità ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità , contrasto circoscritto al periodo di lavoro precedente la riforma della previdenza integrativa, operata con d.lgs. numero 124 del 1993. 7. Il suddetto contrasto è evidenziato, in particolare, dalla diversa soluzione adottata rispettivamente da Cass. 12 gennaio 2011 numero 545 e da Cass. 5 giugno 2012 numero 9016 e Cass. 5 giugno 2012 numero 8695, le quali hanno peraltro concordemente rilevato che, dopo la riforma della previdenza complementare, tali versamenti non sono più computabili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto. 8. In relazione al suddetto contrasto, il Collegio, a norma dell'articolo 374, comma 2, cod. proc. civ., ha ritenuto necessario rimettere la causa al Primo Presidente che ha provveduto ad assegnarla alle Sezioni Unite. 9. Le parti hanno depositato memorie e, all'udienza dinanzi alle Sezioni Unite, hanno discusso la causa. Motivi della decisione 10. Preliminarmente deve rilevarsi che nessuna conseguenza processuale può derivare, nel presente giudizio, dalla morte dell'intimato P.A. , denunciata nel controricorso depositato dagli altri ex dipendenti della Cassa di Risparmio di Rieti, ricorrenti in primo grado. È stato infatti precisato dalla giurisprudenza di legittimità cfr., in particolare, Cass. 23 gennaio 2006 numero 1257 che nel giudizio di cassazione, dominato dall'impulso d'ufficio, non trova applicazione l'istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli articolo 299 e segg. cod. proc. civ., onde, una volta instaurato il contraddittorio con la notifica del ricorso come nel caso in esame , la morte dell'intimato non produce l'interruzione del processo neppure nel caso in cui sia intervenuta prima della notifica del ricorso presso il difensore costituito nel giudizio di merito ove dalla relativa relata non emerga il decesso del patrocinato. 11. Con il primo motivo la ricorrente Cassa di Risparmio denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2120 nuovo e vecchio testo , 2121 vecchio testo e 2123 cod. civ., dell'articolo 4, comma 5, legge numero 297 del 1982, dell'articolo 12, legge numero 153 del 1969, dell'articolo 9-bis, comma 1, legge numero 166 del 1991, dell'articolo 1, comma 194, legge numero 662 del 1996 e dell'articolo 8 d.lgs. numero 124 del 1993 articolo 360, numero 3, cod. proc. civ. , nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa alcuni punti decisivi della controversia articolo 360, numero 5, cod. proc. civ. . Con tale motivo la società ricorrente sostiene con articolate argomentazioni la tesi secondo cui le somme dalla stessa accantonate per la previdenza complementare fino al 28 aprile 1993 hanno natura e funzione previdenziale con conseguente esclusione delle stesse dal computo dell'indennità di anzianità maturata fino al 31 maggio 1982 e del trattamento di fine rapporto maturato successivamente . 12. Con il secondo motivo la Cassa ricorrente, denunciando violazione dell'articolo 1362 cod. civ. in relazione all'articolo 74 c.c.numero l. 11 luglio 2009 e al verbale di accordo 12 febbraio 2005 nonché vizio di motivazione, contesta l'affermazione della Corte territoriale circa l'irrilevanza - a fini interpretativi dell'originaria intenzione delle parti - della successiva contrattazione collettiva, con la quale le parti sociali avevano espressamente escluso la computabilità dei contributi datoriali alla previdenza integrativa ai fini del calcolo delle somme ex articolo 2120 cod. civ 13. I controricorrenti sostengono la correttezza della ricostruzione degli istituti giuridici rilevanti operata dalla Corte territoriale e chiedono il rigetto del ricorso. 14. La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite può essere così definita se, per il periodo precedente la riforma introdotta dal d.lgs. 21 aprile 1993 numero 124, le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare -chiunque sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti - abbiano natura e funzione retributiva oppure previdenziale e, quindi, si computino, o meno, nell'indennità di anzianità maturata fino al 31 maggio 1982 e nei trattamento di fine rapporto maturato successivamente . 15. Prima di esaminare i termini del contrasto di giurisprudenza appare opportuno ricostruire il quadro normativo che governa gli istituti coinvolti. 16.Come è noto, il sistema pensionistico è articolato in due grandi settori la previdenza obbligatoria e la previdenza complementare. Prima della riforma pensionistica realizzata negli anni 1992 e 1993 con l'emanazione di una legge delega legge numero 421 del 1992 e di una pluralità di decreti legislativi fra i quali il d.lgs. numero 124 del 1993 che disciplinò la previdenza complementare, quest'ultima aveva la propria fonte nell'articolo 2117 cod. civ. che prevedeva la costituzione di fondi speciali per l'assistenza e la previdenza, alimentati dalla contribuzione sia del datore di lavoro che dei lavoratori. Come è stato in precedenza chiarito, il contrasto di giurisprudenza riguarda la natura dei versamenti effettuati dal datore di lavoro alla previdenza complementare e, quindi, la loro computabilità ai fini del trattamento di fine rapporto e della indennità di anzianità , con esclusivo riferimento al periodo precedente la riforma della previdenza integrativa, operata con il citato d.lgs. numero 124 del 1993. 17. La differenza tra previdenza obbligatoria ex lege e quella integrativa o complementare ex contractu è nel carattere generale, necessario e non eludibile delle tutele del primo tipo, a fronte della natura eventuale delle garanzie del secondo, che sono la fonte di prestazioni aggiuntive rivolte a vantaggio esclusivo delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari e in relazione alla quale non opera il principio dell'automatismo delle prestazioni . La natura privatistica della previdenza integrativa o complementare finalizzata a garantire ai futuri pensionati un reddito ulteriore rispetto a quello garantito dalla previdenza obbligatoria emerge dal meccanismo di adesione, che è libero e volontario, e dalle modalità di alimentazione del fondo, al quale contribuiscono i destinatari della prestazione ed il datore di lavoro. 18. I fondi di previdenza complementare preesistenti al 15 novembre 1992, data di entrata in vigore della citata legge delega numero 421 del 1992 c.d. Riforma Amato , attuata con il d.lgs. numero 124 del 1993, erano generalmente basati sul sistema a ripartizione caratterizzata da un meccanismo di bilancio in cui i contributi dei lavoratori attivi venivano utilizzati per pagare le prestazioni ai lavoratori in quiescenza in sostanza, la contribuzione raccolta fra i lavoratori attivi veniva ripartita fra gli aventi diritto sotto forma di prestazioni previdenziali, mancando quindi la corrispondenza fra contribuzione e prestazione, atteso che la prima non incideva sulla misura delle future prestazioni, ma serviva a finanziare le prestazioni in corso. Gli stessi fondi erano normalmente caratterizzati dal regime a prestazione definita nel quale la misura della prestazione è determinata in funzione di particolari parametri, e non strettamente connessa all'ammontare dei contributi versati, con la conseguenza che in tali fondi prevale la funzione solidaristica sulla corrispettività individuale. Nei sistemi a capitalizzazione, invece i contributi del lavoratore, accantonati e investiti, vengono successivamente utilizzati per pagare la rendita dello stesso lavoratore al momento del suo pensionamento. In questo caso l'ammontare del beneficio è condizionato dal rendimento degli investimenti. 19. La disciplina introdotta con la riforma Amato è invece ispirata al sistema della capitalizzazione individuale, caratterizzato dall'accumulo dei versamenti in un conto individuale nominativo, e al regime della contribuzione definita, nella quale cioè la contribuzione determina la misura della futura prestazione. In base alla nuova disciplina non si prevede più la costituzione di un unico fondo alimentato dai contributi di tutti i lavoratori, ma l'accumulo dei versamenti in conti individuali nominativi, con conseguente commisurazione della futura prestazione pensionistica all'entità della contribuzione versata da ciascun lavoratore integrata dai frutti maturati per effetto degli investimenti del capitale operati dal fondo. 20. Il contrasto di giurisprudenza è evidenziato dalle diverse soluzioni adottate, da un lato, in particolare, da Cass. 12 gennaio 2011 numero 545 e, dall'altro, da Cass. 5 giugno 2012 numero 9016 e Cass. 5 giugno 2012 numero 8695 cui adde, in particolare, Cass. 31 maggio 2012 numero 8695 Cass. 4 aprile 2013 n, 8228 . 21. Secondo la prima delle suddette decisioni, fino alla data di entrata in vigore della riforma della previdenza complementare d.lgs. numero 124 del 1993 , i trattamenti pensionistici integrativi, erogati a seguito della costituzione di fondi speciali individuali o collettivi previsti dalla contrattazione collettiva, avevano natura di debiti di lavoro, esigibili dopo la cessazione del rapporto di lavoro, essendo in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa, con la conseguenza che i relativi versamenti effettuati dal datore di lavoro dovevano considerarsi rilevanti ai fini del computo del trattamento di fine rapporto e dell'indennità di anzianità. Tale decisione si richiama espressamente ai principi affermati da Cass. S.U. 1 febbraio 1997 numero 974, che fa riferimento ad una nozione ampia di retribuzione che consentirebbe di distinguere fra le erogazioni corrispettive in senso stretto, e quelle con funzione previdenziale o assistenziale. Nozione di retribuzione che, come si legge nella sentenza da ultimo citata, supera l'ambito della corrispettività tra prestazione di lavoro e retribuzione e, conseguentemente, il principio dell'adeguatezza della retribuzione alla quantità e qualità della prestazione, per affermare un principio di corrispettività in senso ampio nel quale la retribuzione è rivolta a soddisfare determinate esigenze di vita del lavoratore. 22. L'opposto orientamento, espresso, in particolare, dalle sentenze prima citate, ritiene invece che, anche prima della riforma della previdenza complementare del 1993, i versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza non potevano essere considerati di natura retribuiva, per la ragione essenziale che gli stessi non venivano corrisposti ai dipendenti ma venivano erogati direttamente al fondo. La natura non retributiva di tali versamenti, secondo tale orientamento, era poi avvalorata dal loro regime contributivo-previdenziale, atteso che, a seguito della legge numero 166 del 1991, essi erano stati esclusi dalla soggezione alla contribuzione ordinaria e assoggettati solo a un contributo di solidarietà, nella misura del 10%, in favore delle gestioni pensionistiche di legge alle quali erano iscritti i lavoratori. In sostanza la mancata soggezione di tali versamenti all'ordinario obbligo contributivo attesterebbe la natura non retributiva degli stessi. Essenzialmente sulla base di tali argomenti quest'ultimo orientamento è pervenuto alla conclusione per cui le somme versate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza integrativa e complementare non si computano né nell'indennità di anzianità maturata fino al 31 maggio 1982 , né nel TFR, non operando quindi alcuna distinzione fra il periodo precedente e il periodo successivo alla più volte citata riforma della previdenza complementare. 23. Ritengono queste Sezioni Unite che quest'ultimo orientamento debba essere condiviso, anche alla luce dell'evoluzione legislativa intervenuta medio tempore, e degli interventi della Corte costituzionale di cui si darà successivamente conto. 24.Come correttamente ritenuto dalla citata Cass. 5 giugno 2012 numero 9016 e dalle sentenze in precedenza citate , una verifica della natura retributiva, o meno, del contributo in esame deve logicamente partire, tenuto conto della natura del beneficio al quale esso è finalizzato, dal concetto di retribuzione quale delineato dal legislatore, in particolare, in sede di disciplina dell'indennità di anzianità e di trattamento di fine rapporto TFR . Per quanto riguarda l'indennità di anzianità, dal combinato disposto degli articolo 2120, nella sua originaria formulazione, e 2121 cod. civ. si evince che la retribuzione in base alla quale l'indennità di anzianità deve essere determinata comprende le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti, ed ogni altro compenso di carattere continuativo con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese . Per quanto concerne il TFR, l'articolo 2120 cod. civ., come sostituito dall'articolo 1 della legge numero 297 del 1982, dopo aver stabilito primo comma che tale trattamento si calcola prendendo a base la retribuzione annua, stabilisce secondo comma che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, la retribuzione annua prevista dal comma precedente comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese . La nozione di retribuzione che emerge dalla normativa citata è caratterizzata quindi da un requisito indefettibile, costituito dall'esistenza di un effettivo passaggio di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore, e dalla esigenza che le somme erogate si trovino in nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa solo la presenza di tali presupposti, che caratterizzano le erogazioni che costituiscono la base di calcolo delle suddette indennità, autorizza il loro inquadramento sistematico nell'ambito della c.d. retribuzione differita. 25. In definitiva emerge chiaramente dall'esame delle norme sopra richiamate che l'indennità di anzianità e il TFR devono costituire il riflesso del trattamento economico corrisposto durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, avendo la funzione di essere d'ausilio al lavoratore nel periodo in cui, cessato il suddetto rapporto, viene meno il diritto alla retribuzione che prima veniva percepita, sicché sarebbe incongrua la inclusione, nella base di calcolo degli stessi, di somme di cui durante lo svolgimento non si è mai goduto. 26. Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati all'immediato vantaggio del lavoratore, ma, proprio in coerenza con la loro funzione, vengono accantonati e quindi mai direttamente corrisposti per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste dal relativo statuto. L'obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, pensione integrativa che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire. 27. Decisivo a questo proposito appare il rilievo che la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un'aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo. Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l'obbligo del versamento del contributo a carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore bensì nei confronti del fondo che è poi onerato della erogazione della relativa prestazione. Va in proposito osservato che, ove si accedesse alla tesi secondo cui ogni onere economico posto a carico del datore di lavoro avesse natura retribuiva, si arriverebbe al risultato che la previdenza complementare sarebbe a carico esclusivo dei lavoratori, risultato non solo paradossale, ma contra legem , atteso che la natura solidaristica della previdenza complementare è desumibile non solo da norme primarie cfr., in particolare, l'articolo 2117 cod. civ. , ma anche dall'articolo 38 Cost 28. La mancanza di un nesso di corrispettività diretta fra contribuzione e prestazione lavorativa, e quindi, in buona sostanza, la sostanziale autonomia tra rapporto di lavoro e previdenza complementare, trovano una conferma decisiva nel rilievo che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa - il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto - il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro. Inoltre l'obbligazione che il datore di lavoro assume con il sistema di previdenza integrativa nei confronti del fondo non è monetizzabile a favore del lavoratore come accade invece per alcuni benefit, come ad esempio il servizio mensa o il servizio trasporto che il datore di lavoro può scegliere di organizzare direttamente o garantire con il rimborso del relativo costo a mani del dipendente. 29. Ulteriore conferma, sotto il profilo sistematico, della natura previdenziale del trattamento integrativo può inoltre rinvenirsi nella circostanza che tale trattamento non ha subito gli effetti della citata legge numero 297 del 1982 in tema di trattamento di fine rapporto, considerato che, ai sensi dell'articolo 4 di tale legge, te forme di previdenza privata aggiuntive restano salve se hanno natura diversa da quella delle indennità di fine lavoro ed infatti, se le prestazioni integrative avessero avuto natura retributiva sarebbero state caducate in virtù della norma citata. 30. La suddetta conclusione circa l'assenza di carattere retributivo relativamente ai versamenti effettuati dal datore di lavoro nell'ambito della previdenza integrativa è coerente con il regime previdenziale al quale gli stessi sono sottoposti, regime la cui evoluzione, completatasi successivamente alla citata pronuncia della Sezioni Unite numero 974 del 1997, può essere sintetizzata nei termini che seguono l'articolo 9 bis del decreto-legge numero 103 del 1991, aggiunto dalla legge di conversione numero 166 del 1991, con norma dichiaratamente di interpretazione autentica aveva stabilito che l'articolo 12 della legge numero 153 del 1969 che fissava la nozione di retribuzione imponibile ai fini previdenziali doveva essere interpretato nel senso che dovevano essere escluse dalla base imponibile dei contributi di previdenza e assistenza sociale le contribuzioni e le somme versate o accantonate per il finanziamento di trattamenti integrativi previdenziali o assistenziali la norma prevedeva altresì che restavano salvi t contributi versati anteriormente all'entrata in vigore della legge infine, con riferimento al primo periodo di paga successivo all'entrata in vigore della nuova normativa, era previsto che, per le contribuzioni o le somme destinate al finanziamento dei trattamenti integrativi, era dovuto, ad esclusivo carico dei datori di lavoro, un contributo di solidarietà del 10% in favore delle gestioni pensionistiche di legge alle quali sono iscritti i lavoratori. La Corte costituzionale C. cost. numero 421 del 1995 , chiamata a intervenire sulla suddetta normativa nella parte in cui esclude il diritto alla ripetizione dei versamenti contributivi effettuati in epoca anteriore alla data di entrata in vigore della legge 16 giugno 1991 sulle somme versate o accantonate dai datori di lavoro a favore di gestioni eroganti prestazioni previdenziali e assistenziali integrative, ha affermato che la norma non era di interpretazione autentica bensì innovativa con efficacia retroattiva ed ha rilevato che non era la retroattività a determinare l'illegittimità della norma quanto piuttosto l'avere essa stabilito per gli inadempienti l'esonero totale dal versamento dei contributi senza alcuna contropartita, in contrasto con il principio di razionalità-equità fissato dall'articolo 3 Cost. coordinato con il principio di solidarietà di cui all'articolo 2 Cost. che a sua volta costituisce parametro per l'interpretazione dell'articolo 38, comma 2, Cost. Con tale pronuncia, integrata da C. cost. numero 178 del 2000 la Corte ha affermato, in sostanza, che per rendere la normativa esaminata conforme ai principi costituzionali, sarebbe stata necessaria l'istituzione, anche per il passato, di una contropartita analoga al contributo di solidarietà, idonea a dare ragione dell'esonero dalla contribuzione in favore della previdenza obbligatoria. In conclusione la Corte Costituzionale ha affermato che il legislatore ha inserito la previdenza integrativa nel sistema dell'articolo 38 Cost., per cui le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi emolumenti retributivi con funzione previdenziale , ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale. Le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con le citate decisioni sono state pienamente recepite dal legislatore con l'articolo 1, commi 193 e 194, della legge numero 662 del 1996, che ha nuovamente disciplinato la materia riproducendo, al comma 193, l'articolo 9 bis, comma 1, del decreto-legge numero 103 del 1991, prima citato, privandolo della definizione di interpretazione autentica con il comma 194 è stato istituito, anche per il passato, il richiesto contributo di solidarietà. Deve sottolinearsi che, in considerazione del carattere retroattivo dell'esonero dalla contribuzione AGO dei versamenti ai fondi di previdenza complementare, carattere retroattivo ritenuto costituzionalmente legittimo dalle citate decisioni della Corte costituzionale, i predetti versamenti hanno sempre avuto, fin dall'inizio della istituzione di detti fondi, natura previdenziale e non retributiva, onde è infondata la pretesa al loro inserimento nelle indennità collegate alla cessazione de rapporto di lavoro. Appare evidente da quanto sopra che, in ottemperanza a quanto stabilito dalla Corte costituzionale con le sentenze prima citate, il legislatore ha inserito retroattivamente e quindi anche per il periodo precedente l'entrata in vigore del d.lgs. numero 124 del 1993 la previdenza integrativa nel sistema dell'articolo 38 Cost., confermando il principio espresso dal giudice delle leggi secondo cui il contributo dei datori di lavoro al finanziamento dei fondi integrativi non può definirsi emolumento retributivo con funzione previdenziale ma costituisce una contribuzione di natura strutturalmente previdenziale. 31. Va ancora considerato che i versamenti effettuati dal datore alle forme pensionistiche complementari non concorrono neppure a formare il reddito da lavoro dipendente, ai sensi del d.lgs. numero 314 del 1997, articolo 3, comma 2, lett. a , per cui sarebbe, anche sotto questo profilo, del tutto incoerente, dal punto di vista sistematico, riconoscere natura retributiva, tale quindi da determinarne la inclusione nel computo delle indennità spettanti alla fine del rapporto, a somme mai erogate durante lo svolgimento dell'attività lavorativa, sulle quali non si versa la contribuzione previdenziale obbligatoria, e che non entrano neppure tra i redditi da lavoro dipendente ai fini fiscali. 32. L'ancoraggio sistematico delle motivazioni poste alla base delle suddette conclusioni circa la natura previdenziale della contribuzione datoriale, rende le suddette conclusioni valide a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione, per cui le stesse sono applicabili sia al caso in cui il fondo abbia una personalità giuridica autonoma, sia all'ipotesi in cui il soggetto destinatario della contribuzione sia costituito da una gestione separata nell'ambito dello stesso soggetto datore di lavoro. 33. Da ultimo deve rilevarsi che, se è vero che in alcune decisioni la Corte di Giustizia ha affermato che le prestazioni erogate dai regimi di previdenza complementare privata rientrano nella nozione di retribuzione dettata dall'articolo 141 del Trattato CE articolo 157 TFUE , costituendo anche esse vantaggi pagati direttamente o indirettamente . dal datore di lavoro al lavoratore in ragione del rapporto di lavoro cfr. sent. 17 aprile 1997, causa 147/95 sent. 28 settembre 1994, causa 128/93 è anche vero che, a tutto voler concedere, ciò non implica, per le ragioni di carattere sistematico in precedenza evidenziate, l'inserimento delle quote corrisposte dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare prima dell'entrata entrata in vigore del d.lgs. numero 124 del 1993 nella base di calcolo dell'indennità di anzianità e del TFR. 34. All'esito delle suddette considerazioni può pertanto enunciarsi il seguente principio di diritto con riferimento al periodo precedente la riforma introdotta dal d.lgs. 21 aprile 1993 numero 124, i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare hanno - a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione e, pertanto, sia nel caso in cui il fondo abbia una personalità giuridica autonoma, sia in quello in cui esso consista in una gestione separata nell'ambito dello stesso soggetto datore di lavoro - natura previdenziale e non retributiva e non sussistono pertanto i presupposti per l'inserimento dei suddetti versamenti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro. 35. Con riferimento al caso di specie è pacifico che i ricorrenti in primo grado avevano aderito al Fondo Previdenza Integrativo FIP per i dipendenti della Cassa di Risparmio di Rieti istituito e regolato da accordi sindacali. All'alimentazione di tale Fondo provvedevano, mediante il versamento periodico di contributi, sia i singoli lavoratori sia la Banca, ciascuno nella misura stabilita dal regolamento del Fondo. Si trattava di un Fondo chiuso , riservato cioè ai soli dipendenti, a prestazione definita , tale cioè da assicurare ai beneficiari una prestazione prestabilita, indipendentemente dai risultati della gestione finanziaria dello stesso e a capitalizzazione collettiva , per cui non poteva ravvisarsi alcun collegamento diretto fra i contributi versati - nell'interesse collettivo e mutualistico di tutti i dipendenti iscritti - ed il singolo lavoratore. La disciplina del Fondo prevedeva altresì che, nel caso di risoluzione del rapporto senza il raggiungimento delle condizioni previste per la maturazione del diritto alla pensione integrativa, al lavoratore veniva restituito l'ammontare dei contributi dallo stesso versati, e quindi a suo carico, ma non quello concernente i contributi a carico del datore di lavoro. 36. Dall'applicazione al caso di specie del principio di diritto sopra enunciato deriva che il ricorso deve essere accolto e che, conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere cassata. Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto ricorrono i presupposti per decidere la causa nel merito, ai sensi dell'articolo 384, secondo comma, cod. proc. civ., e rigettare quindi la domanda dei ricorrenti in primo grado. 37. Considerato il contrasto di giurisprudenza verificatosi sulla materia del contendere si reputa si reputa conforme a giustizia compensare fra le parti le spese dell'intero giudizio. P.Q.M. La Corte a Sezioni Unite accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa fra le parti le spese dell'intero giudizio.