La provocazione sottile e sibillina non salva l’ingiuriante

Per la Cassazione la genericità e l’ambiguità della provocazione esclude la liceità e l’attenuabilità della condotta di ingiuria.

Il caso. Un imputato ricorre avverso la sentenza di merito che lo aveva condannato per aver ingiuriato un legale durante l’esperimento di prova legale stragiudiziale. Fra gli altri motivi di ricorso, l’imputato sosteneva l’univocità della provocazione asseritamente allusiva subita, che avrebbe determinato la sua scomposta reazione e di seguito il venir meno della volontà diretta a ledere l’altrui reputazione. La Cassazione, Quinta sezione Penale, numero 6471/2012, depositata il 17 febbraio, rigetta tutti i motivi del ricorso e nella parte motiva il grado di fondatezza e di univocità che deve possedere una condotta provocatoria per poter incidere sulla valutazione della reità della reazione dell’ingiuriante. Legittima difesa la provocazione e l’ingiustizia dell’offesa. La Cassazione non giudica ingiusta l’osservazione, forse allusiva, della persona offesa all’imputato sui pregressi rapporti familiari fra gli avi. Non ci è dato riconoscere – tacendo la motivazione sul punto - le reali intenzioni dell’avvocato, eventualmente rivolte a toccare un nervo scoperto in modo velato ed indiretto usufruendo di una varietà linguistica e sintattica tale da rendere ipotetica ed equivoca ogni volontà denigratoria. Eventualmente ferito dalla provocazione, l’imputato ha colpito la considerazione della persona offesa nel consesso professionale in cui si è realizzata la condotta lesiva. L’occasione è utile per comprendere la valenza che le ipotetiche istigazioni alle altrui reazioni hanno nella commissione di reati previsti a tutela dell’altrui onorabilità. La Cassazione in commento ha definito priva di qualsivoglia valore esimente o quanto meno attenuante la provocazione della persona offesa, nel caso consistita nel rimestare una vecchia ruggine familiare. L’ingiustizia dell’offesa – requisito costitutivo della legittima difesa ex articolo 52 c.p. – è tale quando lede una norma giuridica o un interesse tutelato posto a presidio del reagente, appartenenti sia al novero delle previsioni penali che a quelle civili, ad esempio, com’è prassi più diffusa, relative agli stati familiari oppure alle regolarità e al buon affidamento nelle transazioni commerciali. Quella norma individuata deve essere univocamente violata e quell’interesse tutelato deve essere colpito da un condotta provocatoria chiaramente idonea a palesare una volontà lesiva. Nel caso in esame, invece, l’opaco riferimento del presunto provocante ai pregressi rapporti familiari non consentiva di tracciare le linee rette di una offesa circostanziata e, per la mancanza di una neppure oscura riferibilità personale, l’istruzione non ha permesso di dedurre in alcun modo l’intento infamante ed offensivo. Sul grado allusivo della provocazione, desumibile anche dai contesti espressivi del fatto ma irricavabili nelle dichiarazioni testimoniali e fra le righe dei verbali stenotipati dei processi penali, la Cassazione non prende posizione né offre alcun conforto al fine di ricostruire fedelmente e con limpidezza la cornice dell’episodio delittuoso. La scriminante putativa una provocazione solo supposta? Forse l’istruzione processuale nei gradi di merito avrebbe potuto consentire di meglio valutare il fatto profferito dal legale e contenuto nella provocazione, se non altro perché la reazione dell’ingiuriante era tesa a difendere indirettamente la memoria di un suo avo piuttosto che la reputazione dello stesso dichiarante. L’assenza di un interesse strettamente individuale avrebbe potuto motivare l’indagine sulla pregnanza psicologica della reazione e di seguito sulla specificità ed il minor grado di allusività della provocazione. Siffatta verifica avrebbe potuto condurre a fondare un giudizio di sostenibilità e giustificabilità della condotta dell’agente, quando il dato fattuale contenuto nella provocazione - sebbene non tale da offendere alcun individuo – avesse potuto ragionevolmente generare nell’imputato la convinzione di aver subito un’accusa infamante per uno dei suoi avi. Tale ragionevolezza richiede che la supposta provocazione riposi su dati almeno minimamente obiettivi, e non costituisca un mero moto psicologico. Tuttavia il rischio processuale sarebbe stato quello di ampliare l’istruzione a fatti cronologicamente distanti e non pertinenti alle contestazioni, a danno delle esigenze di economia processuale che di sovente sono in grado di determinare gli esiti degli accertamenti penali. Valga l’occasione per riferire che un’eventuale fondatezza introspettiva e psicologica dello stato d’ira che ha determinato l’offesa avrebbe potuto consentire di ritenere applicabile la c.d. legittima difesa putativa, non codificata dal legislatore, tuttavia ricavabile dalle previsioni generali in punto di elemento soggettivo e la cui cittadinanza pare consolidata nella giurisprudenza di legittimità. La provocazione e l’attenuante ex articolo 62 cod. penumero . Nonostante queste precisazioni, la severa Cassazione non ritiene nemmeno raggiunta quella soglia – minimale – di ingiustizia dell’offesa tale da integrare almeno l’attenuante ex articolo 62, numero 2, c.p., la quale richiede una più generica offensività della condotta di provocazione in grado di determinare causalmente quello stato d’ira che ha mosso la reazione delittuosa. La provocazione avrebbe dovuto colpire interessi anche se non giuridicamente tutelati – in senso stretto ed in relazione ad uno specifico corpo di norme -, tuttavia fondati da una «consistenza» socialmente rilevante, siccome ad essere violate sono norme di costume o di convivenza sociale che avrebbero limitato l’adesione psicologica dell’agente ad una azione interamente rivolta a ledere l’altrui diritto. In questo caso la Cassazione propende per una soluzione ermeneutica della norma che fa prevalere la verifica del dato oggettivo e normativo, costituito dalla ricerca di quelle norme socialmente condivise – ad esempio di rispettabilità sociale o professionale – la cui lesione avrebbe motivato l’insorgere di uno stato d’ira, rispetto al dato soggettivo puro. La verifica di quest’ultimo riposa su una valutazione psicologicamente caratterizzata ed in quanto tale malferma ed ipotetica, inidonea a conferire stabilità processuale e certezza applicativa alla circostanza attenuante in commento. Per la Cassazione, l’estrema genericità di quella asserita provocazione escluderebbe in nuce l’incidenza lesiva sulla dignità della persona rispetto ad un valore sociale condiviso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 5 ottobre 2011 – 17 febbraio 2012, numero 6471 Presidente Colonnese – Relatore Scalera Osserva P.E. propone ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Lanciano del 4 marzo 2010, che aveva confermato la condanna pronunciata a suo carico da quel giudice di pace per il reato di ingiurie in danno di M.L. , avvocato, cui aveva detto che stavano facendo morire di fame il nonno, salvato da lui che gli portava qualcosa da mangiare. Deduce il ricorrente con sei motivi da ricorso, che possono riassumersi come segue, affetto di motivazione sulla ricostruzione del fatto e sull'elemento psicologico del reato difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell'articolo 599 cpp difetto di motivazione per erronea applicazione dell'art, 35 dei D.Lgs. 274/2000 difetto di motivazione sulla quantificazione del risarcimento del danno. Il ricorso è destituito di fondamento. Come si evince specialmente dalla sentenza di primo grado, che deve intendersi come integrativa di quella di secondo grado, l'illecito era stato consumato nel corso di operazioni peritali che si svolgevano nell'ambito di un giudizio civile pendente tra le parti. in particolare la condotta dell'imputato era stata valutata come dotata di incidenza particolarmente denigratoria perché consumata in presenza del perito e di astanti che ben conoscevano la professione di avvocato della parte lesa. La sentenza impugnata ha dato allora specificamente conto della sussistenza degli elementi costituti del reato con puntuale disamina delle risultanze processuali, e specialmente di quanto avevano dichiarato i testimoni presenti. Quanto all'esimente invocata, come aveva esattamente rilevato già il primo giudice, l'espressione denigratoria era stata pronunciata in risposta alta domanda rivolta dalla parte lesa all'imputato sul se la lite in corso avesse la sua scaturigine in un astio risalente, nutrito dall'imputato nei confronti del nonno dei teso, che aveva rifiutato di vendergli un fondo. Orbene, la sentenza impugnata ha ritenuto motivatamente con il primo giudice che la domanda del M. non aveva valore di fatto ingiusto, di modo che l'imputato non aveva motivo di adirarsi. La motivazione sul punto è ragionevole ed esaustiva, né è affetta da illogicità o contradditorietà che ne inficerebbero rimpianto logico argomentativo. Quanto poi all'asserito errore nell'applicazione dell’articolo 35 D.Lgs. 274/2000, i giudici del merito danno conto delle ragioni che inducevano a ritenere inadeguata la somma di Euro 200,00= offerta a titolo di ristoro del danno, in considerazione del disdoro che aveva attinto la parte tesa in ragione detta sua professione e dell'ambiente qualificato nel cui ambito era stato consumato il reato. Per gli stessi motivi i giudici del merito avevano ritenuto congrua la somma di 1.000,00= Euro liquidata in favore del leso a titolo di risarcimento dei danno. In conclusione tutti i motivi di impugnazione sono infondati, di modo che il ricorso merita rigetto. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alta rifusone delle spese in favore della parte civile che liquida in Euro 1.200,00= oltre accessori come per legge.